Curare la leucemia linfoblastica Philadelphia positiva (Ph+) senza chemio non è più un’utopia. Al Policlinico di Milano, è in fase di sperimentazione una nuova terapia che permetterebbe “una sopravvivenza globale del 95% a 18 mesi”. Si tratta di un risultato eccellente, considerato un successo che migliora significativamente gli standard delle terapie attualmente utilizzate.
La leucemia linfoblastica acuta è prevalentemente una malattia infantile, con circa il 75% dei casi che si verifica in pazienti di età inferiore ai 6 anni. Nello specifico la Ph+ rappresenta il 4% delle leucemie linfoblastiche acute ed è caratterizzata da un'anomalia del cromosoma 22, chiamato “Philadelphia”.
Fino a pochi anni fa, l’unica speranza era il trapianto di cellule staminali ematopoietiche che, pur portando alla guarigione oltre il 60% dei malati, comporta un rischio di complicanze a breve e lungo termine. Negli ultimi decenni, ci sono stati rapidi progressi nel trattamento e nel miglioramento delle terapie per questa patologia, tanto che la sopravvivenza per i bambini di età inferiore ai 15 anni è migliorata fino a oltre il 90% e la sopravvivenza di tutti i giovani adulti adolescenti è passata dal 70% all'80%.
Tuttavia, questi regimi generalmente non sono tollerati dagli anziani. I pazienti che hanno più di 60 anni hanno ancora una sopravvivenza a lungo termine di circa il 20% o meno e questa situazione rende necessarie nuove terapie.
Il trattamento, attualmente in fase di studio, non utilizza la chemioterapia nelle fasi iniziali della terapia, ma la combinazione di un inibitore delle tirosin chinasi (dasatinib) e di un anticorpo monoclonale bispecifico (blinatumomab). Ciò riduce, ovviamente, gli effetti collaterali più pesanti.
Si tratta quindi di un protocollo estremamente mirato. “Con questo trattamento riusciamo a stimolare il sistema immunitario che si attiva contro il tumore e gli effetti collaterali sono limitati”, ha raccontato Robin Foà, professore di Ematologia all’Università Sapienza di Roma e coordinatore del gruppo di ricercatori che ha condotto lo studio clinico, a Gimema.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal Medicine, che vede tra i suoi autori Nicola Fracchiolla, responsabile del Programma Leucemie acute dell’Unità di Ematologia del Policlinico di Milano, e la Fondazione Gimema (Gruppo Italiano Malattie EMatologiche dell’Adulto).
L’idea di un trattamento chemio-free nasce nel 2000 quando gli esperti, che si stanno occupando dello studio, proposero la allora nuovissima terapia con inibitori delle tirosin-kinasi per i pazienti anziani che non potevano sopportare una cura con un protocollo chemioterapico. Ovviamente, la novità sta nell’inserimento del Blinatumumab, un anticorpo monoclonale bispecifico che lega cioè contemporaneamente un anticorpo alla cellula leucemica provocandone la distruzione “mirata”.
I dati finora raccolti sono eccellenti, pare che questa combinazione abbia permesso di ottenere una sopravvivenza globale del 95% e una sopravvivenza libera da malattia dell’88% a 18 mesi dalla diagnosi. E tutto ciò con pochi effetti tossici e brevi tempi di ricovero. Ovviamente, è necessario ampliare i dati, che dovranno essere confermati da nuove sperimentazioni, ma si sta aprendo una strada importante per la cura di questa patologia.
Fonte | “Dasatinib–Blinatumomab for Ph-Positive Acute Lymphoblastic Leukemia in Adults” pubblicato il 22 ottobre 2020 sul New England Journal Medicine.