Giornata nazionale personale sanitario medici

Anche i medici sono vittime della crisi del sistema sanitario: la voce di due generazioni a confronto

In occasione della terza Giornata nazionale del personale sanitario due medici, colleghi di reparto, ma nati a distanza di 30 anni, raccontano cosa significa lavorare in ospedale oggi e cos’è cambiato rispetto a ieri.
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Maria Teresa Gasbarrone 20 Febbraio 2023
* ultima modifica il 20/02/2023
Intervista a Dott. Marco Semprini e Dott.ssa Silvia Antonini Rispettivamente Medico chirurgo e dirigente medico e Medico specializzando in Medicina interna presso l'Ospedale Sandro Pertini di Roma

Durante la pandemia li abbiamo chiamati "eroi", a loro abbiamo dedicato statue e perfino una ricorrenza pubblica, la Giornata nazionale del personale sanitario, eppure i medici e quanti lavorano oggi nella sanità si trovano a fare ancora troppo spesso i conti  con condizioni di lavoro critiche, che nel migliore dei casi rendono difficile lo svolgimento del loro lavoro, nel peggiore mettono a rischio la loro stessa vita.

La Giornata ricorre il 20 febbraio, in memoria del giorno in cui nel 2020 a Codogno venne scoperto il paziente uno. Anche se sono trascorsi tre anni dalla sua istituzione, il quadro in cui versa la sanità pubblica però è tutt'altro che migliorato. Al contrario di quanto promesso durante la pandemia ben poco si è fatto per tutelare la professione e la professionalità di medici e operatori sanitari. Anzi alcune cose sono anche peggiorate.

Ma sulla crisi attuale quanto peso hanno avuto gli errori del passato? Cosa significa oggi diventare medico? Cos'è cambiato rispetto a qualche decennio fa? Abbiamo posto queste domande a due colleghi, il dottor Marco Semprini e la dottoressa Silvia Antonini. Colleghi nell'Ospedale Sandro Pertini di Roma, Semprini, classe 1963, è un medico chirurgo di lunga esperienza, Antonini, nata nel 1993, è una giovane internista all'ultimo anno di specializzazione.

medici
Foto di Marco Semprini (a sinistra) e Silvia Antonini (a destra)

Cosa significa diventare medici

In dieci anni (2010-2020) in Italia sono stati chiusi 111 ospedali e disattivati 113 pronto soccorso, mentre nelle strutture rimaste attive i posti letto sono diminuiti di 37mila unità, intanto però le liste d'attesa si fanno sempre più lunghe. Basterebbero questi dati elaborati da Cimo-Fesmed a rendere l'idea di quanto la situazione nella sanità pubblica sia critica. A pagarne le conseguenze non sono però solo i pazienti.

Tra il 2010 e il 2020 in Italia sono stati chiusi 111 ospedali e disattivati 113 pronto soccorso

La carenza di personale sanitario e il carico di lavoro in eccesso rispetto alle risorse pesano anche sulle spalle degli stessi operatori sanitari.  In alcuni casi la situazione diventa così critica da ledere gli stessi diritti fondamentali dei medici: "Oggi un medico ospedaliero su quattrospiega Pietro Dattolo, presidente dell'Ordine dei Medici di Firenze rinuncia alla sua salute per turni di lavoro massacranti".

A causare questo cortocircuito è in primis la mancanza di un adeguato turnover. In poche parole i nuovi assunti sono meno dei medici uscenti (per licenziamento o pensionamento). Secondo alcune stime elaborate da Anaoo Assomed tra il 2016 al 2025 il Sistema sanitario nazionale sta perdendo 728 specialisti all'anno.

Dietro lo svuotamento delle corsie ci sono tante cause anche molto complesse, ma di certo parte del problema è da attribuire al passaggio dall'accesso libero al numero chiuso per l'ingresso a Medicina. Nello specifico non si è stati capaci di prevedere soglie di sbarramento adeguate per garantire il reintegro di personale negli anni a venire.

Un sogno difficile da realizzare

"Quando ho fatto io il test, circa dieci anni fa, l’accesso era a numero chiuso, con una stima di un vincitore ogni otto/nove candidati, a seconda del numero di persone partecipanti – spiega la dottoressa Antonini, ormai quasi al termine del suo percorso formativo – Quelli della mia generazione hanno vissuto il test come una sorta di mostro". Ma le cose non sono sempre state così.

Per la mia generazione il test di ingresso era diventato un mostro. Lo passava uno su otto.

Silvia Antonini, medico specializzando in Medicina interna

Lo conferma il dottor Semprini: "Quando mi sono iscritto a Medicina, nel 1982, l’accesso era ancora libero il numero chiuso è stato introdotto nel 1987 – Non trovo il test d’ingresso uno strumento utile, anzi potrebbe essere perfino dannoso, perché il rischio è quello che venga impedito l’accesso a ragazzi che potrebbero diventare bravi medici, sulla base di motivi che poco hanno a che fare con la loro preparazione (fattore emotivo, stress, una giornata non buona)".

Il rischio del numero chiuso è quello di chiudere la porta a potenziali futuri bravi medici per motivi che poco hanno a che fare con la meritocrazia.

Marco Semprini, medico chirurgo

Ai suoi tempi – aggiunge il chirurgo – la selezione avveniva naturalmente: "Il primo anno di Medicina eravamo 500 studenti, ma a laurearci siamo stati in 200: chi non aveva voglia di studiare, non aveva gli strumenti adeguati, o semplicemente capiva che quella non era la sua strada lasciava gli studi prima della laurea. Il vero test erano i primi tre esami – chimica, istologia e anatomia – che non essendo suddivisi in più moduli com'è oggi erano forse anche più difficili".

Se il lavoro mette a rischio la vita

"È  un giorno importante in cui voglio semplicemente dirvi grazie per il lavoro straordinario che avete fatto in questi mesi così difficili". Con queste parole con l'ex ministro della Salute Roberto Speranza inaugurava la prima Giornata nazionale del personale sanitario, ma chissà cosa ne pensano oggi le migliaia di medici e operatori sanitari aggrediti o minacciati ogni anno?

In media ogni anno 2.500 operatori sanitari sono vittime di aggressioni o minacce

Nel quinquennio 2016-2020 l’Inail ha accertato più di 12mila casi di violenze, aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario. Una media di circa 2.500 all’anno. Secondo un sondaggio realizzato da Anaao Assomed nel 2020, il 65% dei medici ha riferito di essere stato vittima di aggressioni. Il 66,19% ha subito aggressioni verbali, il 33,81% ha subito aggressioni fisiche. Ma la percentuale sale all'80% per i medici in servizio nei pronto soccorso e al 118.

"Si è rotto il rapporto medico-paziente"

Le aggressioni rappresentano però solo l'apice di un problema più ampio: il rapporto tra medico e paziente. Oltre ai casi di violenza, fare il medico oggi – spiegano Antonini e Semprini – ormai è diventato una sfida anche per l'incrinarsi del rapporto di fiducia tra paziente e personale sanitario.

Mi è capitato anche di venire registrata. Viviamo una continua messa in discussione della nostra professione.

Silvia Semprini

"Anche se sono agli inizi della mia carriera – racconta la dottoressa Antonini – mi è capitato spesso di dover fare i conti con pazienti che hanno messo in dubbio la mia professionalità.  Mi è successo perfino che mi registrassero durante i colloqui. Sono sempre di più quelli che richiedono la copia della cartella clinica per avere un doppio parere in un'altra struttura, alcuni miei colleghi sono stati anche denunciati. Insomma, viviamo una continua messa in discussione".

L'attacco ai danni del medico – spiegano i rappresentanti di categoria – può infatti avvenire anche in tribunale. Secondo le stime calcolate a fine 2019 dal Collegio Italiano dei Chirurgi (CIC) dei 35mila procedimenti che si aprono ogni anno oltre il 90% si risolve in un nulla di fatto. La maggior parte riguardano presunti maltrattamenti da parte del personale sanitario piuttosto che errori nella terapia. Ma allora cosa spinge un paziente a denunciare il medico o la struttura sanitaria che lo ha seguito?

Anche qui le cause sono molte, ma di fondo è cambiato il modo in cui i pazienti concepiscono la figura del medico.

Il ruolo del medico ieri e oggi

"In questi trent'anni di carriera – spiega Semprini – ho visto con i miei occhi come si è stravolto il rapporto medico-paziente. Fino a qualche tempo fa il medico veniva visto come una sorta d taumaturgo che poteva tutto e a cui era concesso anche l’errore, ovviamente in buona fede. Oggi invece noi medici ci sentiamo bersaglio di tutti, dalla classe dirigente ai giudici passando per i pazienti. Non voglio fare generalizzazione ma la sensazione che proviamo è questa".

Prima il web, poi i social e le teorie complottiste. Tutto questo ha contribuito a far sentire i medici sempre più sulla difensiva: "Il dottor Google sdrammatizza il chirurgo del Pertini – ha molto complicato le idee. È giusto che il paziente sia informato ma il problema nasce quando nel rapporto medico-paziente, per definizione asimmetrico, si perdono i ruoli. Il paziente non può credere di essere più competente del medico".

Il problema della burocratizzazione

C'è un altro fattore però che rende sempre più difficile la comunicazione con il paziente: l'eccessiva burocratizzazione.

Il tempo che dobbiamo dedicare alla parte burocratico è tempo tolto al paziente.

Silvia Antonini

"Negli anni 90, agli inizi della mia carriera, quando prendevo in carica un paziente – ricorda Semprini – avevo modo e tempo di dedicarmi a lui, di parlare con lui e conoscere il suo percorso e questo faceva la differenza per la terapia".

"Oggi invece – lo anticipa la dottoressa Antonini –  dobbiamo occuparci anche della parte burocratica e compilare carte su carte. Questo ovviamente ci toglie tempo da dedicare al paziente e la possibilità di instaurare un vero rapporto umano con lui/lei. Credo che se oggi la fiducia da parte del paziente è venuta meno dipende anche da questo".

"Non lavoriamo in condizioni ottimali"

Tra difficoltà di accesso alla professione, plichi su plichi da compilare, la paura di finire denunciati o di essere aggrediti, la vita dei medici oggi è tutt'altro che semplice e la pandemia c'entra ben poco.

"Nella mia carriera –  conferma Semprini – ho testato vari ambiti e ho sperimentato tanti contesti e modi diversi di vivere questa professione e posso dire che il problema del carico di lavoro è molto soggettivo. Io ho avuto turni massacranti ma lavorando in condizioni ottimali non mi pesavano. È proprio questo che fa la differenza: lavorare nelle giuste condizioni ed oggi queste non ci sono".

Per questo – sia Semprini che Antonini – insistono sulla necessità di restituire al medico il ruolo che gli compete per definizione. Per quanto riguarda il rapporto paziente-medico servirebbe invece più consapevolezza e maggiore formazione in fatto di comunicazione sanitaria, un aspetto – sottolineano i due medici – finora troppo trascurato.

"È una questione molto complessa ma che – propone Semprini – potrebbe essere risolta in modo molto semplice: formando il personale sanitario e informando i pazienti".

Fonti | Cimo-Fesmed, Anaao Assomed, Inail

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