La molecola che blocca l’Alzheimer: è la scoperta dei ricercatori italiani

Si chiama A13 ed è un anticorpo che favorisce la nascita di nuovi neuroni, prodotti dal cervello. Contrasta insomma proprio quella funzionalità che la malattia neurodegenerativa compromette sin dall’inizio e porta a una sorta di ringiovanimento dell’organo cerebrale. In questo modo, si può guadagnare tempo e provare a intervenire in modo più mirato.
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Giulia Dallagiovanna 26 Novembre 2019
* ultima modifica il 04/12/2020

L'Alzheimer si può contrastare, anzi, bloccare grazie a una molecola che fa ringiovanire il tuo cervello. La scoperta arriva da ricercatori italiani della Fondazione EBRI ‘Rita Levi-Montalcini' e potrebbe portare allo sviluppo di nuove terapia contro una malattia di cui si conosce ancora troppo poco e per la quale, al momento, non esistono cure davvero efficaci. Al momento l'esperimento è stato effettuato solamente sui topi, ma ha già portato a dei risultati davvero ottimi.

La strategia è quella di aumentare l'esercito che difende la funzionalità del tuo organi cerebrale, ovvero i neuroni. Grazie all'anticorpo A13, la famosa molecola di cui ti parlavo all'inizio dell'articolo, viene favorita la nascita di queste nuove cellule, che l'Alzheimer tende invece a ridurre sin dalle prime fasi. Si genera infatti un accumulo di sostanze tossiche, gli A-beta oligomeri, che mandano in tilt tutti i processi. Ma introducendo questa nuova particella, si è visto che il cervello dei tipo aveva ripreso la sua normale attività produttiva, arrivando di conseguenza a bloccare la patologia neurodegenerativa durante lo stadio iniziale. Se si potesse ottenere la stesa situazione anche in un essere umano, questo permetterebbe di guadagnare tempo sia per vivere una vita migliore sia per provare a intervenire con cure più mirate.

Servirà ancora qualche anno prima che si possano effettuare test sugli esseri umani

Una sorta di elisir di eterna giovinezza per il tuo organo cerebrale o di botulino in grado di togliere le sue rughe e i suoi specifici segni dell'età. Gli autori dello studio, pubblicato sulla rivista Cell Death and Differentiation, avvertono però che servirà ancora qualche anno prima che si possa procedere ai test su persone in carne ed ossa.

Fonte| Ansa

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