Donne e Hiv, una vita nascosta. “Dovrebbe essere detto ovunque: con i farmaci non sei più contagioso”

Tra un paziente sieropositivo e una sieropositiva non vi sono più grandi differenze in termini medici, fatta eccezione per il momento della gravidanza e del parto. Se però sei donna e hai l’Hiv ti sentirai più in dovere di nasconderti, più sporca o sbagliata rispetto a un uomo. Nella Giornata mondiale contro l’AIDS abbiamo provato a capire il perché di questa ulteriore discriminazione.
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Giulia Dallagiovanna 1 Dicembre 2020
* ultima modifica il 01/12/2020

In collaborazione con Sara Del Dot

"La gente non sa niente di Hiv. Non sa che se sei in terapia stai bene, puoi vivere una vita normale e non rischi di attaccare il virus a nessuno. Puoi anche avere rapporti sessuali non protetti, senza contagiare il partner. Dovrebbe essere detto ovunque: chi assume farmaci, non è infettivo. Come se fosse una scoperta sensazionale, una notizia da prima pagina". Antonella quasi lo urla, per farsi sentire, per sfogarsi. Perché Antonella è sieropositiva, ma non ne può parlare apertamente. Non se la sente nemmeno di rivelarci il suo vero nome. Già si immagina le reazioni: "te la sarai cercata", "chissà con chi (o con quanti) sei andata a letto", "a frequentare le cattive compagnie…".

Tuo zio ha 60 anni e ha il diabete di tipo 2. Ne discute con tranquillità e magari vi terrà pure aggiornati sull'andamento della sua glicemia. Eppure lo sa anche lui che la malattia è una diretta conseguenza della sua alimentazione piena di grassi e zuccheri. Al tuo vicino di casa invece è stato diagnosticato un enfisema polmonare. Poverino, deve fare attenzione. Perché sì, ok, gli è venuto per colpa di tutte le sigarette che ha fumato, ma insomma, ora sta male e deve essere aiutato. Loro non se la sono davvero cercata: è stato un incidente, un problema che può capitare. Se  invece contrai l'Hiv, risulti sporco, un untore, una persona da evitare.

Oggi è la Giornata mondiale contro l'AIDS e ci viene a ricordare che anche se non parliamo più, e non solo in queste settimane a causa della pandemia, la Sindrome da immunodeficienza acquisita continua a esistere.  L'Istituto superiore di sanità certifica che nel 2018 sono stati diagnosticati 2.847 nuovi casi di Hiv e 661 di AIDS. Conosci la differenza? Il primo è il virus che provoca l'infezione: se non assumi le terapie antiretrovirali, questa è libera di progredire e di evolvere piano piano nella seconda, la malattia conclamata, che tutti ricordiamo per le migliaia di morti provocate tra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90. Ma torniamo ai numeri. Tra le 2mila persone sieropositive, 618 erano donne. Significa che si ammalano meno degli uomini? No. Secondo un rapporto dell'ECDC (European Center for Disease Control), la metà di loro riceve una diagnosi tardiva e in questo gruppo sono comprese soprattutto persone tra i 40 e i 50 anni di età. Come mai? La risposta oggi è soprattutto culturale: un pesante, pesantissimo stigma sociale.

Giudicata come madre

"Si è fatto tanto per curare il corpo: le terapie che assumo ora sono meno invasive, gli effetti collaterali sono pochi. Ma per quanto riguarda l'aspetto psicologico c'è ancora molta strada da percorrere. Stigma e ignoranza sono rimasti. Non si fa prevenzione, né informazione". Anche Ludovica rinuncia ad esporsi con il suo vero nome. Convive con la sieropositività da quasi 30 anni, eppure è riuscita a parlarne a suo figlio solo di recente, quando lui si era già laureato.

Ha contratto l'Hiv all'età di 27 anni, ma non lo ha scoperto subito. Quando il marito viene arrestato, per ragioni legate ai suoi problemi di tossicodipendenza, viene sottoposto a un test che si rivela positivo. Era l'inizio degli anni '90 e di questo virus si conosceva ancora molto poco. "Durante un colloquio in carcere mi disse che dovevo fare anch'io le analisi, ma non accettai subito – racconta. – Avevo bisogno di elaborare la notizia. Non si può descrivere quello che si prova".

La diagnosi arriverà un anno più tardi, quando il marito entra in una comunità che non aiuta solo i tossicodipendenti, ma anche le loro famiglie. È così che Ludovica si convince a fare il test.

"L'ho detto ai miei genitori perché avevo bisogno di parlarne con loro, per avere aiuto e conforto. Quando mio padre l'ha saputo, voleva che mi allontanassi da mio figlio. Si rivolse anche agli assistenti sociali e riuscì a ottenere l'affidamento". Cominciò allora la lunga strada per riprendersi la sua famiglia. "Grazie alle persone incontrate in comunità e poi all'associazione CAMA Lila sono riuscita a ripartire. Ho trovato un lavoro, mi sono rimboccata le maniche e sono diventata completamente autosufficiente, dimostrando agli assistenti sociali che ero perfettamente in grado di prendermi cura di mio figlio".

Se sei donna, sei più esposta

CAMA Lila è la sede della Lila (Lega italiana per la lotta all'AIDS) nella provincia di Bari. Esiste dal 1991 e accompagna le persone affette da Hiv più o meno da quando il virus ha iniziato a diffondersi in Italia. I volontari che ne fanno parte hanno conosciuto tantissime storie, assistito all'arrivo delle prime cure e all'evolversi dei farmaci che diventavano sempre più efficaci, fino a trasformare questa infezione da mortale a cronica. "Ci siamo accorti di tutti i problemi e le paure ai quali andava incontro una donna  – racconta la presidente Angela Calluso. – Si chiede se potrà avere dei figli, se potrà cominciare una nuova relazione e come dirlo al partner, in generale si fa più domande rispetto a un uomo. Per questo motivo, con la collaborazione di alcuni ginecologi, abbiamo dedicato un opuscolo proprio a loro". 

E la disparità emerge fin da subito, a partire dal rapporto sessuale. "Nelle malattie sessualmente trasmissibili la donna ha un maggiore rischio di infettarsi rispetto all'uomo – ci spiega la professoressa Achiropita Lepera, docente associato di Ginecologia e Ostetricia all'Università degli Studi di Bari e responsabile dell'ambulatorio di Ginecologia per le patologie AIDS-correlate del Policlinico pugliese. –  L'uomo infatti ha una diversa conformazione degli organi genitali, che sono formati prevalentemente da cute, più spessa rispetto alla mucosa che riveste l'interno del canale vaginale". Perciò nella vagina tenderanno a formarsi più facilmente piccoli graffi che faciliteranno la trasmissione del virus.

Nelle malattie sessualmente trasmissibili, la donna ha un maggiore rischio di infettarsi rispetto a un uomo

Ma non c'è solo il fattore anatomico. Se sei donna e hai cominciato a uscire da poco con un ragazzo nuovo, oppure hai partner occasionali, potresti sentirti in difficoltà nel chiedere all'altro di indossare il preservativo. Se, al contrario, hai una relazione stabile e decidi di fare il test, vieni messa in discussione: "quindi non ti fidi di me?", "allora vuol dire che mi hai tradito".

"Quella femminile viene definita una ‘special population' nell'ambito dell'Hiv  – precisa il dottor Giovanni Guaraldi, ricercatore e medico infettivologo dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Modena e ideatore del sito HelpAids.it. – Se si esclude il momento della gravidanza, accede molto più di rado ai test ed è più vulnerabile rispetto a quella maschile. Culturalmente infatti è più facile che una donna si prenda cura dei suoi familiari, piuttosto che di se stessa. Inoltre, le società scientifiche sottolineano che sono poco rappresentate all'interno degli studi e delle sperimentazioni. Teoricamente ogni nuovo lavoro scientifico dovrebbe arruolare il 30% di partecipanti donne, ma non è così, soprattutto nei Paesi industrializzati".

"La donna sieropositiva è vista che come una persona che chissà cos'ha combinato – ci conferma Antonella. – Oppure come una debole, una sfigata, perché chissà cosa faceva il suo fidanzato. E invece magari non c'è nessuna storia di perversione dietro. Siamo onesti: chi non ha mai avuto un rapporto sessuale senza preservativo?".

Scoprirlo nel nuovo Millennio

Ad Antonella è accaduto proprio questo. Era il 2015 e il suo compagno scopre di avere un problema di salute molto grave che lo porta in punto di morte. "In quell'occasione gli somministrarono il test e risultò positivo. Così lo fecero anche a me. Non so quando sono stata contagiata, dal momento che stavamo insieme già da 10 anni e lui poteva averlo contratto anche molto tempo prima".

Tra la diagnosi di Ludovica e quella di Antonella sono trascorsi quasi 25 anni, eppure la domanda resta la stessa: "La prima cosa che ho chiesto ai medici è stata ‘sopravviverò?' Guardavo il mio compagno e pensavo che sarei andata incontro alla stessa esperienza. Invece mi dissero che non avrei avuto problemi. Infatti, iniziai subito ad assumere la terapia e dopo un mese la carica virale si era già azzerata".

"Siamo onesti: chi non ha mai avuto un rapporto sessuale senza preservativo?"

A differenza del suo ragazzo, riesce a intervenire in tempo con i farmaci che non solo le evitano le peggiori conseguenze, ma la rendono anche non più contagiosa. Del tutto.

Eppure, questo non basta. O le persone attorno a lei non sembrano avere coscienza di questo enorme passo avanti della Medicina. "Non l'ho mai detto ai miei genitori e non posso parlarne con nessuno, perché ho paura del giudizio degli altri, soprattutto nei confronti del mio compagno – confessa. – Al lavoro nascondo questa situazione perché sono un'insegnante e non so come potrebbero reagire i genitori dei miei studenti se ne venissero a conoscenza. Quando scopri di avere l'Hiv vai fuori di testa, senti di aver subito un'ingiustizia. Poi ti rendi conto che devi accettarlo, perché non si può cancellare. Ma ti cala addosso un'enorme tristezza e ti sembra che tutta una serie di cose da questo momento ti siano impedite".

Gli indizi nell'aspetto fisico

"Ci sono donne che hanno contratto l'Hiv da giovani e ora vedono il proprio corpo cambiato, a causa della malattia e degli effetti collaterali dei farmaci". Quelli a cui si riferisce la presidente di CAMA Lila sono i primi medicinali antiretrovirali che hanno cominciato a essere utilizzati a partire dal 1996. Una vera e propria svolta, annunciata durante l'11esima Conferenza internazionale sull'AIDS a Vancouver: finalmente risultare sieropositivi non significava più morte certa. Le terapie di allora, però, erano più pesanti e complicate da sopportare per l'organismo. Ludovica, per esempio, si ricorda ancora quando doveva assumere le compresse vicino a un lavandino a causa dei forti disturbi allo stomaco che le provocavano. Oggi, per fortuna, la tossicità si è ridotta drasticamente e i farmaci sono molto ben tollerati da quasi tutti i pazienti. I segni, però, sono rimasti.

"Quando si parla di corpo femminile, siamo sempre attenti a ogni più piccolo difetto, figuriamoci quanto possa mandare in crisi un cambiamento dovuto a una terapia", fa notare Angela Calluso. All'inizio degli anni '90 emerge in particolare la lipodistrofia, una condizione che comprende almeno due diverse malattie: la lipoatrofia e la lipoipertrofia. Nel primo caso si verifica una perdita di tessuto adiposo sottocutaneo nella zona in cui si inietta il farmaco. Nel secondo invece l'adipe si accumula a livello centrale, nell'area dell'addome. "La lipoatrofia non è più presente in chi inizia una terapia con i farmaci nuovi – interviene il dottor Guaraldi, – mentre i casi precedenti sono stati trattati anche con l'aiuto della Chirurgia Plastica Ricostruttiva. La lipoipertrofia invece purtroppo può ancora insorgere, ma probabilmente non è associata direttamente ai farmaci, bensì allo stato infiammatorio che può accompagnare l'Hiv".

Quando si presentano, questi effetti collaterali colpiscono in modo identico sia uomini che donne. E naturalmente, anche per il genere maschile possono essere fonte di disagio, quasi un indizio che rivela al mondo la propria condizione di sieropositività. La differenza è che le donne vengono da sempre giudicate anche attraverso il loro aspetto fisico e saranno quindi più esposte allo sguardo delle altre persone, che si chiederanno come mai sia ingrassata o perché le guance siano un po' più emaciate. E magari queste domande saranno pure rivolte alla diretta interessata, ad alta voce, durante una normale pausa alla macchinetta del caffè.

"Posso avere un figlio?"

"La prima paura di una ragazza giovane è: ‘Potrò avere dei figli?'. Esiste ancora il timore che l'Hiv possa impedire il concepimento o che la madre possa contagiare il bambino" , fa notare la professoressa Lepera. E in effetti quando non erano ancora disponibili i farmaci antiretrovirali il problema della trasmissione verticale, cioè da madre a figlio, era ben presente. "Quando ho scoperto di essere sieropositiva ho rinunciato a diventare madre una seconda volta– conferma Ludovica, – oggi invece le terapie permettono di partorire in modo naturale senza rischi per il neonato. Anche se la paura rimane".

Con gli strumenti e le terapie che esistono oggi, il rischio di contagio al momento del parto non supera il 2%

Attraverso una gestione appropriata del parto, controlli specifici e l'aderenza al trattamento antiretrovirale, le probabilità di contagio non superano il 2%. Spesso però la sieropositività viene diagnosticata durante i primi controlli che una paziente effettua, quando rimane incinta. "La mancata consapevolezza in tal caso rende generalmente più vulnerabili le donne – ci rivela la professoressa Antonella Vimercati, docente associato della II Clinica Ostetrica e Ginecologica del Policlinico di Bari, – che sommano all’ansia legata alla gravidanza la paura della malattia. E, non ultimo, la frustrazione a volte di scoprire un contagio eterosessuale o da partner pregresso o attuale, fino a quel momento ignorato. Ne nascono quindi comprensibili dubbi su possibili tradimenti o delusioni per le scelte passate. Il risultato è una perdita di fiducia nel compagno".

Diventare genitori è una questione che riguarda entrambi i componenti di una coppia, ma per una donna è un po' più pressante, perché a un certo punto subentra la menopausa.

"Oggi la maggior parte delle pazienti sieropositive ha tra i 48 e i 50 anni e comincia la transizione menopausale, che l'infezione può anche anticipare di un paio d'anni – spiega il dottor Guaraldi. – Oltre al corpo che cambia, c'è anche il problema della maternità negata. All'epoca in cui hanno contratto il virus gli era stato detto che avrebbero rischiato di trasmetterlo al feto e quindi hanno rinunciato ad avere figli. Ora scoprono che i nuovi farmaci permettono non solo il concepimento e il parto naturale, ma tra poco renderanno possibile pure l'allattamento. E questo le mette in crisi. È una situazione molto triste".

A cosa deve fare attenzione una donna

Oltre alla pressione psicologica, ci sono in effetti alcuni aspetti ai quali una donna sieropositiva (ma volendo anche una sieronegativa) deve prestare più attenzione rispetto a un uomo. Un esempio è l'osteoporosi: all'arrivo della menopausa si riduce il livello di estrogeni e le ossa possono risultare più fragili. Questa condizione viene peggiorata da alcuni farmaci antiretrovirali e si rende quindi necessario qualche controllo in più.

Un'altra comorbidità che può insorgere è l'infezione da Hpv, ovvero il papilloma virus. Sono più di un centinaio gli agenti patogeni che compongono questa famiglia, ma alcuni di loro possono provocare il tumore alla cervice dell'utero. "Nel 1993 si è capito che questa patologia poteva essere indizio di Hiv – precisa la professoressa Lepera. – Bisogna inoltre ricordare che in quel periodo la diffusione del contagio era dovuto soprattutto alla tossicodipendenza e che spesso una donna si prostituiva per poter comprare l'eroina, aumentando così anche il rischio di contrarre il papilloma virus. Ora l'incidenza si è ridotta, anche perché le pazienti si sottopongono annualmente a test e controlli ginecologici".

A bassa voce

"In ASA mi sono sentita accolta soprattutto come donna. Le sieropositive esistono, ma si espongono molto meno degli uomini. Agli incontri partecipano per la maggior parte omosessuali maschi e quindi fanno meno fatica a parlare. Le donne invece continuano a provare vergogna", racconta Antonella, riferendosi all'Associazione Solidarietà AIDS Onlus di Milano.

La riprova di come non sia tanto un fattore clinico o legato alla patologia in sé, quanto una discriminazione culturale e sociale che mette in difficoltà la popolazione femminile. "La preoccupazione delle ragazze più giovani non è più quella di dirlo ai propri genitori, ma a un potenziale fidanzato. Ho sentito tanti racconti di relazioni che andavano a gonfie vele, fino a quando la ragazza non ha rivelato la sua sieropositività".

Le donne si prendono meno cura della loro salute perché, storicamente, il loro ruolo è quello di assistere e non di essere assistite. Inoltre nella maggior parte dei casi il loro stipendio è inferiore e sono quindi svantaggiate da un punto di vista sociale, con tutte le conseguenze per la salute che ne possono derivare.

Ma il problema più grande nella percezione dell'Hiv è il suo essere una malattia sessualmente trasmissibile. E se il sesso è già di per sé un tabù, ancora oggi che siamo nel 2020, una donna che esercita la propria libertà sessuale diventa "trasgressiva", nel migliore dei casi. Magari pure con una sfumatura di ammirazione o invidia nel significato, ma sempre con l'idea di una persona che non rispetta le regole. E quindi, se non rispetti le regole, te la sei cercata. Poco importa chi le abbia scritte e soprattutto che a nessuno venga davvero in mente di seguirle. Si fa, ma non si dice. Si contrae l'Hiv, ma non si dice. Puoi fumare un pacchetto di sigarette al giorno, ma non fare sesso. E per di più senza preservativo. Che orrore.

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