In Africa l’HIV è ancora una pandemia, la dottoressa Bazzanini: “Però possiamo provare a vedere il bicchiere mezzo pieno”

Oggi è la Giornata dell’Africa e per celebrarla abbiamo provato a capire come sta evolvendo la lotta all’HIV, che nel continente africano resta un problema serio ma in fortunatamente in miglioramento. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Noemi Bazzanini, infettivologa che con Cuamm ha lavorato alla campagna sanitaria in Tanzania.
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Kevin Ben Alì Zinati 25 Maggio 2022
* ultima modifica il 25/05/2022
In collaborazione con la Dott.ssa Noemi Bazzanini Infettivologa in servizio in Tanzania per Cuamm

C’era una ragazza nel nord della Tanzania, avrà avuto 24 anni. Era incinta e quando è arrivata a testarsi in uno degli ambulatori dell'ospedale allestito nella regione di Simiyu, i medici le avevano rilevato una viremia molto alta. C’era quindi il rischio che trasmettesse il virus anche al suo feto.

La ragazza avrebbe potuto accedere a tutti i farmaci e curarsi proteggendo se stessa e il bambino ma rifiutava di prendere le terapie.

Per gli operatori sanitari attivi nella regione non era una scena sconosciuta. Nonostante la percentuale di persone sotto trattamenti antiretrovirali sia notevolmente aumentata nel corso degli ultimi 10 anni, in Africa c’è sempre qualcuno che sfugge alla campagna anti-HIV: perché non sa di aver contratto il virus, perché ha paura, perché non riesce a seguire costantemente il percorso terapeutico, perché muore.

Molti erano convinti che non avrebbero più rivisto la futura mamma di 24 anni, anche la dottoressa Noemi Bazzanini. Che però ma non ha mai smesso di sperare, né di portare con sé dell’acqua in più. Sapeva che se anche la ragazza fosse venuta all'ambulatorio avrebbe fatto di tutto per non prendere i farmaci: non voleva quindi farsi trovare impreparata.

Il primo giorno di trattamenti, invece, la giovane si presentò in ambulatorio, con l’acqua. Così fece anche il secondo, e il terzo giorno. Alla fine seguì tutta la terapia e a novembre del 2018 diede alla luce il suo bambino. Era sano. La ragazza si chiamava Mama Baraka: in Tanzania molto spesso le donne prendono il nome dal loro bambino.

Questa è solo una delle tante storie che la dottoressa Bazzanini custodisce gelosamente nella memoria ed è anche una di quelle che fotografa in modo vivido l’evoluzione della pandemia da HIV in Africa.

Prospettive

Quando in Italia è stato detto addio allo stato di emergenza per il Covid-19, insieme al professor Fabrizio Pregliasco abbiamo provato a riflettere su quale avrebbe potuto essere il destino di questa pandemia.

Liberi dalla pretesa di indovinare il futuro, volevamo provare a capire che forma avrebbe potuto assumere l’emergenza vista l’ampia diffusione della vaccinazione, l’efficacia dei trattamenti e l’esperienza nella gestione di una crisi sanitaria accumulata negli ultimi due anni.

Pregliasco è uno di quegli esperti che mastica divulgazione da anni e sa che comunicare l’incertezza – uno dei cardini fondamentali quando si parla di malattie virali e scienza – non è per niente semplice.

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Tuttavia ci aveva dato una piccola e (a suo modo) rassicurante certezza. Ci aveva spiegato che una pandemia non finisce quando cadono tutte le restrizioni imposte dai Governi o spariscono gli hub vaccinali allestiti in ogni angolo di strada. Una pandemia finisce quando non se ne parla più.

Se seguiamo questa logica, possiamo dire che quella da HIV non è più una pandemia in Occidente e nei paesi «ricchi». Non è più un’onda anomala in quei paesi che da decenni godono di terapie così innovative ed efficaci che hanno reso la vita con l’HIV “una cosa normalissima” come l’aveva definita Giusi Giupponi, presidentessa della Lila Como.

In Africa, tuttavia, non è proprio così. In Africa si parla ancora di pandemia da HIV e se ne continuerà a parlare ancora per un po’. Considera che solo nel 2020 oltre 37 milioni di persone nel mondo erano affette da HIV e più due terzi di queste (vale a dire oltre 25 milioni) vivevano solo nel continente africano.

Eppure, la situazione sta comunque nettamente migliorando. Secondo la dottoressa Bazzanini oggi HIV resta un problema serio che, tuttavia, è sui binari del miglioramento. Ci vorranno ancora sacrifici e tanto lavoro, ma oggi si intravedono i frutti del massiccio intervento globale mosso su più livelli: sanitario, comunicativo, culturale.

Bazzanini è convinta: possiamo provare a guardare il bicchiere mezzo pieno. “La svolta è arrivata intorno al 2015, quando si è cominciato a dare le terapie antiretrovirali a tutti, a prescindere dallo stadio della malattia”. 

Infettivologa di origine emiliana, Noemi Bazzanini ha l’Africa nel cuore da anni, probabilmente da sempre. È partita per il Continente la prima volta nel 2011, quando era ancora una studentessa al sesto anno di medicina. Una volta scelta la specializzazione si è unita a Cuamm, l’organizzazione no profit di tutta delle popolazioni africane, per combattere la pandemia da HIV e da quel momento lei e l’Africa non si sono più separate.

A sinistra e in camice verde: è la dottoressa Noemi Bazzanini, durante un dei suoi "turni" in Tanzania con Cuamm.

Oggi si trova in Tanzania, nel cuore della regione di Iringa. Ci ha raccontato la sua esperienza con l’HIV dai reparti dell’ospedale Tosamaganga, tra un turno e l’altro.

La svolta è arrivata nel 2015, quando si è cominciato a dare le terapie antiretrovirali a tutti

Dott.ssa Noemi Bazzanini, infettivologa

“Anni fa le terapie erano somministrate in base alla gravità dell’infezione e quindi erano accessibili solo a chi aveva uno stato avanzato di malattia. Anche in Italia, per esempio, le si dava solo chi aveva una bassa conta di linfociti CD4, sintomo di un sistema immunitario già compromesso. Via via la soglia è aumentata anche a 500 CD4, quindi un numero non così basso. Le cose sono cambiate davvero circa6-7 anni fa – ha proseguito la dottoressa Bazzanini – quando è stata impostata la strategia globale contro l’HIV del «Test and Treat», ovvero testa e metti in trattamento”.

90-90-90

Nel 2015, il Programma congiunto delle Nazioni Unite sull’Hiv/Aids (l’UNAIDS) aveva racchiuso gli obiettivi della campagna mondiale in uno slogan ambizioso: «90-90-90». Il piano, in sostanza, prevedeva che entro il 2020:

  • il 90% di tutte le persone che vivono con l'HIV avrebbe dovuto essere testa e conoscere il proprio stato di HIV
  • il 90% di tutte le persone con diagnosi di infezione da HIV avrebbe avuto ricevere una terapia antiretrovirale prolungata
  • il 90% di tutte le persone che ricevono una terapia antiretrovirale avrebbe dovuto riscontrare la riduzione delle carica virale

La strategia, a livello globale, ha portato a notevoli miglioramenti nella lotta all’HIV e all'Aids. Già alla fine del 2019, l’81% delle persone affette da HIV era consapevole della propria condizione, il 67% seguiva la terapia antiretrovirale (circa 25 milioni su quasi 38 milioni) e quasi il 59% delle persone che vivono con l'HIV a livello globale aveva soppresso la carica virale.

Anche l’Africa ha compiuto progressi importanti contro l’HIV perseguendo gli obiettivi della strategia «90-90-90». Per il Continente africano così come per il resto del mondo, tuttavia, la «vittoria» era rimasta lontana.

Anche per questo nel dicembre 2020 l’Unaids decise di alzare ulteriormente asticella e ritoccare verso l’alto i nuovi obiettivi per il 2030 fino al «95-95-95».

Un anno dopo, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in Africa l’87% di coloro che convivevano con il virus conosceva il proprio stato di salute, di questi il ​​77% era in trattamento e il 68% aveva una bassa carica virale. Numeri importanti ma comunque ancora distanti dalla meta.

Dalle analisi dell'Oms emerse poi che solo nove paesi (Botswana, Capo Verde, Kenya, Lesotho, Malawi, Nigeria, Ruanda, Uganda e Zimbabwe) erano ben avviati verso il raggiungimento degli obiettivi entro il 2025 anche se nessun paese li aveva ancora centrati tutti e tre.

Guardando più nel dettaglio i dati avevamo riverto che lo stato indipendente dell’Eswatini, nell’Africa meridionale, aveva superato i primi due, che il 95% di persone affette da HIV a Capo Verde, in Gibuti e in Kenya sarebbe a conoscenza del proprio stato e che altri otto paesi sarebbero vicini allo stesso traguardo.

“È stato investito parecchio e i risultati ci sono stati. Il traguardo più importante ora è che in questi anni in Africa sono arrivate le terapie antiretrovirali: ci sono per tutti, sono gratuite a ogni livello e il sistema di cure è capillare sul territorio ha sottolineato la dottoressa Bazzanini, specificando che questa «rivoluzione» – come l’abbiamo ribattezzata nella nostra telefonata – non riguarda solo la Tanzania ma gran parte del Continente.

Una giornata di test

Quando si lavora per arginare la pandemia da HIV in Africa ci si affida alle cliniche, agli ambulatori e agli ospedali attivi nelle città. È qui che si reca chi ha scoperto di aver contratto il virus per iniziare a seguire il prima possibile il proprio percorso terapeutico.

Prima però c’è tutta la fase di testing. “I testing team tutti giorni vanno nei villaggi, annunciano il loro arrivo e con l’aiuto degli operatori di salute comunitario monitorano le persone all’interno di tende allestite all’aperto ma anche ambulatori e ospedali ha raccontato la dottoressa Bazzanini.

Ora in Africa le terapie ci sono per tutti, sono gratuite e il sistema di cure è capillare sul territorio

Dott.ssa Noemi Bazzanini, infettivologa

I leader delle comunità giocano un ruolo informativo importante ma secondo la dottoressa Bazzanini moltissimi si mettono in fila volontariamente. Sentono la consapevolezza del rischio e vogliono proteggersi.

Nelle tende e in tutti gli altri centri dove si effettuano i test non si fanno prelievi di sangue ma si sfruttano dispositivi molto più semplici e rapidi: strumenti “molto sensibili e poco specifici” simili ai test rapidi che abbiamo imparato a conoscere con il Covid-19.

Quando una persona entra, gli si prende un campione di sangue attraverso il classico «pungidito», lo si riversa nei kit chiamati «saponette» insieme a un reagente e in 10-15 minuti si ottiene il risultato. “Di solito viene fatto un counseling pre-test con cui si spiega alle persone come leggere i risultati, cosa significano e quali sono i trattamenti”. 

Una volta confermata la diagnosi, le persone vengono dirottate nei vari ambulatori per ricevere i trattamenti e la maggior parte di coloro che iniziano la terapia riesce a proseguirla per tutta la vita.

Tuttavia capita che qualcuno – anzi, ancora molti purtroppo – sfugga alla rete o arrivi in stato di Aids conclamato e già avanzato. Il numero di morti per cause direttamente legate all’HIV, tuttavia, secondo la dottoressa Bazzanini starebbe via via diminuendo sempre sempre di più. Anche in Africa, così come nel resto del mondo, la speranza di vita di chi convive con il virus si starebbe allungando.

“I problemi dipendono semmai da altre situazioni correlate. In Italia, equiparare la terapia cronica per l’HIV a quella per il diabete o l’ipertensione è un concetto base e assodato. In Africa è l’opposto perché non ci sono cliniche che trattano le altre patologie”.

La dottoressa Bazzanini si riferisce alle cosiddette «non-communicable disease», ovvero tutte quelle malattie non trasmissibili da una persona all’altra e di natura tendenzialmente cronica.

Pensa alle patologie cardiovascolari come l’infarto e l’ictus, ai tumori, all’asma o, appunto, al diabete: sono condizioni per noi «trattabili» ma che nei paesi a basso reddito rappresentano la causa di oltre 31,4 milioni di decessi, più di tre quarti del numero globale di morti legato alle malattie non trasmissibili.

In Africa non ci sono farmaci gratuiti per queste malattie. Ci si deve avvalere di un’assicurazione sanitaria, che sta prendendo sempre più piede rispetto al passato, altrimenti la maggior parte delle persone se ha il diabete deve pagarsi l’insulina, se soffre di pressione alta deve acquistarsi le pillole da prendere a vita. È paradossale – ha chiosato sconsolata – ma l’HIV sta diventando il modello a cui tendere”. 

La svolta definitiva?

La campagna che ha visto il mondo mobilitarsi contro la pandemia da HIV ha fatto registrare passi in avanti anche su un altro fronte. Il lato oscuro meno visibile ma altrettanto pericoloso: lo stigma.

Nella sua esperienza in Tanzania, la dottoressa Bazzanini si è trovata di fronte al muro culturale, a uomini che non ci hanno pensato due volte ad abbandonare la compagna perché positiva al test del’HIV. Allo stesso tempo però ha avuto la fortuna di scontrarsi anche con le sfumature più positive.

In Africa non ci sono farmaci gratuiti per malattie com diabete o ipertensione

Dott.ssa Noemi Bazzanini, infettivologa

Come quella del «treatment supporter». Una cosa che ti sorprenderà sapere è che quando una persona viene testata positivamente per l’HIV, prima ancora che inizi le terapie viene invitata a trovare un altro individuo che agisca da supporto.

Una persona fidata, insomma, a cui rivelare il suo «segreto». Un familiare, un amico a cui deve dichiarare di avere contratto l’HIV e che può diventare così il collegamento con tra lui, i medici e l’ambulatorio. “Un positivo deve in qualche modo dichiararsi a qualcuno, cosa che da noi sarebbe impensabile. Non lo farebbe quasi nessuno e non lo si chiederebbe mai. Questo ha contribuito a rompere un po’ il tabù e la stigmatizzazione, rafforzando invece il senso di responsabilità”. 

La vera svolta, quella definitiva, potrebbe arrivare con il vaccino contro l’HIV. La scienza ci sta lavorando da anni e proprio negli ultimi mesi è arrivata un’accelerata importante, che tra l’altra porta la firma di uno scienziato italiano.

Il dottor Paolo Lusso, infatti, è stato a capo del progetto di ricerca che ha sviluppato il primo vaccino anti-HIV. A breve dovrebbe partire una prima fase di test in un campione ristretto di volontari e una volta completate le analisi si passerà alla seconda fase, che dovrebbe vederlo alla prova «sul campo», proprio in Africa.

La dottoressa Bazzanini tiene per le zampe un pollo: glielo ha regalato uno dei suoi pazienti

Per riempire definitivamente quel bicchiere dei cui ti parlavo all’inizio, per la dottoressa Bazzanini serve anche altro. L’eradicazione della pandemia da HIV, in Africa, deve necessariamente passare da più strade. “Un vaccino potrebbe essere un punto di svolta. Mentre aspettiamo serve rafforzare la possibilità della gente di accedere al sistema sanitario: vuol dire che le persone devono potersi curare per tutto. Va aumenta l’equità del sistema: oggi in Africa la cura e la tutela della propria salute sono ancora troppo legate alle disponibilità economiche di ciascuno. Così non è equo”. 

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