Alzheimer: come riconoscerlo e gestirlo? Ce lo spiega la dottoressa Sinforiani

Di solito, l’Alzheimer si manifesta con una perdita di memoria, ma non è semplice distinguerlo subito dai normali cali delle funzioni cognitive legati all’età che avanza. La dottoressa Elena Sinforiani, della Fondazione Mondino di Pavia, risponde ad alcuni dei più comuni dubbi sulla malattia e su come bisogna comportarsi con un parente che ne è affetto.
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Giulia Dallagiovanna 21 Settembre 2019
* ultima modifica il 23/02/2024
Intervista alla Dott.ssa Elena Sinforiani Responsabile del Centro Diagnosi Disturbi Cognitivi e Demenza dell'Istituto Neurologico IRCCS Fondazione Mondino di Pavia

Se hai avuto un parente affetto da Alzheimer, prima o poi te lo sarai chiesto: "E se accadesse anche a me?" Oppure a qualcuno che ti è molto vicino? Già, se a un certo punto la memoria iniziasse a vacillare talmente tanto che non ci si ricorda più nemmeno quale sia la propria casa? O se diventassi dipendente in tutto da un'altra persona che deve prendersi cura di te? Sono domande che fanno paura non solo a te, ma a chiunque. Il problema infatti è che per quella che è la forma più diffusa di demenza senile non esiste ancora una cura, né una vera e propria forma di prevenzione. Al momento, ci sono solo terapie che aiutano a migliorare la vita della persona malata e dei suoi famigliari e alcune strategie per rafforzare il tuo cervello, in modo da rimandare l'insorgenza il più possibile.

Per il resto, la miglior difesa rimane la conoscenza di questa malattia neurodegenerativa. In occasione della Giornata mondiale dell'Alzheimer, abbiamo chiesto alla dottoressa Elena Sinforiani, responsabile del Centro Diagnosi Disturbi Cognitivi e Demenza dell'Istituto Neurologico IRCCS Fondazione Mondino di Pavia, di chiarire quelli che probabilmente sono i primi dubbi che ti assalgono.

Dottoressa Sinforiani, quali sono i primi sintomi ai quali prestare attenzione perché potrebbero preannunciare l'Alzheimer?

I primi sintomi sono, in realtà, molto sfumati. Non è così semplice accorgersi che qualcosa non va. Forse risulta più evidente in un soggetto più giovane, in caso di Alzheimer precoce, perché quando una persona lavora ancora si notano subito le disattenzioni, le dimenticanze e la maggiore difficoltà a svolgere compiti che prima eseguivano più facilmente. Ad esempio, un'eccessiva lentezza o incapacità di imparare ad usare programmi nuovi per il computer o nuove procedure che riguardano le proprie mansioni.

Una volta superati gli 80/85 anni, invece, viene già messo in conto che la memoria e le funzioni cognitive possano subire un calo, che però deve essere proporzionale all'età. Altri aspetti a cui prestare attenzione possono riguardare il carattere: una maggiore irritabilità, la tendenza a essere troppo sospettosi, un cambio evidente nella personalità, che ad esempio da tranquilla diventa più nervosa o viceversa. Allo stesso tempo, alcuni segnali si ritrovano nelle abitudini: iniziare a perdere interesse per attività che prima si svolgevano con piacere o con regolarità. Infine, il disorientamento. Non riconoscere una strada che si è sempre percorsa, uscire per una passeggiata a piedi o per un giro in macchina e perdersi senza ragione.

Il primo ad accorgersi che sta accadendo qualcosa di strano è generalmente il parente o chi è vicino alla persona interessata, mentre questa tenderà più facilmente a minimizzare. E in effetti, dimenticanze di questo tipo possono essere legate alla vecchiaia, ma se diventano sempre più importanti sarà il caregiver a capire che bisogna attribuirgli un peso diverso.

L'Alzheimer ha spesso manifestazioni simili a quelle di altri tipi di demenza senile: come si può capire che si tratta proprio di questa patologia specifica?

È vero. I disturbi comportamentali, ad esempio, sono frequentissimi in tutti i tipi di demenza senile. Di solito, si parla più generalmente di Alzheimer perché è la tipologia più diffusa e compare in oltre il 60% dei pazienti con più di 65 anni che lamentano questo genere di sintomi. La diagnosi, però, serve proprio per identificare in modo corretto la patologia ed escludere altre possibili cause che possano portare a manifestazioni simili, come disturbi metabolici, endocrini o cardiovascolari, che magari sono trattabili in altro modo.

È importante che la diagnosi venga fatta nelle fasi iniziali della malattia, quanto è più facile distinguere la forma di demenza

L'iter diagnostico parte dall'esame clinico e da un'anamnesi accurata del paziente, in cui bisogna prendere in considerazione l'esordio del disturbo e la durata degli episodi che preoccupano. A seguire, si procede con un esame di obiettività neurologica, per escludere eventuali altre cause come un ictus, e una valutazione neuropsicologica, che, soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, può fornire maggiori indicazioni. È proprio all'inizio infatti che si distinguono più facilmente le diverse forme di demenza. A mano a mano che si va avanti nel tempo, invece, aumenta la compromissione cognitiva e i sintomi diventano sempre più simili. Ad esempio, nel 90% dei casi l'Alzheimer esordisce con un disturbo della memoria, mentre altre malattie colpiscono prima il linguaggio o hanno una localizzazione frontale, dove si allentano i freni inibitori.

Per approfondire la diagnosi è poi fondamentale la parte di neuroimaging, come la risonanza magnetica, per visualizzare il cervello. I risultati sono poi integrati da esami ematochimici e genetici, con un'attenzione particolare soprattutto al funzionamento della tiroide. In casi particolarmente complessi, lo specialista, cioè un Neurologo o un Geriatra, può poi prescrivere una PET che può aiutare a chiarire qualche dubbio. Di recente, si è poi aggiunto l'esame del liquor, ovvero del liquido cerebrospinale, che permette la determinazione del dosaggio di alcune proteine che aiutano a indirizzare verso la diagnosi corretta.

A proposito di disturbi comportamentali, come dovrebbe gestirli il caregiver? È meglio assecondare il comportamento di chi è affetto da Alzheimer o cercare di richiamarlo alla realtà?

Capita spesso che il caregiver, che di solito è il parente, non riesca a gestire e sostenere il peso psicologico dei disturbi comportamentali del paziente, che a questo punto viene affidato a istituti di cura appositi. In effetti, capire come sia meglio affrontarli non è immediato e dipende molto dal caso specifico. Tra le cause di tali disturbi vi possono essere condizioni mediche, come la febbre, un problema urinario oppure un'infezione. Il paziente però non riesce a spiegare i sintomi o a esprimere a parole l'origine del disagio, così lo manifesta con reazioni che sembrano incomprensibili, ad esempio con aggressività, ma che sono dettate dalla paura o dall'angoscia.

Tipicamente questi disturbi emergono quando subentrano dei cambiamenti, magari in casa o con l'arrivo di una nuova badante, oppure mentre qualcuno si sta occupando della sua igiene personale. Nei casi in cui si identifica l'origine, si può agire su questa e cercare di risolvere così il problema. Nella maggior parte delle occasioni, però, non è per nulla semplice capire cosa si nasconda alla base e si è quindi costretti a intervenire con una terapia farmacologica.

Questo discorso vale anche in caso il paziente abbia degli episodi di allucinazioni?

Sì, perché se il paziente ha delle allucinazioni, è probabile che viva queste situazioni con ansia e bisogna quindi calmare la sensazione spiacevole attraverso dei farmaci appositi, prima di tutto per il suo benessere e poi per agevolare il compito del caregiver. Si agisce però sempre per portare un miglioramento, perciò se una persona sembra tranquilla si cerca di limitare l'uso di medicinali.

Le allucinazioni si verificano soprattutto in certi momenti della giornata o in particolari condizioni

Di solito questi episodi si verificano soprattutto in certi momenti della giornata, cioè verso sera, quando diminuisce la luminosità, o al risveglio. Accade soprattutto in certi tipi di demenza, che magari si accompagna al Parkinson, oppure a un disturbo della vista: la maculopatia, ad esempio, porta il paziente ad associare le ombre a un oggetto o a una persona presente nella stanza, anche se in questo caso è più corretto parlare di dispercezione. I disturbi dell'udito, allo stesso modo, fanno sì che determinati rumori vengano interpretati come parole e questo naturalmente genera confusione.

Quindi il modo migliore per alleviare i sintomi dell'Alzheimer rimane comunque la terapia farmacologica?

È così. Quando i disturbi comportamentali non sono più gestibili in altri modi, è necessario intervenire con i farmaci, per migliorare la qualità della vita della persona e di chi le sta attorno. Si è discusso a lungo su quanto questi medicinali fossero sicuri oppure pericolosi, ma se vengono utilizzati quotidianamente garantiscono un certo margine di sicurezza. Per quanto riguarda i disturbi cognitivi, è vero che la ricerca procede un po' a rilento. Sembrava che alcune sperimentazioni potessero dare risultati incoraggianti, ma alla fine non è stato così, per cui si utilizzano ancora le cure che vengono impiegate da circa una ventina d'anni a questa parte e soprattutto si insiste sulla prevenzione.

A proposito di prevenzione: si può evitare di ammalarsi di Alzheimer?

Purtroppo no: se l'Alzheimer deve insorgere, a un certo punto si presenterà. Si può però intervenire sui fattori di rischio come quelli cardiovascolari, la pressione arteriosa e malattie metaboliche, come il diabete, che possono contribuire a provocare danni a livello cerebrale. In generale, è importante mantenere il fisico in buona salute e quindi praticare anche attività fisica, naturalmente in una quantità correlata alla propria età. Ma ancora più utile sembra essere l'attività intellettuale: coltivare diversi interessi, allenare l'attenzione, leggere, dedicarsi ad attività nel tempo libero e avere rapporti sociali. Tutti questi comportamenti sembrano avere un effetto protettivo nei confronti del cervello.

In poche parole, ci si ammala lo stesso, ma magari quando si è più avanti con l'età. E ottenere un risparmio di cinque anni è già un risultato positivo, anche perché ci si avvicina alla fine naturale della vita e si può passare meno tempo con la demenza. Ci sono studi importanti che hanno dimostrato come chi ha un elevato livello di scolarità e ha sempre svolto una professione di tipo intellettuale, risulta più protetto. Ha sviluppato insomma delle difese più forti e che permettono di fronteggiare meglio possibili danni cerebrali. È il concetto di riserva cognitiva.

Potrebbe fare un esempio?

In America è stato effettuato uno studio, chiamato poi Nun Study, perché i ricercatori hanno preso in esame delle suore di clausura, per essere sicuri di lavorare su un campione che presentasse le stesse condizioni di vita, seguisse lo stesso tipo di alimentazione e vivesse nello stesso ambiente protetto rispetto all'esterno. In questo modo, assumeva più rilevanza il patrimonio genetico di ciascuna di loro. La ricerca è iniziata negli anni '70 ed è proseguita per molti anni.

Le suore hanno dato il proprio consenso ad effettuare l'autopsia una volta decedute ed è emerso proprio quello di cui parlavo prima: alcune di loro, che in apparenza non presentavano disturbi cognitivi, avevano già nel cervello le prime alterazioni tipiche dell'Alzheimer e se fossero vissute più a lungo probabilmente avrebbero mostrato i sintomi della malattia. Ma proprio loro avevano anche avuto un'attività intellettuale maggiore rispetto alle altre. Sono state analizzate anche le lettere che scrivevano ed è apparso chiaro come chi utilizzava un linguaggio più ampio e un vocabolario più ricco aveva anche un organo cerebrale più sano e più pronto a contrastare la demenza.

Dunque, la presenza di una buona riserva cognitiva permette di mantenere un buon funzionamento intellettivo anche a fronte delle prime alterazioni provocate da questa forma di demenza.

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