Autismo over 18: quella condizione che in Italia non esiste

L’autismo viene considerato un disturbo legato all’adolescenza e a livello pubblico non esiste nessun percorso per il dopo. Le uniche alternative all’isolamento vengono da associazioni e fondazioni nate su iniziativa di famiglie per rispondere alla domanda “cosa accadrà quando noi non ci saremo più?”. Abbiamo parlato con alcune di loro per capire di cosa avrebbero bisogno.
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Giulia Dallagiovanna 31 Gennaio 2022
* ultima modifica il 02/04/2022
Con la collaborazione della Prof.ssa Rita Di Sarro Specialista in Psichiatria, Psicologia Clinica e Neurologia e direttore del programma Disabilità e salute dell'Ausl di Bologna

Esistono persone adulte con autismo? La risposta naturalmente è sì, ma non è un'affermazione scontata. A livello pubblico, non si trova nessun progetto per over 18. L'autismo è considerato un disturbo legato all'adolescenza e di conseguenza non si costruisce nulla per il dopo. Ma con il passaggio all'età adulta vengono a mancare due pilastri che hanno sempre fatto parte della quotidianità: la scuola e i centri diurni specializzati. Un ragazzo si ritrova da solo, a casa, senza nulla da fare.

Le alternative all'isolamento nascono da iniziative private che nella maggior parte dei casi sono state pensate da genitori con lo stesso problema: dare un futuro al proprio figlio. Percorsi di inserimento lavorativo e di residenzialità, centri specializzati per la gestione di adulti autistici, conquista dell'autonomia per quanto possibile. Accanto alla esperienze più famose, come PizzaAut a Milano o Cervelli Ribelli a Roma, si trova una costellazione di associazioni e fondazioni che ogni giorno costruisce pezzo per pezzo il domani. Il più delle volte basandosi unicamente sulle proprie forze.

"Dieci anni fa partecipai a un convegno a Treviso, tra l'altro in una regione, il Veneto, anche piuttosto avanti su questo frangente. Una delle relatrici affermò che in tutto il territorio di una ULSS si contava una sola persona autistica adulta. Io scoppiai a ridere e gli dissi ‘Vi sta arrivando addosso uno tsunami". Mario Paganesi, che nel 2009 ha dato vita alla Fondazione Oltre il Labirinto, fa riferimento al fatto che in Italia circa 1 bambino ogni 77 è affetto da un disturbo dello spettro autistico, mentre a livello europeo si parla di 1 su 100. "Il che significa almeno 600mila persone interessate in qualche modo da questa condizione". I numeri sono riportati dal Ministero della Salute, che però non è in grado di offrire una stima precisa perché non esiste una vera e propria banca dati e soprattutto "nessuna linea guida che contempli il caso di persone autistiche adulte". E fino a qualche anno fa, nemmeno una diagnosi. Al compimento del 18esimo anno di età, sulla cartella clinica il termine autismo veniva sostituito con quello di altri disturbi legati alla salute mentale: schizofrenia e oligofrenia erano i più comuni.

Il 18esimo compleanno

"I compleanni di mia figlia sono anche un momento di dolore. Non riesce a soffiare le candeline, non è interessata ai regali, e non c'è mai un'amica. Solo parenti ed educatori che con il tempo diventano un po' come degli amici". Benedetta Demartis è la vicepresidente nazionale di ANGSA (Associazione Nazionale Genitori perSone con Autismo), realtà attiva fin dal 1985, e ha una figlia autistica che oggi ha 30 anni. "Dopo i 18, viene a mancare la scuola, che era l'unica occasione di contatto con persone della loro età. I compagni proseguono gli studi o vanno a lavorare, continuando a coltivare la propria socialità. Un ragazzo autistico invece rimane a casa, senza niente da fare".

Se alla scuola materna il gap con i coetanei poteva nascondersi più facilmente, una volta raggiunta l'età adulta è quasi insanabile. Quando il tuo compagno di banco guida un'auto, esce con la propria fidanzata, organizza vacanze con gli amici, ti accorgi che qualche differenza c'è. "Un ragazzo inzia ad avvertire una certa frustrazione dentro di sè", spiega Camillo Scoyni, giornalista Rai e presidente di A.N.N.A.A. (Associazione Nazionale No all’Autismo), mentre ricorda l'esperienza con il figlio, ora 27enne.

L'autismo è un disturbo eterotipico: i comportamenti si modificano con il passare dell'età

L'autismo è un disturbo del neurosviluppo che viene definito eterotipico proprio perché la sintomatologia e i comportamenti subiscono una modifica con l'avanzare dell'età. Ma a cambiare sono soprattutto le richieste da parte dell'ambiente esterno. "Se alle elementari può ancora essere tollerabile che un bambino saltelli tutto il tempo o emetta versi e gridolini, alle superiori non è più contemplato – spiega la professoressa Rita Di Sarro, che dirige il programma Disabilità e salute dell'Ausl di Bologna e si occupa soprattutto di persone autistiche adulte. – Chi è in grado può imparare ad adattare i propri comportamenti affinché siano meglio accettati, ma bisogna possedere delle capacità specifiche dal punto di vista della competenza intellettiva per comprendere bene quali modifiche mettere in atto".

I centri diurni sono inadeguati

Per l'ambulatorio della professoressa Di Sarro passano decine famiglie di ragazzi autistici, che fino a qualche anno prima venivano seguite da un neuropsichiatra infantile. E i loro bisogni per il futuro non vengono del tutto soddisfatti. "L'accesso al mondo del lavoro non è semplice, nemmeno per chi ha qualche capacità. E la preparazione dei centri diurni non sempre è specializzata per questo disturbo".

I centri diurni per disabili adulti (CDD) sono diffusi su tutto il territorio nazionale ed erogano diversi servizi come attività riabilitative, educative e assistenza socio-sanitaria a persone che hanno tra i 18 e i 65 anni. Per accedervi, bisogna presentare una richiesta all'azienda sanitaria del proprio territorio e per molte famiglie quella diventa l'unica alternativa gratuita all'isolamento del figlio. Ma hanno diversi limiti. Prima di tutto, le disabilità accolte sono molto differenti tra loro, andando ad esempio dalla sindrome di Down a problemi motori. E in questo crogiuolo di problematiche, l'inserimento di un autistico può destabilizzare gli equilibri, ancor più se gli educatori non sono adeguatamente formati. E anche se lo fossero, il personale risulterebbe carente: il rapporto di norma è di 1 operatore ogni 7 disabili, mentre con l'autismo si dovrebbe scendere a 1 ogni 2.

"Siamo andati a visitarne alcuni e mi ricordo persone che urlavano o parlavano molto forte. Mio figlio, appena è entrato, si è tappato le orecchie con le mani e non le ha più tolte. Non li sto criticando a prescindere, è solo che non vanno bene per le caratteristiche dei nostri ragazzi". Anche Domenico Gava fa parte della Fondazione Oltre il Labirinto. Ha un figlio di 26 anni, Simone, che comunica solo attraverso le immagini.

Quando Domenico e sua moglie si sono ritrovati a corto di aiuti hanno fatto arrivare una terapista ABA addirittura dall'Inghilterra. "In Italia c'era un solo centro che seguiva questo metodo, l'Istituto Walden di Roma, ma ci risposero che nostro figlio di 12 anni era ormai troppo grande per intervenire. Così abbiamo contattato una specialista italiana che lavorava nel Regno Unito e ci siamo sobbarcati tutte le spese di viaggi e pernottamenti pur di dare un minimo di speranza a Simone".

In casa loro c'è un tabellone sul quale annotano tutti gli appuntamenti della settimana, in modo che Simone sappia sempre cosa lo aspetta e dove si troverà in quel determinato giorno. La paura dell'ignoto che prova ciascuno di noi di fronte all'incertezza, in un autistico è amplificata in modo esponenziale. Questo rende necessario pianificare una routine che si mantenga sempre uguale nel tempo e assegnargli compiti soddisfacenti, ma ripetitivi.

Credits photo: Associazione A.N.N.A.A.

La giusta routine

Ripetititivo non significa stupido. Se le richieste sono troppo semplici, viene a mancare la tensione verso l'apprendimento e subentrano noia e frustrazione. "Una volta ci hanno chiamato perché un ragazzo con autismo a medio funzionamento si era alzato dalla sedia solo tre volte in otto ore. Strano per un iperattivo. Si era stufato di mettere sempre la pallina blu nella scatola rossa. È un esempio provocatorio, ma non troppo distante dalla realtà. Un altro ragazzo invece ha resistito sei mesi e poi ha spaccato tutto", ricorda Mario Paganesi.

Si chiamano comportamenti problematici e sono l'espressione di un disagio emotivo che altrimenti non saprebbero come comunicare. Spesso sono di natura autolesionistica, come picchiarsi o mordersi. In altri casi, rivolgono l'aggressività verso l'esterno e quindi rompono gli oggetti, tirano calci a una porta oppure aggrediscono la persona davanti a loro. "In gergo tecnico si utilizza il termine ‘meltdown – chiarisce la dottoressa Di Sarro – e si verifica quando è stata accumulata talmente tanta carica emotiva che in qualche modo deve uscire. Faccio spesso questo esempio: se ci troviamo nella stazione di un paesino sperduto, in un posto straniero dove nessuno parla la nostra lingua e non sappiamo quale direzione prendere né come chiedere informazioni, ci faremo assalire dallo sconforto, ci verrà da piangere, da sbattere la testa contro il muro. Possiamo immaginare che qualcosa di simile accada nella mente di una persona autistica". E quando questa persona ha la forza di un adulto, la questione si fa complicata.

"I nostri ragazzi hanno difficoltà importanti, ma anche tante competenze. In confronto ad altre disabilità, hanno forse ancora più bisogno di essere coinvolti e avere il tempo occupato anche a livello motorio perché sono molto attivi. Serve un'offerta ricca e personale preparato, altrimenti è come tentare di aprire una porta con una chiave sbagliata". Priscila Beyersdorf è presidente ANGSA per l'area di Novara e Vercelli, dove si trova anche un Centro specializzato che accoglie in totale 200 persone, tra adulti e bambini a partire dai 2 anni di età. In un intero anno non hanno riscontrato nemmeno un comportamento problematico. L'equipe multidisciplinare che lo gestisce comprende diverse figure professionali come terapisti della neuropsicomotricità, logopedisti, terapisti della riabilitazione psichiatrica, educatori specializzati e psicologi. La presidente del Centro è la dottoressa Franscesca de Bernardi, psicologa: "Per noi è fondamentale conoscere molto bene il ragazzo prima di pensare a quale intervento mettere in pratica. Abbiamo imparato con gli anni che il progetto deve essere cucito su misura per la persona: non esiste nel nostro centro un ragazzo che abbia un progetto uguale all'altro".

Costruire una rete

Ma l'iniziativa, da sola, non basta. Come ci conferma de Bernardi, il grosso del lavoro è la costruzione di una rete di servizi in cui rientri anche la famiglia: "Perché poi sono i genitori che devono portare avanti gli obiettivi nel contesto di vita quotidiana del ragazzo. Ci siamo resi conto che non è possibile progettare se non vengono coivolte tutte le figure di riferimento a partire dalla scuola e poi i servizi sociali e la neuropsichiatria del territorio".

Uno snodo importante riguarda l'inserimento. Chi accoglie questi ragazzi deve essere accompagnato e preparato: l'inclusione stimola la voglia di imparare a svolgere determinati lavori, magari in un contesto di associazione o di volontariato. Questo rende una persona più soddisfatta di sè e di conseguenza più felice, con ripercussioni molto positive sulla serenità della famiglia.

E proprio verso l'inserimento è orientata la Fondazione Oltre il Labirinto, che nasce dall'intento di una decina di famiglie di colmare un vuoto: la mancanza di una strategia precisa nella gestione dell'autismo che permetta ai genitori di rispondere alla domanda più angosicante di tutte: "cosa accadrà quando non ci saremo più?". Nel 2008 Mario Paganesi si rivolse a quello che veniva considerato uno dei massimi esperti italiani, il professor Lucio Moderato, psicologo e psicoterapeuta, direttore del Centro diurno della Sacra Famiglia di Milano, a cui affidò la parte scientifica. Purtroppo, il professore è morto di Covid nel 2020.

"Proponiamo diverse attività, come laboratori dove fare il gelato, le passeggiate in bicicletta, la pittura, l'ortoterapia. Nella nostra rete sono incluse aziende del territorio, fattorie, piscine. Abbiamo cercato di sviluppare anche progetti di impresa sociale che generino ricavi e includano i ragazzi nel mondo del lavoro. In parte ci aiutano a coprire i costi della struttura, che altrimenti sono a carico delle famiglie oppure supportati dai fondi messi a disposizione dal Comune", spiega Paganesi.

Credits photo: Fondazione Oltre il Labirinto

La residenzialità

La vera sfida è la residenzialità. Negli ultimi anni progetti di co-housing più o meno grandi stanno nascendo in diverse parti d'Italia ed è questo il futuro verso cui le famiglie sperano di andare. Nel comune di Nazzano, vicino a Roma, si trovano le due residenze A.N.N.A.A. che accolgono fino a 18 ragazzi, tra adolescenti e adulti. "Ne stiamo già aprendo altre due, perché c'è molta richiesta. Saranno in provincia di Latina e nella zona di Frosinone, con un totale di 28 posti", spiega Scoyni.

Nelle case si cerca di formare una comunità, non suddividendo gli inquilini per compartimenti stagni ma cercando di favorire la vicinanza sulla base della compatibilità. Quattro o cinque di loro, ad esempio, hanno un autismo ad alto funzionamento, ovvero senza deficit intellettivo, e sono in grado di avere un'autonomia quasi completa. Hanno maggiori speranze di essere inseriti nel mondo del lavoro e nella vita sociale e per questo motivo vivono assieme, facendosi anche da mangiare da soli.

Altri ragazzi invece devono essere accompagnati più da vicino e il primo passo è la decostruzione di una routine scorretta che hanno acquisito in famiglia, dove i genitori ormai a corto di risorse devono ricorrere a espedienti per farli restare tranquilli. "Una ragazza quando è arrivata da noi era abituata a bere 30 lattine di bibite in un giorno. Abbiamo lavorato su una nuova quotidianità, più salutare, fornendogli nuove certezze".

Il secondo, sono le relazioni. Tra le diverse attività proposte si cerca di ritagliare delle occasioni di incontro, come la merenda del pomeriggio o il semplice dormire nella stessa camera, per sviluppare dei legami tra i ragazzi e con gli operatori. "Sono affiancati da educatori giovani, ma formati appositamente per lavorare con autistici. Abbiamo ricercato persone che avessero più o meno la stessa età ed esperienze simili per farli crescere insieme, disabili e normodotati. Magari anche litigando e discutendo a volte, ma comunque creando un rapporto".

Una delle due residenze di Nazzano (RM). Credits photo: Associazione A.N.N.A.A.

E poi ci sono altre figure che mandano avanti le residenze, come i tecnici che si occupano della manutenzione ordinaria o chi gestisce la parte amministrativa. Ciascuno di loro è un pezzo importante nel puzzle di chi le abita. "Prima cucinavano gli operatori, ma non gli riusciva molto bene. Ogni mese avevamo quasi mille euro di danni perché i ragazzi tiravano gli oggetti, li rompevano, saltavano sui letti. Abbiamo avuto l'idea di assumere una cuoca, Simona, e da quel momento i problemi sono finiti. Quando sono soddisfatti per come mangiano, sono più sereni. È parte della terapia ed è sempre un'occasione di socializzazione".

Per ciascun ragazzo che abita nelle residenze A.N.N.A.A. esiste un progetto che viene rinnovato di anno in anno. Quando entra, non viene subito stabilito per quanto tempo rimarrà nella casa, anche se idealmente dovrebbe essere per tutta la vita.

Il peso sulle famiglie

Residenzialità, centri diurni specializzati, progetti di inclusione lavorativa. Un intero mondo socio-assistenziale che si regge sulla buona volontà e sui risparmi delle famiglie. "Il peso economico si avverte in maniera veramente tragica. Non arrivano grossi aiuti da parte delle istituzioni, ad eccezione di qualche progetto ad hoc finanziato di anno in anno dalla Regione o da qualche altro ente pubblico. Le linee guida sulla terapia ABA dicono che ogni ragazzo dovrebbe riceverne almeno 40 ore a settimana. Al centro di Treviso ne danno 45 minuti. Questa è la differenza che quello che serve e quello che si trova", riassume Domenico Gava.

"Quando si parla di autismo, bisogna conoscerlo davvero"

I tentativi dell'Italia sono fermi al 2015, con l'uscita della legge 134 per la tutela delle persone autistiche e delle loro famiglie. Tra i diversi provvedimenti contenuti, si obbligava l'Istituto superiore di sanità ad aggiornare le linee guida del 2011 che si riferivano solo all'età evolutiva, dimenticandosi dell'adulto. "E senza le linee guida, le Regioni non si sono attrezzate", sottolinea Benedetta Demartis. Sempre da legge, l'autismo dovrebbe essere inserito nei LEA, i livelli essenziali di assistenza, ovvero quel pacchetto di prestazioni e servizi gratuiti in carico al Sistema sanitario nazionale. L'ultima modifica è del 2017 ma, come ANGSA ha ricordato nel suo ultimo incontro al Ministero della Salute, dell'autismo non vi è ancora traccia. "La percezione di questo disturbo è cambiata anche dal punto di vista della Sanità – aggiunge Demartis, – che prima si limitava a prescrivere dei farmaci sedativi, mentre oggi cerca la strada della terapia anche per la persona adulta. Continua però a mancare un percorso completamente pubblico".

"Uno dei danni più grossi sull'autismo lo ha fatto il Cinema – denuncia Camillo Scoyni. – Ci ha convinto che i ragazzi autistici siano dei geni, che possano sbancare Las Vegas o diventare dei dottori superdotati. La realtà invece è che la maggior parte di loro ha difficoltà grandi. Si svegliano e passano quasi tutta la giornata confusi. Accade qualcosa che non rientra nella loro routine e vanno in ansia, sentono un rumore a si spaventano. È una situazione violenta per loro. Quando si parla di autismo bisogna conoscerlo davvero. Ricordo ad esempio un film francese, The Special, con Vincent Cassel. Raccontava proprio quello che facciamo noi: una comunità alloggio che va avanti, con tutte le fatiche e le soddisfazioni, riuscendo anche a ottenere dei risultati e a dare ai suoi ospiti una normalità che sia qualitativamente accettabile".

Credits photo: immagine di copertina di Fondazione Oltre il Labirinto

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