"L’Italia è capofila nel mondo e non è un modo di dire. Non c’è uno studio simile al mondo, dove i numeri siano così favorevoli in termini di prognosi dell'infarto, tanto è vero che si parla di modello italiano". In un Paese dove si tende più a denigrare che a lodare, il professor Giuseppe Tarantini, presidente della società italiana di Cardiologia interventistica (GISE), professore associato e direttore di Cardiologia Interventistica presso l’Università di Padova, ci offre invece una prospettiva del tutto diversa. Proprio lo studio DUBIUS, che lui stesso ha guidato, ha segnato un punto di svolta nel trattamento dell'infarto, al punto dall'andare a modificare le linee guida seguite fino a questo momento.
Professor Tarantini, lo studio DUBIUS si occupa nello specifico del tipo di infarto più diffuso, cioè quello in cui l'arteria coronarica è parzialmente occlusa. Come veniva trattato prima?
Fino al 2015, ma in alcuni casi anche fino al 2019, l'80% dei pazienti riceveva un trattamento a base di doppio farmaco antiaggregante. Stiamo parlando della terapia medica massimale, che veniva somministrata ancora prima di vedere le coronarie e poter dunque formulare una diagnosi definitiva. Il nostro studio ha cambiato questo atteggiamento, perché ha dimostrato che dare in maniera cieca a tutti i pazienti il massimo della terapia, prima ancora di fare la diagnosi, non porta nessun vantaggio.
Per chi poteva rappresentare un problema questo approccio?
Quando viene confermata la diagnosi di infarto, cioè si trovano restringimenti nelle coronarie, si decide di praticare l'angioplastica e quindi è corretto ricorrere ai farmaci. Ma si tratta del 70% dei casi. Esiste anche un 30% di pazienti che di fatto non necessita dei medicinali. Alcuni devono essere trattati con un bypass, ad altri invece non viene nemmeno confermata la diagnosi di infarto ed è quindi chiaro che non avranno bisogno di essere pretrattati per questa patologia.
Lo studio DUBIUS come ha riscritto le linee guida invece?
Lo studio DUBIUS dimostra che è meglio non pretrattare prima i pazienti, ma cominciare subito da una diagnosi precoce attraverso una coronarografia dal braccio. Solo a quel punto, si può eventualmente passare ai farmaci, con una terapia mirata e in base alle reali necessità del paziente. Queste sono anche le raccomandazioni delle nuove linee guida uscire in simultanea.
Quali problemi possono nascere nel trattare con farmaci antiaggreganti pazienti che non ne avrebbero bisogno?
I farmaci antiaggreganti rendono fluido il sangue, perciò possono anche avere degli effetti collaterali, tra cui i più gravi possono essere dei sanguinamenti. Sono casi più rari, ma è possibile che si verifichino. Non ha quindi senso somministrare dei farmaci così potenti a pazienti che forse non ne avrebbero la necessità. Circa un 10% delle persone con sospetto infarto non si vedono infatti confermata la diagnosi. Non solo, ci sono poi quelli che hanno bisogno di un bypass e l'assunzione preventiva dei farmaci potrebbe far allungare i tempi di degenza in ospedale. Ci sono dunque tutta una serie di situazioni che rendono non solo inutile, ma anche dispendioso l'utilizzo degli antiaggreganti.
Questo nuovo approccio consente dunque un risparmio di costi e un miglioramento della vita del paziente…
Consente di ridurre i giorni di degenza, ma anche di ridurre il combinato di morte per infarto, ictus e sanguinamenti maggiori al 3%, cioè meno della metà rispetto a quanto si è osservato in tutti gli altri studi. E questo anche grazie al fatto che in Italia la coronarografia viene eseguita partendo dal braccio, mentre nel resto dell'Europa e del mondo si passa dall'arteria femorale. Una modalità più comoda, ma che tende anche a provocare più facilmente un sanguinamento.