Coronavirus, diario del medico in prima linea: come nasce un ospedale Covid? Intervista a due colleghi

In piena infodemia (epidemia di informazioni), ho intervistato due tra i più grandi esperti italiani nell’ambito delle Malattie Infettive: dalle responsabilità della comunità scientifica, alle caratteristiche del virus, al ruolo delle figure dirigenziali nella riorganizzazione delle strutture sanitarie.
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Dott. Maurizio Cè Medico chirurgo
16 Aprile 2020 * ultima modifica il 22/09/2020

Gli ospedali di diverse città italiane, compreso quello di Crema in cui sto prestando servizio durante questa emergenza, sono stati letteralmente rivoluzionati dall'arrivo del Covid-19. Ma come si riorganizza una struttura per affrontare una pandemia? Ne ho parlato con la professoressa Antonella D’Arminio Monforte, direttrice della scuola di specializzazione in Malattie Infettive dell’Università di Milano e Primario dell’Ospedale San Paolo e tra i massimi esperti italiani e internazionali di HIV, e con il professor Pasquale Ferrante, virologo di fama mondiale e Ordinario di Microbiologia presso l’Università di Milano, nonché Direttore Sanitario dell’Istituto Clinico Città Studi di Milano.

Come ti avevo già ricordato nella prima parte, le due interviste da cui sono tratti i contenuti di questo articolo sono state condotte separatamente nella prima settimana di aprile 2020. Pur nel rigoroso rispetto dei contenuti, abbiamo scelto di integrarle nella forma di un unico discorso.

Nella prima fase dell’emergenza le struttura sanitarie sono state letteralmente prese d’assalto. In quel contesto il ruolo delle figure dirigenziali è cruciale per coordinare efficacemente la riorganizzazione dei presidi ospedalieri. Quali strategie avete messo in campo?

Prof.ssa D’Arminio: Il centro nevralgico della riorganizzazione è stato necessariamente il reparto di Malattie Infettive, in stretto rapporto con i colleghi pneumologi e i rianimatori, per ovvie ragioni i nostri interlocutori privilegiati in questa emergenza, dal momento che spesso i pazienti necessitano di ventilazione intensiva. Poi abbiamo iniziato a espanderci occupando i reparti di Medicina.

Prof. Ferrante: I primi giorni pensavamo di dedicare ai pazienti infetti quattro stanze. Abbiamo finito con l’usare tutto l’ospedale. Oggi viaggiamo con una media di 180 pazienti ricoverati Covid-positivi, più dieci in terapia intensiva. Non avremmo mai trovato un numero di infettivologi e internisti sufficiente a coprire il numero di malati. All’inizio, trattandosi di una situazione per molti versi inedita, abbiamo pensato di favorire la condivisione di proposte e conoscenze attraverso la creazione di un’equipe multidisciplinare. Quando i casi hanno iniziato ad aumentare, le altre unità sono in qualche modo gemmate dalla prima, da cui hanno ereditato l’esperienza. Questo ha permesso di formare rapidamente la seconda, la terza e via di seguito. La prima unità era composta solo da colleghi di area medica che sono diventati a loro volta i leader delle altre, che invece hanno coinvolto medici di tutte le specialità.

Prof.ssa D’Arminio: Anche alla base della nostra strategia c’è stata proprio l’idea di creare delle equipe multidisciplinari, composte da un infettivologo, un internista, uno pneumologo, ma anche dai chirurghiche si sono messi generosamente a disposizione, e altri specialisti. In questo modo c’è stata un’efficace e rapida trasmissione di conoscenze e proposte. Posso dirle che c’è davvero una grande voglia di combattere insieme e una straordinaria disponibilità da parte di tutto il personale.

A questo proposito, noi addetti ai lavori sappiamo che in condizioni di ordinaria amministrazione esiste un certo grado di sordità reciproca tra le varie specialità, soprattutto tra area medica e chirurgica. Invece una delle cose che mi ha colpito positivamente è proprio lo spirito di collaborazione trasversale. L’emergenza ha spazzato via, almeno temporaneamente, questo retaggio. E auspico che si possa fare tesoro di questa esperienza per il futuro. Comunque sia davanti a una crisi di questa portata, non solo è necessaria una grande collaborazione in senso orizzontale, tra “pari grado”, ma occorre soprattutto integrazione verticale, con le figure dirigenziali, sanitarie e amministrative.

Prof. Ferrante: Per noi si è trattato soprattutto di raccogliere i feedback che ci arrivano dal basso, dagli operatori. Le faccio un esempio. All’inizio avevamo due zone di accesso al Pronto Soccorso, una per le ambulanze e una per i pazienti auto-presentatisi. Abbiamo scelto di installare nella sala d’attesa comune un’unica postazione di pre-triage che ci permettesse di identificare (probabilmente in modo ipersensibile) i casi sospetti. Abbiamo creato quindi due percorsi separati, anche dal punto di vista fisico, per isolare i sospetti positivi dagli altri. Ebbene, l’idea di come organizzare le cose è venuta dagli infermieri e dai medici in prima linea, l’abbiamo discussa, condivisa e attuata. All’inizio la zona Covid si è ampliata a discapito dell’altra occupando quasi l’intero ospedale. Adesso le due zone si stanno lentamente riequilibrando. Si sta ripresentando a poco a poco il pool di pazienti che per qualche motivo sembrava scomparso.

Prof.ssa D’Arminio: Per quanto riguarda il nostro centro, devo dire che abbiamo avuto la fortuna di contare su una direzione sanitaria molto attenta e propositiva, per cui siamo riusciti a modellare le varie espansioni dell’area Covid al passo con le esigenze del pronto soccorso. Lo stesso personale amministrativo, i collaboratori tecnici, senza eccezioni. Mi permetta una battuta: prima magari ci volevano settimane per cambiare una lampadina, adesso in cinque minuti riescono a disfare un intero reparto e a riadattarlo. Davvero straordinario.

Volere è potere. Questo dovrebbe far riflettere sulle lungaggini con cui ci confrontiamo in condizioni di ordinaria amministrazione, ma l’ho detto io (sorride). Parliamo dei dispositivi di protezione, fondamentali per tutelare gli operatori quanto i pazienti.

Prof.ssa D’Arminio: Il problema del reperimento dei materiali è stato qualcosa di drammatico, soprattutto all’inizio, quando tutti i centri hanno iniziato a chiederli quasi contemporaneamente. Adesso siamo messi bene. Abbiamo educato molto faticosamente il nostro personale ad utilizzare con parsimonia, ma correttamente, i vari dispositivi.

Prof. Ferrante: Anche noi abbiamo avuto una crisi nell’approvvigionamento dei materiali nelle fasi iniziali perché i nostri fornitori abituali erano subissati di domande. Poi siamo stati competitivi, questo anche grazie alla flessibilità di cui può vantare un ospedale medio-piccolo, e abbiamo acquistato direttamente tutto quello che ci serviva.

Indossare tutti i dispositivi di protezione per la durata di un turno lavorativo è davvero estenuante.

Prof. Ferrante: A questo proposito, non bisogna parlare solo di standard di protezione ma anche di usabilità. Alcune sono molto comode e possono essere indossate agevolmente per diverse ore, altre sono scomodissime e rappresentano davvero un problema.

Gestire un numero così grande di pazienti è problematico, soprattutto in queste condizioni di lavoro. Mettere in campo tutte le accortezze necessarie per evitare il contagio richiede enormi risorse soprattutto in termini di tempo.

Prof. Ferrante: Nel nostro ospedale abbiamo attrezzato tutte le stanze con delle webcam interattive attraverso le quali possiamo in ogni momento osservare il paziente e interagire con lui. In questo modo abbiamo sempre sotto controllo la situazione di tutti i 10-15 letti che compongono l’unità. Inoltre, il medico che entra in stanza è collegato con il collega fuori che può consultare la cartella e scambiare in tempo reale le informazioni con il collega all’interno. Grazie a questa organizzazione, le nostre equipe sono molto flessibili e riescono a finire il giro visite classico entro le 12-12:30, lasciando il pomeriggio per ulteriori valutazioni.

Da chi è arrivata questa idea?

Prof. Ferrante: Ancora una volta l’idea è partita dal basso, per la precisione da un infermiere che si intende di informatica. Ce l’ha sottoposta, abbiamo ordinato il materiale su internet e in pochi giorni abbiamo installato le apparecchiature. È stato tutto molto veloce. Certamente il fatto di essere un ospedale privato-convenzionato di dimensioni medio-piccole ci ha aiutato.

Negli ultimi giorni sembra che la curva accenni qualche timido segnale di discesa. È troppo presto per parlare di riaperture?

Prof.ssa D’Arminio: Difficile fare una previsione. In ogni caso, forti delle curve cinesi, la mia idea è che almeno per un’altra settimana dopo Pasqua sia irrealistico pensare a un allentamento delle misure. Abbassare la guardia in questo momento è un errore che non ci possiamo permettere.

A questo proposito, è evidente che le curve epidemiche si muovono sfasate tra i vari paesi e all’interno dell’Italia. Quand’anche si riuscissero ad azzerare, o a ridurre significativamente, i contagi in un territorio, potrebbe esistere da qualche parte un portatore asintomatico potenzialmente in grado di innescare una nuova catena del contagio, non appena si allentino le misure di contenimento. Senza contare il problema dei cosiddetti “contagi di ritorno”. D’altra parte, non si può chiedere alle persone di restare bloccate in casa a oltranza. Come si spezza questo meccanismo?

Prof.ssa D’Arminio: Guardi, proprio alla luce di quello che ha detto, io credo che dovremo abituarci a convivere con questa infezione per lunghi mesi ancora, ritornando molto gradualmente alla nostra vita di relazione, ma consapevoli del fatto che alcune cose non torneranno alla normalità nel medio periodo. Quel che è certo è che bisogna procedere con estrema cautela e per piccoli passi. Allentare leggermene la presa, fermarsi per vedere cosa succede, e solo quando si è certi di avere il controllo della situazione, procedere verso la fase successiva. Per questo motivo sarà una cosa lunga.

Prof. Ferrante: Quando decideranno di fare un allentamento delle misure, dovrà essere estremamente calibrato. Ancora una volta dobbiamo fare i conti con una limitata conoscenza della biologia del virus. Inoltre, avendo costretto molte persone, giustamente, a stare in casa, abbiamo esposto i familiari a un aumento del rischio di contagio. Quindi esiste certamente un pool di persone infettate che non stiamo registrando. Per questo si impone cautela.

È possibile che il virus resti con noi e che un giorno, forse non troppo lontano, rientrerà ordinariamente tra le diagnosi differenziali delle infezioni respiratorie, ovvero tra i patogeni che si ricercano normalmente quando c’è evidenza di infezione dell’apparato respiratorio?

Prof.ssa D’Arminio: In linea teorica è possibile, ma tenga presente che prima o poi avremo un vaccino. Si parla di mesi. A questo proposito tengo a precisare che non stiamo parlando dell’HIV, un virus di tutt’altra natura, per il quale da decenni si parla di un vaccino e ancora non ci siamo riusciti. Il coronavirus è un virus relativamente semplice. Anche sul fronte delle terapie mirate, ci sono diversi bersagli potenziali che si stanno valutando, alcuni dei quali molto promettenti.

E per quanto riguarda i farmaci che stiamo somministrando? Nel mio ospedale abbiamo attuato diversi protocolli, ma l’impressione è quella di navigare a vista.

Prof.ssa D’Arminio: A questo proposito sono in corso diversi studi che ci permetteranno presto di fare chiarezza. Ancora una volta il tempo è il fattore chiave. Alcuni di questi studi, con un approccio molto pragmatico, si concentrano proprio sull’efficacia dei farmaci che stiamo già somministrando avvalendoci di diverse strategie del tipo expaded acces (uso compassionevole) o off-label (protocolli che permettono di somministrare farmaci la cui autorizzazione terapeutica non è mirata al coronavirus, ndr.). Il punto è che si tratta di una malattia così eterogenea dal punto di vista clinico da rendere difficile la comparazione dei risultati. Questa malattia ci impegna in una battaglia a tratti scoraggiante, ma stiamo investendo una quantità enorme di risorse e sono molto fiduciosa che nell’arco di qualche mese avremo dei risultati.

Per concludere, oggi ci chiamano eroi, ma siamo gli stessi di qualche mese fa. Sono cambiati i numeri, non la passione né la competenza. Credete che questa crisi servirà a far riflettere sulle condizioni in cui lavorano ordinariamente gli operatori sanitari?

Sorridono e ci salutiamo.

Laureato con Lode in medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano con una tesi sull’organizzazione anatomo-funzionale del linguaggio umano, ha altro…
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