Il nuovo farmaco contro l’Alzheimer solleva alcune questioni: ne abbiamo parlato con il prof. Rossini

L’aducanumab è il primo farmaco che agisce sulle cause della malattia invece che sui sintomi. E questa naturalmente è un’ottima notizia. Ma la comunità scientifica ha ancora qualche perplessità rispetto alla sua efficacia clinica e al suo impiego nel concreto. L’Italia, ad esempio, potrebbe non essere ancora pronta.
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Giulia Dallagiovanna 11 Giugno 2021
* ultima modifica il 11/06/2021
Intervista al Prof. Paolo Maria Rossini Responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele di Roma

Non abbiamo trovato una cura definitiva, ma è stato abbattuto un muro importante: per la prima volta è stato immesso sul mercato (finora solo quello degli Stati Uniti) un farmaco che agisce sulle cause dell'Alzheimer e non solo sui sintomi, come facevano tutte le altre terapie che avevamo a disposizione. Questa novità ha anche sollevato diverse questioni e va detto che, se arriverà in Italia, potrebbe trovarci impreparati.

L'aducanumab infatti, questo il nome del medicinale, ha dimostrato di essere efficace solo quando viene somministrato ai pazienti negli stadi iniziali della malattia. Ma strumenti definitivi per giungere a una diagnosi precoce, anzi precocissima, ancora non li abbiamo. Ce lo ha spiegato il professor Paolo Maria Rossini, Responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’IRCCS San Raffaele di Roma, che ci ha aiutato a capire meglio come debba essere presa questa notizia.

Professor Rossini, come funziona di preciso questo farmaco e perché si dice che agisce sulle cause della malattia?

Non conosciamo ancora con precisione tutte le cause che determinano l'insorgenza dell'Alzheimer. Sappiamo, però, che una di questa è sicuramente la beta-amiloide, una proteina che ciascuno di noi ha, ma che in alcune persone invece di sciogliersi come dovrebbe fare si deposita e forma delle placche. Queste placche si accumulano poi in modo sempre più elevato nel cervello, provocando la morte dei neuroni e la distruzione delle connessioni. Le sinapsi funzionano sempre meno o addirittura per nulla. L'aducanumab è in grado di interferire con i depositi di beta-amiloide e in alcuni casi anche di sciogliere le placche che si sono già formate.

Come mai si è dimostrato efficace solo nelle fasi iniziali dell'Alzheimer?

Perché in realtà quando le placche sono ancora poche e le aree danneggiate del cervello sono limitate, il nostro organo è in grado di reagire facendo affidamento sulle riserve di neuroni e circuiti neuronali. Se, però, aumentano, le riserve si esauriscono. Inoltre bisogna specificare che questo processo non inizia quando compaiono i sintomi, ma anni o persino decenni prima, progredendo in silenzio per tanto tempo. Di qui la necessità di una diagnosi che sia il più precoce possibile, ma anche di un farmaco che potesse interferire con la formazione di queste placche, come fa appunto l'aducanumab.

Però sono stati sollevati dei dubbi rispetto al suo utilizzo…

Non è in discussione la possibilità di interferire o di ridurre i depositi di beta-amiloide, ma ci sono perplessità rispetto alla sua reale efficacia clinica. In altre parole, a fronte del fatto che le formazioni sono limitate, non è emerso un reale guadagno clinico nei pazienti che hanno partecipato alla sperimentazione. Per questo motivo, l'FDA ha chiesto all'azienda farmaceutica uno studio di fase 4 e quindi di effettuare ulteriori test sui pazienti volontari per confermare i livelli di efficacia.

E questo punto critico si collega anche al problema della diagnosi precoce, è corretto?

Esattamente. Se l'uso del farmaco viene limitato alle fasi iniziali, possiamo immaginare di avere comunque un 10% di pazienti ai quali possiamo somministrarlo. Considerando che in Italia ci sono tra le 500mila e le 600mila persone affette da Alzheimer, si parla più o meno di 50mila/100mila pazienti. Ma oggi non siamo organizzati per effettuare una diagnosi molto precoce, ovvero ancora prima che compaiano i sintomi, su un numero così elevato di soggetti. Servono tecnologie che possediamo solo in numero limitato e non sono distribuite con uniformità in tutte le aree del Paese.

Quindi se domani l'aducanumab fosse approvato anche da EMA e da Aifa, non sapremmo bene come impiegarlo nel concreto?

Ci troveremmo in difficoltà. Anche se, e questo è un punto a nostro favore, l'Italia è il primo tra i Paesi occidentali ad aver lanciato un progetto internazionale che mira a definire quali siano gli esami strumentali e di quale organizzazione territoriale dobbiamo dotarci per raggiungere un iter standard per la diagnosi precoce. Io mi occupo di coordinare il progetto, dove il San Raffaele di Roma collabora con il Policlinico Gemelli e altri 20 centri italiani. I risultati finali dovremmo averli entro la metà del 2023.

E questo lavoro è molto importante anche in vista dei futuri farmaci che sono già in sperimentazione e che molto probabilmente dovranno essere utilizzati sempre nelle fasi iniziali della malattia.

Si aggiunge poi il problema degli effetti collaterali.

Edema del cervello e microemorragie sono due effetti collaterali già emersi e che quindi richiedono l'esecuzione di una risonanza magnetica periodica dell'encefalo. E questo naturalmente aggiunge ulteriori costi e difficoltà organizzativa. Stiamo parlando di tanti pazienti che magari ogni tot. settimane devono sottoporsi a un esame.

In conclusione, l'approvazione di aducanumab da parte di FDA, è una bella notizia oppure no?

Certamente la è: fino a ieri non avevamo nulla, ora cominciamo a contare almeno una possibilità. E questo risultato è importante soprattutto per i malati e per le loro famiglie. Semplicemente nessuno pensa che questo sia il farmaco definitivo e risolutivo. La storia della Medicina è costellata da malattie complesse che a un certo punto hanno avuto un primo farmaco parzialmente efficace e magari con molti effetti collaterali, a cui sono poi seguiti altri farmaci, via via sempre migliori. Speriamo che sia lo stesso anche per l'Alzheimer.

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