Ecco perché la sieropositività di Elena Di Cioccio non dovrebbe essere una notizia

L’attrice e conduttrice tv ha rivelato di aver contratto l’Hiv più di venti anni fa, eppure a causa dei pregiudizi e del senso di vergogna è riuscita a raccontarsi solo ora. La sua storia è l’ennesima conferma di come a fronte degli straordinari progressi scientifici compiuti finora, la società è rimasta ferma agli anni ’80.
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Maria Teresa Gasbarrone 29 Marzo 2023
* ultima modifica il 29/03/2023

Ci sono malattie di cui si fa fatica a parlare, come se fossero una colpa o qualcosa di cui vergognarsi. L'Hiv è una di queste. Lo era negli anni '80, ma lo è ancora oggi, nonostante i progressi della scienza abbiano reso la convivenza con la malattia sessualmente trasmissibile possibile.

L'ennesima prova di quanto lo stigma sociale associato all'Hiv sia radicato nella nostra società arriva dal mondo dello spettacolo. In questi giorni la conduttrice e attrice Elena Di Cioccio ha rivelato pubblicamente di essere sieropositiva nel libro "Cattivo sangue". Eppure per farlo – ha raccontato l'attrice – le sono serviti 21 anni. Più di due decenni, fatti di paura, sofferenza e vergogna.

Uno stigma anacronistico

Parlando delle persone incontrate in questi anni di cure, Di Cioccio ha raccontato il senso di vergogna e di smarrimento che accomuna chi si trova a scoprirsi sieropositivo. Quello che ancora oggi esiste verso l'Hiv non è infatti solo uno stigma, ma un autostigma che le persone affette da questa malattia spesso si autoinfliggono per colpa di una società che non è stata capace di adeguarsi alle scoperte e progressi scientifici.

"Il concetto di stigma spiega l'associazione "Uniti contro l'Aids si vince" – è spesso associato alla condizione di sieropositività all’Hiv, dal momento che è oggi ancora fortemente radicata in ampi strati della popolazione l’idea che avere tale infezione sia diretta conseguenza di stili di vita disordinati, caratterizzati da abuso di sostanze e da comportamenti sessuali promiscui, soprattutto in ambito MSM (uomini che hanno rapporti sessuali con uomini), quando invece la realtà rappresentata dalle persone che vivono con Hiv si caratterizza per un’ampia varietà di identità e di situazioni individuali".

Non è più tempo di pregiudizi

Non siamo più negli anni '80, quando la narrazione mediatica sull'infezione – su cui ancora mancavano conoscenze mediche adeguate – si basava ancora sull'idea completamente infondata che l'Hiv riguardasse solo certe categorie di persone. Non siamo più negli anni in cui il virus veniva associato agli omosessuali o a chi seguisse stili di vita fatti di abusi e tossicodipendenze. Per fortuna.

Eppure, nonostante la scienza abbia dimostrato che il virus è una malattia sessualmente trasmissibile e che in quanto tale le condizioni che espongono al contagio si limitano ai rapporti sessuali non protetti o allo scambio di sangue (secondo modalità praticamente impossibili da riscontrare nella comune vita quotidiana), sulla malattia pesano ancora pregiudizi e disinformazione.

Come ha denunciato la stessa Di Cioccio, la comunicazione si è fermata al 1989. Sono infatti tantissime le prove che sull'Hiv esista ancora molta disinformazione, tra gli adulti ma anche tra i già giovani.

La paura nasce dalla disinformazione

Questo è un problema, soprattutto culturale. La paura che deriva dalla disinformazione è infatti la prima causa di pregiudizi e discriminazioni. È paradossale, ma a fronte di progressi scientifici inimmaginabili negli anni '80 in termini di cura e prospettiva di vita per i sieropositivi, sulla loro esistenza oggi a pesare è soprattutto lo stigma sociale.

Una ricerca condotta su 5534 ragazzi tra gli 11 e i 25 anni da Skuola.net col supporto non condizionato di MSD Italia in occasione del World AIDS Day 2019 ha confermato come l'Hiv faccia ancora paura e come ci siano ancora tanti muri – troppi e ingiustificati – da abbattere: quasi 1 ragazzo su 3 pensa che solo chi adotta alcuni stili di vita rischia di contrarre la malattia, mentre per circa 1 su 2 frequentare una persona sieropositiva espone al contagio.

Ecco come davanti a questi dati non si fa troppa fatica a capire perché ancora oggi chi contragga l'Hiv si senta terrorizzato all'idea di renderlo noto. Ecco perché a Elena Di Cioccio sono serviti 21 anni per dire di avere una malattia, di cui non ha colpe e che soprattutto non rappresenta un rischio per nessuno intorno a lei.

Ancora oggi, nel 2023, siamo qui a ripetere frasi che dovrebbero essere solo un ricordo, ma che invece purtroppo non lo sono. Quando non ce ne sarà più bisogno, forse allora potremmo davvero dire che con l'Hiv si può convivere.

Fonti | Uniti contro l'Aids si vince, Skuola.net

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