I termini legati al fine vita: proviamo a fare un po’ di chiarezza

Se ne parla spesso, ma non è detto che tu conosca con precisione quale sia il significato di ogni termine che viene utilizzato a proposito di fine vita. Per esempio: perché nel caso di Piergiorgio Welby si era parlato di eutanasia, mentre per Dj Fabo si è trattato di suicidio assistito? Cerchiamo quindi di fare un po’ di chiarezza, essenziale per avere un’opinione chiara su un argomento così delicato.
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Giulia Dallagiovanna 16 Settembre 2019
* ultima modifica il 31/07/2023

"Staccare la spina". Un'espressione che torna a farsi spazio nel dibattito dell'opinione pubblica in occasione di casi di cronaca raccontati dai giornali. Insieme ad altri termini come eutanasia, suicidio assistito, alimentazione forzata. Parole che celano tanti interrogativi ai quali non si può (e non si deve) dare una risposta, almeno fino a quando non si conosce nel dettaglio di cosa si sta parlando. A partire proprio dai termini legati al fine vita. Proviamo a capirli insieme.

Le modalità per il fine vita

Per prima cosa affrontiamo subito il nocciolo della questione: cosa significa mettere fine alla propria vita o a quella di un paziente? Quali sono le modalità che possono essere applicate in ambito medico e che differenza c'è tra loro?

In realtà, per trattamento di fine vita si intende tutte quelle procedure o tutti quei farmaci che vengono utilizzati durante l'accompagnamento alla morte, in caso di persone affette da patologie che purtroppo avranno questo esito. L'eliminazione del dolore, dei sintomi disturbanti come il rantolo, cioè il respiro che spesso accompagna un paziente durante le fasi terminali (e che può essere trattato con medicinali appositi) e tutti questi tipi di interventi fanno parte dei cosiddetti trattamenti di fine. Non dovrai però confonderli con eutanasia, o suicidio assistito, poiché la morte sopraggiunge comunque per circostanze naturali.

L'eutanasia

Eutanasia in greco significa letteralmente "dolce morte". Utilizzi questa parola quando ti riferisci all'intervento di un medico attuato per porre fine alla vita di un malato. Di norma, si parla di pazienti terminali o la cui vita è stata gravemente compromessa dalla malattia. In quest'ultimo caso possono rientrare anche coloro che non ritengono più il livello di sofferenza imposto dalla malattia come una condizione accettabile per continuare a vivere. Ci sono però diversi modi in cui può essere attuata.

  • L'eutanasia attiva diretta (che in Europa è stata resa legale solo nel Benelux) si verifica quando il medico causa direttamente la morte del malato, il più delle volte attraverso farmaci somministrati per via endovenosa.
  • L'eutanasia attiva indiretta avviene quando le medicine utilizzate, ad esempio la morfina assunta in iperdosaggi (cioè non quelli che vengono di norma somministrati ai pazienti per eliminare il dolore), hanno l'effetto secondario di accorciare la vita del paziente.
  • L'eutanasia passiva prevede che il personale sanitario si astenga dal praticare cure e terapie volte a mantenere in vita la persona, oppure che vengano spente le macchine adibite a questo scopo. Ecco, questo è il caso in cui si "stacca la spina".

Un'altra distinzione da fare riguarda la capacità o meno del malato di intendere e di volere nel momento in cui viene presa la decisione. In particolare si parla di:

  • Eutanasia volontaria: viene richiesta in modo esplicito dal malato nel pieno possesso delle sue facoltà di intendere e di volere.
  • Eutanasia non volontaria: quando a esprimere la volontà di mettere fine alla vita di un malato non è lui stesso, ma un soggetto terzo designato come tutore. Può capitare nei casi in cui la persona si trovi in coma, oppure sia un minore.
  • Eutanasia involontaria: quando viene effettuata senza richiedere il consenso al paziente, come è accaduto in due casi che si sono verificati in Olanda, nei confronti di due neonati ai quali è stata praticata un'iniezione letale, dopo aver appurato che le loro condizioni di salute gli avrebbero garantito una qualità dell'esistenza molto scadente.

Il suicidio assistito

Il suicidio assistito è, per intenderci, la modalità scelta da Dj Fabo nel 2017. In questa situazione, il medico è presente e il suo compito è quello di prescrivere e fornire i farmaci che provocheranno la morte del paziente. Sarà poi quest'ultimo ad assumerli. Di norma vengono somministrate due pastiglie di un preparato antiemetico che favorisca l'assimilazione ed eviti il rigetto di quello che provocherà il decesso vero e proprio. In Svizzera si ricorre spesso al Pento Barbital di sodio, un barbiturico. Il punto centrale della questione è che il medico non interviene per causare l'interruzione della vita del malato, ma procura gli strumenti farmacologici tramite i quali egli potrà raggiungere lo scopo.

La terapia del dolore

La terapia del dolore viene praticata nei confronti dei pazienti terminali e di tutte quelle persone malate sottoposte a un livello di sofferenza fisica molto elevato. Possono quindi ricorrervi i malati oncologici, cronici, affetti da patologie degenerative e che hanno appena subìto un intervento chirurgico particolarmente serio. Vengono somministrati farmaci analgesici, anche attraverso un catetere posizionato nel braccio, che in alcuni casi possono avere come effetto secondario quello di ridurre la durata della vita del paziente.

La sedazione profonda

La sedazione profonda è legale in Italia e nel 2018 è stata praticata da Marina Ripa di Meana, morta di cancro il 5 gennaio dello stesso anno. Si attua attraverso la somministrazione di un mix di farmaci, tra cui oppiacei e ipnoinducenti, che calmano il dolore e facilitano l'entrata in uno stato di incoscienza. Vi si può ricorrere una volta che tutte le altre terapie per trattare la malattia si sono rivelate inefficaci e solo in caso di paziente terminale, per alleviarne le sofferenze. È necessario il consenso informato e rientra nell'ambito delle cure palliative. Viene definita anche sedazione continua perché viene prolungata fino a quando non sopraggiunge la morte naturale della persona.

L'accanimento terapeutico

Per spiegarti cosa sia l'accanimento terapeutico, potrei dirti che non si può parlare di terapia ragionevole nel momento in cui non serve più a curare nulla. Si verifica quando ci si ostina a perpetrare trattamenti che l'evidenza scientifica e medica dimostrano essere inutili o sproporzionati. Nel momento in cui il paziente non trae un reale beneficio da quanto gli viene somministrato, allora non vi è alcuna ragione per proseguire lungo quel percorso di cure. Un'altra forma di accanimento terapeutico si manifesta quando gli effetti collaterali delle cure superano di netta misura i benefici.

Se insomma una persona è arrivata alla fine della vita, sarebbe ragionevole accettare la situazione e accompagnarla alla morte, invece che tentare ogni possibile metodo per prolungarne l'esistenza. E non è per nulla un discorso scontato. Nel mondo moderno, dove la scienza ha fatto davvero progressi enormi, la durata della vita si allunga sempre di più e ormai nemmeno i centenari fanno più notizia. Lo stesso discorso non vale però per la qualità della vita. Capire quando si sta dando priorità alla sopravvivenza di una persona rispetto al suo benessere è quindi una distinzione che si rende necessaria.

Alimentazione e idratazione forzate

L'alimentazione e l'idratazione artificiale sono interventi medici che vengono messi in pratica ogni volta che il paziente non può provvedere da solo a compiere queste due azioni, fondamentali per la sua sopravvivenza. La ragione può essere banale, come un semplice intervento chirurgico, o più seria, ad esempio nel caso di persone in coma o affette da una patologia che non gli permette più di ingerire sostanze che apportino i nutrienti necessari al corpo. Queste sostanze possono essere somministrate attraverso un sondino, per via endovenosa o tramite cateteri che arrivano direttamente in stomaco e intestino.

Sono forzate quando non vi è il consenso del paziente, o del suo tutore legale, e quando non appartengono a un chiaro obiettivo terapeutico. Quando cioè vengono utilizzate solo per prolungare la vita del malato, senza però apportare alcun beneficio e senza un fine specifico. In questo caso, fanno parte a tutti gli effetti dell'accanimento terapeutico.

La respirazione artificiale

La respirazione artificiale è un intervento che viene messo in pratica ogni volta che una persona non è in grado di respirare da sola. Con questo termine ci si riferisce sia a una manovra di primo soccorso in caso di arresto cardiaco, che a un trattamento quotidiano per pazienti con patologie che non gli consentono di respirare autonomamente. In quest'ultimo caso però si parla di ventilazione meccanica, che può essere più o meno invasiva. Si possono infatti usare diversi tipi di maschere facciali, oppure un vero e proprio respiratore automatico. È questa la macchina che viene impiegata, ad esempio, con i pazienti affetti da SLA.

Il respiratore automatico funziona tramite l'intubazione endotracheale: attraverso un intervento di tracheotomia si pratica una fessura nel collo e vi si inserisce, appunto, un tubo. Questo sondino sarà attaccato a uno strumento, chiamato ventilatore meccanico, che provoca la sollevazione ritmica della gabbia toracica e permette ai polmoni di dilatarsi per ispirare la giusta quantità di aria e contenere il corretto volume di ossigeno.

Il testamento biologico

Dal 2017 in Italia è legale il testamento biologico. Funziona come un vero e proprio testamento, in cui una persona può fornire delle disposizioni anticipate riguardo le sue volontà in caso si trovasse impossibilitata a indicare o meno il proprio consenso alle cure. È necessario redigere una Disposizione Anticipata di Trattamento (DAT), nella quale si decide quali trattamenti si vorranno accettare e quali no. Il personale medico è vincolato al rispetto di quanto scritto, soprattutto quando un paziente non può più esprimersi. Dovranno comunque essere assicurate cure palliative e un'adeguata terapia del dolore fino al sopraggiungere del decesso.

All'interno del testamento biologico, una persona deve nominare anche un fiduciario, cioè una sorta di tutore legale che si occuperà di vigilare sul rispetto della volontà del malato, qualora non fosse più cosciente o in grado di intendere e di volere.

Redigere un DAT non è troppo difficile: può essere scritto sia al computer sia con carta e penna, oppure in formato video. Si può quindi ricorrere a un atto pubblico notarile oppure a una scrittura privata autenticata da un notaio o un pubblico ufficiale. Ma può anche venire depositata semplicemente presso l'Ufficio dello Stato civile del tuo Comune di residenza. Anche presso le strutture del Servizio sanitario nazionale è possibile registrare un DAT e nel 2018 è stato istituito un registro nazionale delle Disposizioni dove devono venire inserite tutte.

Il consenso informato

Per tutte le pratiche che ti ho descritto finora acquisisce un'importanza fondamentale il consenso informato. Il paziente cioè deve dare la propria approvazione consapevole alla somministrazione di cure e terapie. Secondo l'articolo 32 della Costituzione, infatti, nessuna persona può essere sottoposta a trattamenti medici contro la sua volontà. La legge numero 219 del 2017, "Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento", prevede che l'accettazione dei trattamenti debba avvenire in forma scritta. In realtà, si segue questa procedura solo in casi specifici, come una trasfusione di sangue o le cure contro il virus dell'Hiv. Altrimenti si renderebbe necessario un documento firmato anche per un banale prelievo di sangue.

Lo scritto serve comunque a dimostrare in modo chiaro e inconfutabile che il malato ha accettato gli interventi proposti dal medico. Per questo motivo, esiste un modulo prestampato che contiene le principali avvertenze alla terapia che sta per essere fornita e a cosa sta andando incontro la persona.

Il medico che non agisce senza consenso informato può quindi incorrere in responsabilità civili e penali. Fanno però eccezione i casi di urgenza, nei quali il personale sanitario è chiamato a intervenire senza attendere l'approvazione del paziente, al fine di salvargli la vita nell'immediato.

La constatazione di decesso

Finora ti ho parlato di fine vita, ma c'è ancora una domanda alla quale è necessario rispondere: quando una persona può essere considerata morta? Si parla di avvenuto decesso quando sono terminate in modo irreversibile tre funzioni fondamentali per la sopravvivenza di un essere umano: l'attività cardiocircolatoria, l'attività respiratoria e l'attività nervosa. Nel primo caso di parla di morte clinica, nel secondo di morte reale e nel terzo di morte legale. In ogni caso, affinché una persona possa essere dichiarata deceduta, tutte e tre queste attività devono cessare.

A questo punto un medico può effettuare la constatazione di decesso. Non deve per forza trattarsi di uno specialista, ma può essere il medico di medicina generale, quello di continuità assistenziale (la guardia medica, insomma), quello del 118, oppure il medico presente in reparto quel giorno. Si tratta infatti solamente di una certificazione in carta semplice ed è il primo atto che viene compiuto nell'ambito dell'attestazione di morte.

Dopodiché deve essere notificato all'Istat che quella persona non è più in vita. Si chiama denuncia di morte e deve essere compilata entro le 24 ore dalla constatazione di decesso. Nel frattempo devono essere avviate le pratiche anche per l'accertamento di morte, a opera del medico necroscopo, una figura presente in ogni Asl che assolve a questo preciso compito. Deve essere redatta tra le 15 e le 30 ore successive alla prima certificazione medica.

Morte cerebrale

Oltre a cuore, polmoni e sistema nervoso centrale, c'è anche un altro organo fondamentale per la tua vita: il cervello. Si definisce dunque morte cerebrale quella situazione in cui il tronco encefalico interrompe ogni attività in modo irreversibile. La conseguenza diretta è che cessano anche tutta una serie di funzioni come quella respiratoria autonoma e qualunque riflesso di base. Il tuo corpo insomma non reagisce più a nessuno stimolo e dunque non potrai nemmeno mangiare o parlare. La constatazione di morte cerebrale viene effettuata da un team di specialisti, dopo aver effettuato una serie di test mirati.

Stato vegetativo

Se un paziente viene dichiarato in stato vegetativo, significa che, anche se i suoi occhi sono aperti, non è in grado di interagire con le persone o l'ambiente che lo circonda. Non è più pervenuta infatti nessuna funzione cognitiva. In alcuni casi può trattarsi di una condizione temporanea, ma spesso si rivela cronica e un individuo non recupera più le capacità perse. Il cuore e l'apparato respiratorio continuano a compiere il proprio lavoro, ma lo stato di coscienza è alterato e la percezione di sé non esiste più. Per questa ragione, non si reagisce agli stimoli e nemmeno alle minacce o ai potenziali pericoli. Se un individuo riesce ancora a parlare, è possibile che ripeta sempre la stessa parola o la medesima sillaba, senza attribuire ad essa nessun significato.

Fonti| Fondazione Veronesi; MeAlex studio legale; Ieo; MsdManuals

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