E se il Covid-19 si diffondesse nella Striscia di Gaza? Ecco cosa potrebbe accadere

Un fazzoletto di terra di 360 km quadrati in cui vivono 2 milioni di persone, il 90% dell’acqua non è potabile e la metà dei dispositivi medici e dei farmaci che servirebbero normalmente manca in modo sistematico. Cosa potrebbe accadere se il Coronavirus si diffondesse nella Striscia di Gaza? Ce ne parla Candida Lobes, operatrice dei Medici Senza Frontiere al momento a Gaza City.
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Sara Del Dot 30 Marzo 2020
* ultima modifica il 22/09/2020

Rimanere a casa ed evitare assembramenti di persone. Ecco le principali misure di prevenzione che autorità e istituzioni stanno chiedendo ai loro cittadini di adottare per impedire all’interno dei territori un’ulteriore diffusione del Covid-19. Ma cosa accadrebbe se il tanto temuto Coronavirus si espandesse in luoghi del mondo diversi da quelli in cui viviamo, in cui non è detto che le persone riescano a tutelarsi in modo adeguato e dove potrebbe diffondersi molto rapidamente senza poter essere contrastato in modo efficace a causa di un sistema sanitario carente di presidi, dispositivi e strumentazione ospedaliera?

Prova a pensare a cosa potrebbe accadere, ad esempio, se il Covid-19 si espandesse in un luogo come la Striscia di Gaza. Sì, proprio quel fazzoletto di terra confinante con Egitto e Israele definito da decenni una “prigione a cielo aperto” e che rappresenta il luogo con maggior densità abitativa al mondo con le sue oltre 2 milioni di persone strette in 360 chilometri quadrati.

Un luogo in cui sono presenti 32 ospedali con un totale di circa 70 posti letto destinati alla terapia intensiva. Un luogo in cui più della metà dei dispositivi medici e dei farmaci di cui la popolazione avrebbe bisogno manca sistematicamente, e non soltanto in tempi di Coronavirus.

A dire la verità, nella Striscia di Gaza il Coronavirus ci è già entrato. Più di una settimana fa erano stati confermati i primi due casi, oggi saliti a nove. E il rischio e il timore di una catastrofe sanitaria tengono alta l’attenzione e invocano aiuti sanitari e misure di prevenzione sempre maggiori.

Per capire meglio la situazione abbiamo parlato con Candida Lobes, operatrice dell’organizzazione Medici Senza Frontiere che in questo momento si trova proprio nella Striscia di Gaza, precisamente a Gaza City.

Candida Lobes, operatrice di Medici Senza Frontiere a Gaza

Candida racconta che nelle scorse settimane sono stati riscontrati oltre mille casi in Israele e una sessantina in West Bank, di conseguenza sia le autorità israeliane sia quelle palestinesi hanno scelto di bloccare il passaggio tra Gaza e Israele, già militarizzato nella zona di Erez. Di conseguenza, se già prima dell’epidemia erano necessari dei permessi per entrare e uscire dal territorio, ora “Non entra e non esce nessuno, ad eccezione del personale medico e umanitario”.

La diffusione del Covid-19 a Gaza, racconta Candida, è una prospettiva decisamente problematica dal momento che a Gaza il sistema sanitario è fragilissimo da anni, come anche i Medici Senza Frontiere hanno sempre segnalato. “Sono quasi 13 anni di embargo, il che significa che l’accesso alla Striscia viene limitato sia alle persone che ai mezzi. Qui manca sistematicamente almeno il 50% dei medicinali e dei dispositivi sanitari, c’è una carenza cronica che è stata confermata sia dal Ministero della Salute che dalla World Heath Organization. A questo si può aggiungere il fatto che siccome uscire dalla Striscia non è facile, il personale medico non può recarsi all’estero per specializzarsi, frequentare corsi di specializzazione, fare scambi e quindi le possibilità di qualificarsi sono molto ridotte, nonostante ci siano diverse università. Infine, si parla di macchinari medici che non vengono cambiati e sono ormai obsoleti.”

Una situazione drammatica, resa ancora più complicata dalle procedure burocratiche necessarie per ricevere cure altrove.

“La cosa più complicata qui a Gaza è garantire le cure specialistiche ospedaliere. Nella maggior parte dei casi cure come quelle oncologiche, cardiache, dialisi o servizi specifici pediatrici sono scarse o addirittura non sono presenti e quindi le persone devono sempre provare a uscire da Gaza per cercare di avere questi servizi a Gerusalemme Est o in Cisgiordania. Per ottenere questo permesso è necessario seguire una procedura burocratica che richiede mesi per concludersi positivamente, mentre nella maggior parte dei casi non si ottiene nemmeno una risposta.”

E con l’epidemia alle porte, il timore è altissimo a causa della carenza di tutto ciò che potrebbe in qualunque modo servire a curare eventuali individui infetti e a proteggere il personale medico.

“Al momento la nostra principale preoccupazione è che ovunque mancano le misure protettive, il P.P.I. (personal protective equipment), mascherine, occhiali, guanti, camici. Tutto questo materiale manca. Alle strutture mediche manca anche la strumentazione per mettere in piedi delle unità di cure intensive necessarie per curare i pazienti che potrebbero avere i sintomi più gravi, ad esempio i respiratori. Proprio a proposito dei respiratori, non riusciamo a capire quanti ce ne siano al momento a Gaza. La cosa certa è che se l’epidemia si espandesse non sarebbero sufficienti.

Un’altra questione decisamente preoccupante è la questione dei test. Da quanto sappiamo, i kit per fare i test sono ancora troppo pochi. In più, per testare le persone e verificare i risultati è necessario un macchinario specifico e a Gaza ce n’è solo uno in un laboratorio. Mancano anche reagenti e tamponi. Al momento comunque, tutti quelli che arrivano da fuori, dal passaggio attraverso l’Egitto, vengono messi in quarantena e testati. Il Ministero della Salute e dell’Interno hanno predisposto scuole e hotel in cui mettere in quarantena chi rientra, che rappresenta il pericolo maggiore. Come ho già detto, naturalmente gli ingressi sono ridotti al minimo e concessi solo ai residenti a Gaza, umanitari e personale medico, e tutti devono comunque sottoporsi a quarantena.”

Insomma, per ora si cerca di organizzarsi secondo le possibilità della popolazione, una popolazione che, ricordiamo, conta 2 milioni di persone che vivono in un territorio di 360 km quadrati in cui il 90% dell’acqua non è potabile e una gran parte dei cittadini vive ammassata in zone svantaggiate in cui sarebbe difficilissimo proteggersi. E al disastro sanitario, si aggiunge anche quello sociale: “A Gaza il tasso di disoccupazione è altissimo, c’è molta povertà e in molti si arrangiano anche con lavori giornalieri. Essere costretti a rimanere a casa quando già si è senza lavoro e non si hanno risorse economiche a cui attingere rende tutto ancora più complicato.”

E la squadra dei Medici Senza Frontiere come si sta organizzando sul territorio per supportare la popolazione?

“Noi di MSF qui abbiamo due team e l’80% del personale è nazionale. Al momento siamo una ventina e purtroppo abbiamo subito una consistente riduzione del personale, dal momento che molte persone sono state costrette a partire e non siamo riusciti a sostituirle. Abbiamo colleghi bloccati in quarantena a Gerusalemme, come ad esempio la responsabile del laboratorio di analisi, avremmo dovuto ricevere due chirurghi… Dal canto nostro siamo cercando di ridurre le attività non salvavita, non necessarie. Tutto ciò che può essere fatto a distanza, per telefono, viene fatto così, rimandiamo le operazioni chirurgiche, cerchiamo di tenere il nostro personale libero per rispondere alle necessità.

Un altro problema è come far arrivare la strumentazione. Noi abbiamo fatto richiesta per ricevere un primo carico internazionale con dispositivi di protezione personale e di macchinari e medicinali. Le altre organizzazioni si stanno attivando per cercare di portare i macchinari che servono quindi per ora diciamo che tutta la macchina umanitaria si sta coordinando con il sistema sanitario locale e prova a spingere anche internazionalmente per ricevere ciò che è necessario in questo momento.”

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