La pandemia e la campagna vaccinale hanno riportato al centro dell’attenzione alcuni temi di sanità pubblica, strettamente interconnessi:
In questo articolo prenderemo spunto dal tema, più che mai attuale, dei possibili effetti avversi dei vaccini anti Sars-Cov-2 per introdurre l'argomento degli effetti indesiderati delle terapie farmacologiche in generale e dei criteri, spesso infondati, in base ai quali siamo portati a giudicare a priori una sostanza, sia essa un farmaco o un alimento, come fonte di beneficio piuttosto che di danno per il nostro organismo.
I vaccini sono un esempio di prevenzione primaria, ovvero che permette di intervenire prima della malattia, prevenendone l’insorgenza o, al limite, mitigandone gli effetti. Quando siamo ammalati, tendiamo a mettere in secondo piano i possibili effetti avversi di una terapia rispetto ai potenziali benefici, che percepiamo come assolutamente concreti e desiderabili, soprattutto perché comparati la malattia, ovvero un fatto che esula totalmente dal nostro controllo.
Al contrario, quando si tratta di fare prevenzione primaria, ci troviamo per definizione in uno stato di salute. Per questo motivo, siamo portati ad amplificare la preoccupazione circa un possibile evento avverso, per di più se associato ad un fatto che è certamente sotto il mio controllo (in questo caso, la vaccinazione), rispetto alla probabilità di occorrere in un altro evento sfavorevole (una malattia severa o la morte), come conseguenza di un fatto che riteniamo poco probabile ci coinvolga direttamente.
Di fronte a dilemmi come questo, è necessario parlar chiaro: il primo elemento che mi preme sottolineare è che le preoccupazioni dei pazienti relative agli effetti collaterali di un farmaco, o alle possibili complicanze di un intervento chirurgico, sono sempre legittime e mai banali. A tal proposito, le critiche rivolte alla comunità scientifica riguardo ai difetti di comunicazione sono spesso fondate. Altre volte, la comunità scientifica non è nelle condizioni di offrire risposte univoche perché non esistono dati sufficienti a esprimersi al di là di ogni ragionevole dubbio.
Comunque sia, tra i doveri del medico rientra quello di informare i pazienti in modo chiaro, mettendoli nelle condizioni di decidere consapevolmente. Offrendo dei consigli, certamente, ma rifuggendo da quell’atteggiamento paternalistico che è concausa dello sfibramento del rapporto di fiducia tra medico e paziente su cui si fonda ogni alleanza terapeutica.
Il rapporto delle persone con i farmaci è per sua natura conflittuale: nessuno di noi assume volentieri un antibiotico e questo, innanzitutto, perché se lo facciamo significa che ci troviamo in una condizione di malattia. Quando pensiamo ad un farmaco, il primo pensiero va all’antibiotico che il medico di medicina generale ci prescrive per combattere un’infezione. I farmaci non sempre ci vengono prescritti nei modi e nei tempi che ci aspetteremmo. Per esempio, quando siamo a casa con l’influenza, magari correndo il rischio di rinunciare alle vacanze, fatichiamo a nascondere il nostro disappunto se il medico di famiglia non intende introdurre una terapia antibiotica: “Cosa aspetta, che la situazione si aggravi, prima di darmi qualcosa?”.
Al contrario, se il medico ha già impugnato la penna ancora prima che finiamo di raccontare i nostri sintomi, il sospetto, forse legittimo, è che quel medico tenda a prescrivere farmaci troppo facilmente. E siccome è noto che i farmaci possono avere degli effetti collaterali ci si potrebbe chiedere: “Non sarà forse che la terapia fa più danni della malattia stessa?”.
Anche le modalità di somministrazione (pillole piuttosto che iniezioni, ecc.), la posologia (quante pillole al giorno per quanti giorni) e il rapporto tra medico e paziente (ho fiducia nel medico che mi ha prescritto la terapia?) sono elementi che contribuiscono a modulare l’aderenza alla terapia. Insomma, farmaco sì, farmaco no. E gli effetti collaterali? Non sarà meglio affidarsi ai rimedi della nonna?! O, forse, dobbiamo semplicemente lasciare che il nostro sistema immunitario faccia il suo lavoro? Del resto, si può pensare che sia progettato proprio per questo.
L’idea di farmaco come “pillola” che abbiamo ricordato poco fa è legata ad una concezione ristretta di salute. Tornando poi al tema della prevenzione, ti sto parlando di quell’idea di salute concepita come qualcosa di cui ci accorgiamo solo quando la perdiamo. Fortunatamente, negli ultimi anni è andato affermandosi (o forse riscoprendosi), un concetto più profondo e plurale di salute che, a scanso di equivoci, in seguito ti indicherò con la parola “benessere”.
Il benessere non è soltanto fisico, inteso come assenza di dolore o di limitazioni funzionali, è anche la sensazione di un’integrazione positiva del sistema corpo-mente con l’ambiente che lo circonda associata alla piena espressione delle sue potenzialità.
Sulla scorta di questa intuizione, abbiamo riscoperto l’idea della prevenzione come chiave di volta per una vita sana. E, può sembrare banale dirlo, non c’è prevenzione primaria che non passi da una corretta alimentazione. A questo punto è utile ribadirlo: non esistono Scienziati (nota la S maiuscola) che non sostengano la tesi dell’importanza di un’alimentazione corretta.
Ma allora, qual è il punto? Quale legame intercorre tra questa idea di benessere e il tema dei farmaci e dei loro effetti collaterali? A prima vista, sembrano due mondi in conflitto. In realtà, esiste un fil rouge che collega tutti questi aspetti ed è rappresentato dall’idea che la realtà è più complessa di come tendiamo, per comodità, a rappresentarcela.
Ciò a cui mi riferisco sono le teorie di coloro i quali, per ignoranza o tornaconto, sollevano delle contrapposizioni che non hanno ragione (scientifica) di esistere. Spesso partendo da premesse verosimili e confezionando il tutto con un lessico pseudoscientifico, giungono a sostenere le tesi più estreme, come la negazione stessa della pandemia o la tossicità dei vaccini.
In questo contesto, è facile ingenerare un falso conflitto tra “naturale” e “artificiale”, tra farmaci “cattivi” in quanto prodotti della ricerca farmaceutica, e quindi tossici a priori, e farmaci o alimenti buoni o addirittura miracolosi, per il solo fatto di essere naturali. Si tratta, ovviamente, di argomenti troppo complessi per poter essere discussi in modo esaustivo, in questo caso mi limiterò ad offrire alcuni spunti di riflessione sul modo in cui vengono affrontati alcuni temi che riguardano la nostra salute.
A proposito di farmaci e alimentazione, la prima cosa da tenere a mente è questa: tutte le sostanze con le quali il nostro organismo può entrare in contatto, medicinali compresi, sono costituite dagli stessi “mattoni”, gli atomi, che possono formare strutture più complesse, le molecole. L’effetto che le sostanze hanno sul nostro organismo dipende essenzialmente dalla natura delle interazioni chimico-fisiche tra le molecole di cui sono composte e le molecole che compongono le nostre cellule e tessuti. Non c’è nulla di magico, nulla che non si possa spiegare razionalmente in termini di interazioni chimico-fisiche nella materia.
La cosa importante, a questo proposito, è che questi meccanismi valgono sia per il cibo che ingeriamo, allo scopo di nutrirci o per il puro piacere di farlo, sia per i farmaci, in senso stretto, che assumiamo per guarire da una malattia. Il fatto che certe sostanze possano produrre delle conseguenze benefiche, piuttosto che avverse, sul nostro organismo, non è dunque una proprietà intrinseca della sostanza che può essere conosciuta a priori, ma dipende da molteplici fattori.
Consideriamo l’etimologia della parola farmaco: essa deriva dal greco antico farmakon, che vuol dire rimedio, terapia, ma anche veleno. Questa ambivalenza semantica non è indice di ingenuità o arretratezza, piuttosto, rivela una grande profondità di pensiero. Da un certo punto di vista, i greci possedevano una sensibilità "scientifica" molto affine a quella contemporanea. Pur non conoscendo la struttura della materia e la biologia come la conosciamo noi, erano consapevoli che ogni tentativo di attribuire in modo assoluto il carattere di “benefico” piuttosto che “tossico” ad una sostanza fosse destinato a scontrarsi con la varietà dei fenomeni naturali e delle complesse interazioni tra organismo e ambiente.
Riprendendo il discorso dell’alimentazione intesa come strategia di prevenzione primaria, è evidente che, se ciò è vero, è perché esistono negli alimenti dei principi attivi, cioè delle molecole, che hanno un’interazione positiva con il nostro organismo. Per esempio, gli alimenti ricchi di vitamina C prevengono l’insorgenza dello scorbuto (la malattia di cui soffrivano i marinai che restavano molti giorni in navigazione e avevano diete povere di vitamina C).
D’altra parte, anche un alimento naturale come le fave può determinare condizioni di anemia emolitica in pazienti carenti dell’enzima necessario e metabolizzare alcune molecole contenute al loro interno. Alla base di tutti questi fenomeni vi sono sempre delle interazioni di natura biochimica.
Già da queste premesse, dovrebbe essere chiaro come “naturale” non sia in assoluto sinonimo di "buono” e, viceversa, “artificiale” non sia sinonimo di “tossico” o di “avverso al nostro organismo”. Ad essere problematica è, per prima cosa, la definizione di naturale. Tornando alle nostre molecole, è evidente che alcune di esse non esistono in natura, ma sono sintetizzate dall’uomo. Eppure, la distinzione non è sempre così immediata: per esempio, si possono ricreare in laboratorio delle sostanze (di sintesi) che sono analoghe di quelle naturali: è un evento frequente nell’industria chimica, quello di produrre artificialmente qualcosa che la natura ci metterebbe troppo tempo a produrre da sé.
A questo punto, dovremmo forse considerare queste sostanze artificiali – chimicamente identiche – meno efficaci di quelle “originali” nel determinare le loro interazioni? Ciò è chiaramente illogico, poiché se la molecola è la stessa, ne consegue che identiche saranno anche le sue interazioni con l’organismo.
Un altro esempio riguarda il mondo degli antibiotici, le cui generazioni più recenti sono costituite da prodotti di sintesi, mentre il capostipite, la celeberrima penicillina, è una molecola naturale, prodotta da un lievito. In questo caso, l’industria farmaceutica si è ispirata alla natura, migliorando o riformulando un processo naturale, per produrre nuove molecole con caratteristiche più affini ai suoi scopi. Se ancora non fosse chiaro, non intenderei negare la contrapposizione tra “naturale” e “artificiale”, tra tossico e benefico, piuttosto propongo di visualizzarli come gli estremi di uno spettro, all’interno del quale esiste un’ampia zona di transizione, una stratificazione di complessità.
Non solo è problematico definire il carattere naturale piuttosto che artificiale di una sostanza, è altrettanto difficile attribuirle uno specifico potere sul nostro organismo in termini di beneficio o tossicità. Un indizio, ancora una volta, proviene dal mondo classico, questa volta latino, ed in particolare da Paracelso, che affermava: «Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto.» Una posizione provocatoria, certo, ma fondata.
Ragionando in termini più moderni, è evidente che il veleno della vedova nera è sempre tossico, a qualunque dose lo si assuma. Il paracetamolo, al contrario, principio attivo ampiamente utilizzato per abbassare la febbre, in dosi eccessive può determinare tossicità epatica, con effetti devastanti sull’organismo. Ancora, l’esempio dell'acqua, elemento essenziale per la vita di tutti gli organismi e principale costituente del nostro (ne siamo composti per circa il 70%), in dosi eccessive può determinare tossicità, danno cellulare. La specificità delle interazioni tra una sostanza e l’organismo non si riduce alla quantità: esempio emblematico è il caso di un soggetto allergico ad un determinato alimento o farmaco che, se assunto, può determinare una reazione anafilattica potenzialmente letale.
Quindi se, da una parte, l’accesso alle informazioni disponibili in rete ha favorito un maggior grado di consapevolezza sui temi che riguardano la nostra salute, dall’altra, in un sistema in cui le informazioni sono facilmente accessibili senza filtro, alcuni giudizi anti-scientifici si diffondono in modo più veloce e radicato.
In conclusione, riprendendo l’incipit del nostro discorso, a proposito dei problemi che riguardano la campagna vaccinale, le terapie anti-covid e, più in generale, il benessere di ciascuno di noi, è chiaro che deve essere la comunità scientifica a fornire e interpretare, nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile, le evidenze a sostegno delle sue indicazioni. Un compito, questo, che tuttavia non esautora i pazienti dal dovere di rapportarsi a queste tematiche in modo responsabile, considerando la realtà in una chiave di complessità, rifuggendo da interpretazioni riduttive, da comodi negazionismi, dallo specchietto per allodole delle terapie e degli alimenti miracolosi.