Contro le malattie neurodegenerative si cercano farmaci che possano arrivare direttamente al cervello

Il 90% delle terapie utili presenta un grande limite: non riesce a superare la barriera ematoencefalica e raggiungere il cervello. In questo modo, perdono di efficacia. Due progetti di ricerca italiani, premiati nell’ambito di UniMi Innova stanno provando a risolvere questo problema, concentrandosi per ora su Parkinson e Malattia di Huntington.
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Giulia Dallagiovanna 1 Luglio 2021
* ultima modifica il 02/07/2021
Intervista a Professoressa Marta Valenza, professore associato del dipartimento di Bioscienze e Professor Sandro Sonnino, del dipartimento di Biotecnologia e Medicina Traslazionale dell'Università degli Studi di Milano

Tutti noi abbiamo uno scudo molto importante che serve a proteggere il nostro cervello. Si chiama barriera ematoencefalica e fa in modo che le sostanze presenti nel sangue arterioso non raggiungano il sistema nervoso. Ma questa linea di difesa può diventare un'arma a doppio taglio. "Circa il 90% dei farmaci potenzialmente utili contro le malattie neurodegenerative non riesce a oltrepassare la barriera ematoencefalica, risultando così meno efficaci", spiega la professoressa Marta Valenza, professore associato del dipartimento di Bioscienze dell'Università degli studi di Milano. Assieme ad altri 4 progetti, quello presentato dal suo team di ricerca è stato premiato da UniMi Innova, nell'ambito dell'evento "Dalla conoscenza al futuro", ricevendo così finanziamenti importanti per poter proseguire il lavoro.

Ma non sono gli unici a essersi occupati della necessità di trovare strumenti che veicolino i farmaci fino al cervello. Anche il gruppo del professor Sandro Sonnino, ordinario di Biochimica e frequentatore del dipartimento di Biotecnologia e Medicina Traslazionale, si è posto lo stesso problema, in riferimento alla malattia di Parkinson. Parlare di questi due progetti significa capire meglio anche i tempi della ricerca e soprattutto la difficoltà di trovare il supporto economico necessario.

Gli oligosaccaridi contro il Parkinson

"Portiamo avanti questo lavoro da alcuni anni – spiega il professor Sonnino, – e abbiamo depositato anche il brevetto internazionale europeo e americano. Siamo arrivati piuttosto avanti: dobbiamo chiudere la fase preclinica per poi passare alla sperimentazione sull'uomo. Se tutto va bene, nel giro di 3 o 4 anni si potrebbe già trovare il farmaco in farmacia".

"Se tutto va bene, nel giro di 3 o 4 anni si potrebbe trovare il farmaco in farmacia"

La molecola che hanno disegnato si chiama OligoGM1 ed è un oligosaccaride. Dopo i primi esperimenti eseguiti su cellule in vitro, sono infatti emerse le sue proprietà neurotrofiche e protettive. In seguito, sono state iniettate in animali con parkinson sporadico e gravi problematiche dal punto di vista biologico e neurologico. Le molecole sono state in grado di superare la barriera ematoencefalica e dopo una decina di giorni, gli animali hanno mostrato un rapido recupero delle funzioni motorie e biologiche.

"Questa forma di Parkinson riguarda più o meno l'85% di tutte le diagnosi. Provoca una progressiva riduzione della sintesi di alcune componenti presenti nel cervello e quindi una perdita delle funzioni motorie. Diversi ricercatori hanno proposto di somministrare queste sostanze dall'esterno, per ripristinarne i livelli corretti. Il problema è che non riuscivano a oltrepassare la barriera ematoencefalica. Così, abbiamo pensato di cercare una soluzione a questo problema. La molecola che abbiamo prodotto interagisce con i recettori presenti sulla superficie delle cellule e rilasciano alcuni segnali che permettono ai neuroni di rimanere in vita", aggiunge il professore.

Ma per portare avanti la sperimentazione, servono i fondi. Grazie a UniMi Innova sono arrivati 20mila euro, una cifra importante ma non risolutiva. Altri aiuti sono stati erogati dal Ministero per lo Sviluppo Economico, dalla Banca d'Italia e da una società no profit francese. "Bisogna tenere presente che per arrivare alla fase clinica sono necessari 500mila euro – precisa Sonnino. – Trovare i fondi e stringere gli accordi richiede tempo, e incide poi sulle tempistiche di realizzazione dell'intero progetto".

Nanoparticelle per la malattia di Huntington

Il team della professoressa Valenza sta invece lavorando a nanoparticelle di diverso tipo, tra cui una specifica, diretta contro la malattia di Huntington. Anche questa è stata modificata allo scopo di superare la barriera ematoencefalica e al suo interno possono essere trasportati dei farmaci, in modo che vengano veicolati direttamente al cervello. Una sorta di postino, insomma, che riesce a superare anche un cancello chiuso e portare il pacco fino alla porta di casa.

"Nello specifico, vogliamo veicolare il colesterolo, una molecola fondamentale per il cervello e per l'attività dei neuroni -, ci spiega la professoressa. – Dal momento che non può arrivargli quello presente nel sangue, lo deve produrre localmente. Ma nei pazienti con malattia di Huntington si verifica una carenza proprio in questa funzione, con conseguenze negative sul funzionamento dei neuroni". Perciò, in collaborazione con l'Università di Modena e Reggio Emilia, dove sono state sviluppate le nanoparticelle, i ricercatori provano a trovare un modo con cui reintegrare nel cervello il grasso mancante.

"Siamo a buon punto – prosegue. – Abbiamo completato gli studi preclinici nei modelli animali, che hanno dimostrato un recupero dei difetti cognitivi e motori e di una serie di altri deficit associati alla patologia. Ora dovremo passare agli studi di tossicologia di tipo regolatorio, che è uno step fondamentale prima di arrivare alla fase clinica e quindi alla sperimentazione sull'uomo. Servono però dei laboratori appositi per valutare questo aspetto".

E nel frattempo, c'è grande attesa tra i pazienti. Al momento non esistono cure in grado di guarire o di rallentare il decorso della malattia genetica, i cui sintomi emergono più o meno attorno ai 40 anni e l'esito, purtroppo, rimane ancora oggi fatale. Ecco perché è importante investire nella ricerca: è l'unico modo per velocizzare e soprattutto rendere possibile lo sviluppo di nuove terapie, anche per quelle patologie che oggi non hanno molte speranze.

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