Elettrosensibilità: l’intervista alla dottoressa Anna Zucchero

La dottoressa Anna Zucchero ormai da anni visita e aiuta persone che manifestano una particolare intolleranza nei confronti dell’esposizione ai campi elettromagnetici. Secondo lei, questa malattia esiste, è reale e interessa con diversa intensità molte persone. Per capire meglio in che modo agisce e come funziona una diagnosi di elettrosensibilità, le abbiamo fatto alcune domande.
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Sara Del Dot 19 Febbraio 2019
* ultima modifica il 13/03/2019
Intervista alla Dott.ssa Anna Zucchero medico internista e presidentessa dell'Associazione italiana elettrosensibili

Dell’elettrosensibilità, la patologia non ancora riconosciuta a livello scientifico che provoca in alcune persone una forte intolleranza ai campi elettromagnetici, ne abbiamo già parlato da un punto di vista teorico e attraverso le storie di chi afferma di soffrirne. Per concludere la nostra panoramica su questo fenomeno pressoché sconosciuto e ancora in fase di analisi, abbiamo intervistato la dottoressa Anna Zucchero, medico internista dell’ospedale di Mestre in pensione e già presidentessa dell’Associazione italiana elettrosensibili, per chiederle come è possibile diagnosticare scientificamente l’elettrosensibilità e in che modo, dal punto di vista medico, si manifesta nei soggetti che ne soffrono. Ecco cosa ci ha detto.

Da quanto tempo si parla di elettrosensibilità?

Personalmente mi interesso di questo problema da circa vent’anni. La malattia non è nuova, infatti era stata descritta negli anni della guerra fredda fa in Russia in riferimento ai radaristi esposti a campi elettromagnetici dovuti all’utilizzo dei radar, ed era chiamata, appunto, sindrome dei radaristi. Con l’immissione in commercio su vasta scala delle tecnologie wireless, questa sindrome (chiamata anche da microonde) ha iniziato a manifestarsi nella popolazione generale.

Come è possibile che colpisca solo alcuni rari individui?

Nonostante i limiti di legge in merito all’esposizione ai campi elettromagnetici siano rispettati, ci sono persone che comunque manifestano disturbi che possono diventare estremamente invalidanti, limitando la vita lavorativa e all’interno della società. Questo accade probabilmente perché ogni persona ha delle proprie caratteristiche individuali, e quando sono stati decisi i limiti di esposizione ai campi elettromagnetici dall’ente internazionale (ICNIRP) cui fa riferimento l’Oms per quanto riguarda l’esposizione ai Cem, è stato valutato che determinati valori sarebbero potuti essere tollerati da tutta la popolazione, ma non si è tenuto conto della differenza biologica tra i vari esseri viventi né del fatto che il corpo umano non è inerte e ha una reazione biologica. Se si fosse tenuto conto non solo dell’effetto termico dei cem ma anche dell’effetto biologico, i limiti di esposizione sarebbero ben più bassi di quelli ICNIRP, che invece sono stati riconfermati in una recente revisione.

Quali sono i sintomi dell’elettrosensibilità?

Uno dei più frequenti che appaiono inizialmente è la cefalea, ma subito dopo arrivano la debolezza, la facile affaticabilità sia muscolare sia in generale in tutto il corpo, un’intensa stanchezza anche intellettuale, difficoltà di concentrazione. Un po’ alla volta compaiono poi i disturbi di memoria, soprattutto quella recente, ma anche incapacità di trovare le parole, dolore muscolare e articolare non giustificato da malattie specifiche.

Le nuove tecnologie vanno benissimo, ma devono essere usate con prudenza, avvisando la popolazione che c’è la possibilità che possa risentirne.

E ancora batticuore, aritmie, disturbi digestivi, sensazioni di gonfiore, disturbi urinari, annebbiamento della vista, fotofobia, fonofobia, intolleranza a suoni che prima venivano sopportati tranquillamente, acufeni, rumori di vario genere come crepitii, scrosci, fischi che difficilmente scompaiono. E ancora, problemi vascolari e a livello cutaneo, infatti possono comparire delle chiazze di arrossamento dovute a vasodilatazione nelle aree più esposte a telefoni e computer, come la testa e il collo. Insomma, la sintomatologia colpisce qualsiasi organo e le persone di solito fanno il giro di tutti gli specialisti senza arrivare a un risultato perché le indagini comunemente effettuate risultano negative.

Come si effettua una diagnosi di elettrosensibilità?

Inizialmente la diagnosi veniva fatta soltanto sulla base dei sintomi riferiti dalla persona, cui seguivano degli accertamenti. Insomma, era una diagnosi esclusivamente clinica. Nel corso degli anni sono stati ripresi alcuni vecchi studi e ne sono stati condotti di nuovi, come quelli del neuro-scienziato svedese Olle Johansson, che tramite biopsia ha riscontrato un aumento di sostanze infiammatorie a una rarefazione delle fibre nervose sottili cutanee, che sono come delle piccole antenne che tutti noi abbiamo sulla superficie della pelle, oltre a un aumento dei mastociti e dell’istamina, che sono cellule e sostanze che mediano le reazioni allergiche. In apparenza, il risultato sembra una reazione allergica non mediata da anticorpi.

C’entra qualcosa il sistema nervoso?

Un altro filone seguito dagli studi è quello di una potenziale iper-stimolazione, oppure proprio un’alterazione del sistema nervoso periferico viscerale sensitivo, che crea una sorta di corto circuito elettrico che arriva fino al sistema nervoso, al centro della sensibilità talamica, al lobo limbico e frontale;  da lì viene inviata una risposta che coinvolge tutto l’organismo, il che spiegherebbe tutti i sintomi riferiti dalle persone, che sono molto simili dall’una all’altra, pur presentando varianti individuali. Tenga presente che è difficile studiare il sistema nervoso in generale, in particolare il sistema nervoso autonomo. Diverse indagini hanno però dimostrato un’alterazione di alcuni parametri cardiaci, l’heart rate variability, analizzabile con un elettrocardiogramma, la cui alterazione potrebbe indicare uno squilibrio del sistema nervoso autonomo. È poi arrivato un gruppo di studiosi francesi che hanno studiato il problema a livello cellulare, riscontrando delle alterazioni nel sangue di istamina, quindi di nuovo una sostanza che viene prodotta in situazioni di allergia e infiammazione. Inoltre è stato riscontrato un livello di vitamina D più basso rispetto alle persone normali. È anche stata svolta un’indagine molto interessante tramite l’utilizzo di un doppler transcranico. Il professore alla guida del gruppo francese ha rinvenuto che la maggior parte delle persone elettrosensibili ha una vasocostrizione nelle regioni temporo-parietali, bilateralmente, che sono le regioni deputate alla memoria e in parte al linguaggio.

Nonostante tutto questo, però, non c’è ancora riconoscimento.

C’è sempre una grande difficoltà a riconoscere questa sindrome. Soltanto in Svezia è riconosciuta come disabilità. Naturalmente, senza una diagnosi vera e propria non è possibile definire una persona come disabile. Le diagnosi al momento vengono tutte fatte da medici privati, però nel pubblico poi vengono misconosciute.

Lei ha incontrato tante persone elettrosensibili?

Sì, molte. Ho visitato e visito tutt’ora persone con questi problemi. Spesso il problema viene associato alla Sensibilità Chimica Multipla, ovvero l’intolleranza a sostanze chimiche comunemente utilizzate come detergenti, prodotti per il corpo e pulizie per la casa. Però ci sono situazioni in cui la persona è intollerante soltanto ai campi elettromagnetici. Inizialmente vedevo pazienti che lavoravano e vivevano vicino a stazioni radio base, poi con il tempo ho iniziato a visitare persone molto esposte a wifi, con conseguenze anche gravi perché con il tempo, la sindrome, se non c’è almeno un'astensione iniziale o giornaliera, ad esempio la possibilità di vivere in una casa non esposta ai cem, peggiora anche gravemente fino a diventare invalidante. Così le persone perdono il lavoro, le amicizie e a volte anche la famiglia, perché non sempre tutti sono in grado di capire. La nostra posizione, di medici ma anche come associazione, è quella precauzionale. Noi diciamo che vanno benissimo tutte le nuove tecnologie, ma vanno usate con prudenza, avvisando la popolazione che c’è la possibilità che qualcuno possa risentirne, senza parlare del rischio tumorale.

Le è capitato di incontrare persone che sono venute a farsi visitare ma erano solo suggestionate?

Delle persone che sono venute da me, davvero poche parevano suggestionate. A livello di letteratura ci sono alcuni studi di scienziati con conflitti d’interesse che tendono a riportare la sintomatologia a un problema psichiatrico, ma contro a questo ci sono numerosi altri studi che sostengono si tratti di una malattia neurologica, e il fatto che ci siano alterazioni patologiche anche in animali e cellule è un'ulteriore conferma che non si tratta di problema psicologico. Noi ribadiamo comunque che il principio di precauzione va assolutamente mantenuto perché per adesso viene stimato in diversi paesi del mondo che circa il 3% della popolazione mondiale possa esserne affetto, tuttavia si va dalla persona che ha solo un po’ di fastidio quando usa il cellulare e quindi usa l’auricolare o il viva-voce, fino a situazioni gravi di invalidità, e quindi non si può sottovalutare. È prevedibile che, con il tempo, con l’evoluzione e il diffondersi di queste tecnologie sempre più nuove, ad esempio il 5G che prevede di coprire a tappeto tutte le aree abitative non solo in città ma anche in montagna, verrà a mancare un compenso dell’organismo a questa esposizione. Quindi le persone con questo problema, che ricordiamo  è attualmente irreversibile e si giova solo di astensione e terapie sintomatiche, probabilmente aumenteranno.

Lei cosa fa quando qualcuno si rivolge a lei per una diagnosi?

Di solito prima di tutto faccio una visita generale, capisco la storia, visito la persona, faccio fare degli esami mirati a vedere se c’è una malattia di base che possa provocare i medesimi sintomi, che non sia la sindrome di ipersensibilità ai cem. Poi facciamo fare degli esami più approfonditi e alla fine si ha la diagnosi. Che viene utilizzata il più delle volte per motivi lavorativi, per aiutare la persona nella propria sede di lavoro a trovare una collocazione diversa. Le persone a volte trovano dei medici del lavoro disponibili, altre volte no, pur essendo la medicina del lavoro la prima branca della medicina ad aver segnalato il problema con la malattia del radaristi. Ecco noi aiutiamo con la certificazione, dando una relazione al medico curante. Purtroppo di solito i medici curanti non sono a conoscenza di questo disturbo, anche se in maniera maggiore più rispetto a una volta. Comunque, nessuno guarisce. Si migliora allontanandosi, cambiando lo stile di vita, ma la vita non torna più come prima. Quello che si vorrebbe è che le istituzioni riconoscessero se non altro che il problema esiste. Non può essere un contagio di massa di tipo psichiatrico.

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