Il dramma di non trovare più le parole: come si affronta l’afasia post-ictus

Quasi un terzo delle persone colpite da un ictus diventano afasiche, cioé manifestano un disturbo del linguaggio che rende problematico, se non impossibile, comunicare verbalmente. Una condizione assai invalidante, che fa sprofondare il paziente in uno stato di isolamento sociale (con tutte le conseguenze emotive del caso). Ma recuperare la parola si può, grazie a percorsi neuroriabilitativi mirati.
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Federico Turrisi 3 Dicembre 2020
* ultima modifica il 03/12/2020
Intervista alla Prof.ssa Paola Marangolo Professore ordinario di psicobiologia e psicofisiologia e di neuroscienze cognitive presso l'Università degli studi di Napoli "Federico II"

Immagina di non riuscire più a chiedere un bicchiere d'acqua, a scambiare quattro chiacchiere con un amico, a chiamare i tuoi figli per nome. Puoi "vedere" le parole, nella tua testa sono ben presenti, ma dalla bocca escono solo suoni incomprensibili. Quali sensazioni si possono provare in circostanze del genere? Le può vivere solo un afasico, ossia una persona che, dopo aver riportato una lesione cerebrale, è incapace di esprimersi verbalmente. Oggi 3 dicembre è la giornata internazionale delle persone con disabilità, e se c'è una condizione particolarmente invalidante, soprattutto per i rapporti interpersonali, questa è proprio l'afasia. Un disturbo con cui non è affatto semplice convivere e che mette a dura prova i pazienti (il più delle volte reduci da un ictus) e le loro famiglie.

Eppure, nel panorama del giornalismo scientifico italiano non gode certo della stessa rinomanza, diciamo così, di altre patologie connesse al sistema nervoso come la sclerosi multipla, il Parkinson o l'Alzheimer. A differenza di quest'ultimo, per esempio, le persone afasiche conservano intatte le facoltà intellettive e sono quindi pienamente consapevoli di quello che sta accadendo a loro. Chi si occupa da oltre 35 anni di afasia è la professoressa Paola Marangolo, ordinario di psicobiologia e psicofisiologia e di neuroscienze cognitive presso l'Università degli studi di Napoli "Federico II", nonché direttrice del Laboratorio di Ricerca sull'Afasia presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS di Roma.

Professoressa, che cosa intendiamo per afasia? 

L’afasia è un disturbo acquisito del linguaggio, conseguente a un evento cerebrale, quasi sempre di origine vascolare. Un ictus, per intenderci. In misura minore può essere la conseguenza di un trauma cranico, di un tumore o di una malattia infettiva. Il danno interessa quasi sempre l’emisfero sinistro del cervello. Per il 98% dei destrimani e per oltre i due terzi dei mancini, infatti, le aree deputate al linguaggio sono collocate proprio nell’emisfero sinistro.

Quante persone sono affette da questo disturbo in Italia?

L’ictus costituisce la terza causa di morte. I dati epidemiologici ci indicano che almeno il 30% dei pazienti post-ictus è afasico. Nel nostro Paese abbiamo circa 20 mila nuovi casi all’anno.

A quali problemi vanno incontro le persone afasiche?

Anche se mantengono intatte le loro capacità intellettive, le persone affette da afasia non possono esprimere i loro pensieri, perché non riescono più a trovare le parole che prima del danno cerebrale conoscevano perfettamente. Le parole possono diventare suoni totalmente indecifrabili, come se appartenessero a una lingua sconosciuta. Nei casi più gravi le persone afasiche possono avere difficoltà anche a capire quello che gli altri dicono, a comprendere il significato delle parole, un dato molto importante per noi specialisti quando facciamo una prognosi.

La buona notizia è che l’afasia si può curare, giusto?

Dipende moltissimo dalla scelta riabilitativa. L’unico rimedio è infatti programmare dei percorsi neuroriabilitativi intensivi, che vanno "cuciti" sul paziente. In altre parole, vanno indirizzati verso il recupero di quelle componenti linguistiche che noi, nel momento della diagnosi, riteniamo importanti per lui. La prima tappa è proprio rappresentata da una diagnosi corretta, che ci permette di quantificare il danno alle diverse componenti linguistiche (produzione delle parole, comprensione, lettura, scrittura). Si passa quindi alla pianificazione dell'intervento neuroriabilitativo. Ce ne sono diversi, e noi dobbiamo individuare qual è il più efficace per il miglioramento della sintomatologia di quel paziente. Ci dobbiamo adeguare alle sue esigenze e anche a quello che sapeva fare in precedenza: il nostro punto di riferimento è chi era il paziente prima dell'evento traumatico. Noi oggi non sappiamo bene quali siano i meccanismi che sottostanno al recupero del linguaggio. Ma quello che sappiamo perfettamente è che l’intervento neuroriabilitativo è tanto più efficace quanto è più intenso.

In che senso?

Il nostro cervello, se viene messo “sotto sforzo”, sviluppa dei processi di neuroplasticità. Ricordiamoci che il linguaggio è il sistema cognitivo più complesso che abbiamo, insieme alla memoria. La persona afasica viene generalmente inserita in un percorso neuroriabilitativo dove svolge almeno un’ora al giorno di esercizi per il recupero del linguaggio, possibilmente seguito da un logopedista o da un terapista della riabilitazione. Ma ancora oggi ci si dimentica spesso dell’importanza di proseguire durante la stessa giornata l’intervento neuroriabilitativo, possibilmente con l’aiuto di un familiare incaricato di eseguire una serie di esercizi sotto la supervisione del logopedista. Perché un’ora al giorno non è assolutamente sufficiente ad ottenere un miglioramento soddisfacente.

Quanto dura il percorso di neuroriabilitazione?

Generalmente è di sei mesi, ma può estendersi anche a un anno. Il trattamento deve proseguire fino a quando la persona afasica non mostra segni di miglioramento significativi tra i diversi controlli diagnostici, che si effettuano con una cadenza trimestrale. È chiaro che se il paziente migliora bisogna rivedere in corso d’opera il protocollo riabilitativo.

Quanto è importante la multidisciplinarietà nel trattamento dell’afasia?

Moltissimo. L’équipe medica è di solito composta dal neuropsicologo, dal terapista della riabilitazione, dal logopedista e anche dal fisioterapista, qualora fosse necessario un intervento motorio per il miglioramento dei movimenti del braccio e della gamba di destra (a volte l’afasia è accompagnata da un’emiparesi destra all’arto superiore e inferiore). Ma non è da tralasciare il ruolo della famiglia. La considero parte integrante, insieme alla persona afasica naturalmente, di quello che chiamo un patto di alleanza terapeutica. Per questo è indispensabile che ai familiari del paziente vengano fornite informazioni corrette sull’evoluzione del disturbo afasico.

Allo stesso modo, non sono da trascurare le ripercussioni a livello emotivo e psicologico dell’afasia.

Assolutamente. Avendo perso la facoltà di comunicare verbalmente, queste persone vivono in uno stato drammatico di isolamento sociale. In taluni casi, chi è colpito da afasia assiste alla perdita del lavoro o alla separazione con il coniuge, che non regge il peso della sofferenza. E quindi possono subentrare depressione, ansia, perdita dell’autostima.

Visto che lei si occupa di ricerca sull’afasia, le chiedo: come si sta evolvendo il trattamento di questo disturbo?

Il nostro obiettivo è quello di potenziare gli effetti dei protocolli riabilitativi convenzionali. Dal 2007 utilizziamo dispositivi di neuromodulazione cerebrale, tra cui la tDCS, ossia la stimolazione transcranica a corrente diretta. È una tecnica indolore e consiste nel posizionare due elettrodi sulla testa del paziente, o meglio sulle aree che vogliamo stimolare, che erogano una corrente a bassissima intensità, di appena 2 milliampere, quindi impercettibile. Questa corrente interagisce con la membrana neuronale e la rende più reattiva al trattamento, favorendo fenomeni di neuroplasticità cerebrale. Attenzione però, la tDCS non deve essere utilizzata come un sostituto della terapia tradizionale, ma sempre in combinazione con i protocolli riabilitativi convenzionali.

Ci sono altri approcci che state sperimentando?

Dal momento che, come dicevo prima, il trattamento risulta tanto più efficace quanto più viene effettuato in maniera intensiva e in contesti che simulino situazioni reali, stiamo sviluppando dei protocolli riabilitativi che contemplano anche l’uso delle tecnologie legate alla realtà virtuale. L’effetto è simile a quello della play station: sullo schermo vengono proiettate situazioni di vita quotidiana (dal comprare un biglietto in stazione al fare la spesa al supermercato) grazie alle quali possiamo “conversare” con il paziente nel modo più realistico possibile. Come per la tDCS, tali trattamenti non sono da considerare sostitutivi della terapia convenzionale, ma devono essere affiancati agli approcci tradizionali. Il problema è che l’infrastruttura tecnologica costa parecchio e ci vuole tempo per costruire i contesti virtuali. L’ideale sarebbe avere a disposizione più fondi per la ricerca. Come è risaputo, in Italia sono davvero pochi. Ma questa è un’altra storia.

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