La pandemia di Covid-19 ha compiuto tre anni, eppure qualcuno se la sta già dimenticando

Le settimane chiusi in casa, le strade vuote, gli applausi dai balconi, i vaccini. E poi ancora: la noia, la solitudine, il silenzio, le bare di Bergamo, i bollettini della Protezione Civile, la paura, i funerali cancellati. Sono passati ormai tre anni dall’inizio della pandemia, uno degli venti più drammatici della nostra storia recente. Uno di quei fatti che diventano Storia e che molti di noi stanno già cancellando dalle proprie memorie. Perché?
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Kevin Ben Alì Zinati 18 Marzo 2023
* ultima modifica il 20/03/2023

Ha compiuto ormai tre anni, la pandemia. Tre anni in cui un virus misterioso e poco conosciuto si è infilato nelle nostre vite spaventandole, bloccandole e strapazzandole per poi risputarcele indietro un po’ simili e un po’ diverse da quelle che conoscevamo.

A prescindere da come ciascuno di noi l’abbia vissuto, ciò che questo lungo arco di tempo rappresenta si riassume in una sola parola: Storia. Vivere una delle emergenza più drammatiche del nostro tempo ha significato guardare le pagine della storia dell’Umanità mentre venivano scritte. Tra i banchi di scuola si studieranno le Guerre Mondiali, l’Olocausto, l’Apollo 11 che atterra sulla Luna e ora anche Sars-CoV-2.

Eppure c’è chi questi tre anni li sta dimenticando. Come foto della gallery del telefono, sta cancellando dall’archivio della memoria immagini ed esperienze legate al Covid-19. Le settimane imprigionati in casa, le strade deserte, gli applausi dai balconi, i vaccini.

E poi ancora i giorni uguali uno all’altro, la noia, la solitudine. Il silenzio e le bare di Bergamo, i pomeriggi scanditi dai bollettini della Protezione Civile, la paura, i funerali cancellati e la ritualità della morte riscritta. Un presente diventato passato che prima c’era e lentamente svanisce.

Ripensando a cosa è stata la pandemia, è normale chiedersi come sia possibile scordarla. Come possiamo essere in grado di cancellare dalla memoria un evento così drammatico, enorme, condiviso e traumatico. È giusto dimenticare?

Ti dirò una piccola grande verità: non è giusto, è normale. Accettare che la nostra memoria non è progettata per essere simile a un computer, secondo un’indagine sul tema appena pubblicata dal Washington Post, è il presupposto base per comprendere l’oblio in cui gettiamo i ricordi di una vita, come la pandemia.

Forse non lo sapevi, ma il meccanismo di archiviazione del nostro cervello funziona attraverso tre fasi identificate come codifica, consolidamento e recupero delle informazioni. La codifica è si innesca non appena veniamo in contatto con nuovi pacchetti di informazioni.

La mente apprende, seleziona e definisce immagini ed esperienze attraverso cambiamenti nei neuroni dell’ippocampo, che è un importante centro della memoria, o nell’amigdala, zona di salvataggio dei ricordi emotivi.

Quando poi dormiamo, il nostro cervello attiva la cosiddetta fase di consolidamento della memoria, che permette di imprimere i ricordi più forti appena vissuti sul nostro «disco rigido» da cui poi li ripesca nella fase di recupero. I neuroni della memoria nell’ippocampo e nella corteccia si riattivano, come schermi spenti che si riaccendono.

I ricordi più duraturi sono quelli distintivi e carichi di emozioni. Sono le esperienze incentrate sulle nostre vite e su ciò che più ci colpisce. La pandemia sembra rispondere a questo identikit: pare un ricordo indimenticabile.

Fare pulizia di ricordi tuttavia, oltreché naturale e automatico, è anche un processo necessario. Ripensa ancora una volta alla metafora del telefono: esattamente come i nostri smartphone, anche la nostra memoria ha uno spazio di archiviazione limitato e più informazioni incontriamo, archiviamo e codifichiamo, più il nostro cervello tende a sovraccaricarsi.

Pensa quanti ricordi produciamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto: non possiamo immagazzinare tutto. Nel processo di memorizzazione qualcosa dunque va perso e i nuovi ricordi, quelli che accadono semplicemente vivendo, finisco per interferire con i più vecchi, sovrastandoli e rimpiazzandoli.

Si tratta di eventi più facili da ricordare perché, hanno sottolineato gli esperti interpellato dal Washington Post, è più probabile che li riutilizzeremo più spesso di altri. Quindi li riattiviamo e li riconsolidiamo più frequentemente.

In tre anni di pandemia, il numero di ricordi che abbiamo generato nel nostro archivio cerebrale è spropositato ed è normale, quindi, che i più vecchi vengano gradualmente sostituti. Ti ricordi cos’è successo a Codogno o come funziona l’R0?

Devi considerare poi che anche fattori esterni possono interferire con il processo di memoria. Pensa allo stress o alla monotonia, elementi che la pandemia ha prodotto in abbondanza. Quando gli eventi sono uniformi, tutti uguali e ripetitivi, sono più difficili da distinguere perché nel nostro flusso di memoria finiscono per fondersi l’uno dentro l’altro in un mare unico.

Se invece un’esperienza si trasforma in un trauma, ecco che dimenticare diventa un’efficacissima tecnica di sopravvivenza. Il nostro cervello, come ogni altro organo è posto a rischi e pericoli e un evento di vita che minaccia l’integrità fisica o psichica, è uno spauracchio da cui deve proteggersi, magari negando e rimuovendo.

Prendi, per esempio, gli attacchi terroristici dell’11 settembre. Un gruppo di scienziati statunitensi ha chiesto a oltre 3mila americani di raccontare le loro esperienze e sentimenti riguardo all’attentato a un solo anno di distanza. Come la pandemia, quanto accaduto alle Twin Towers è qualcosa di indimenticabile, storico. Eppure addirittura il 40% delle persone coinvolte nello studio non ricordava con precisione i fatti.

C’è anche chi già consciamente la pandemia non vuole proprio ricordarsela. C’è una parte di società che non vuole conservare ricordi del Covid perché troppo dolorosi e traumatici. Dall’altra parte, però, c’è anche chi questi tre anni non può cancellarli dalla memoria. Chi ha perso un padre, un nonno, una sorella, un amico questi ultimi tre anni non li scorderà mai.

La memoria di ciascuno di noi è anche un fatto collettivo e il modo in cui la società decide – e deciderà di ricordare la pandemia influenzerà inevitabilmente se e come questo ricordo vivrà dentro la popolazione e le generazioni future.

La pandemia di influenza spagnola del 1918 e del 1919 infettò un terzo della popolazione mondiale e uccise 50 milioni di persone: più delle vittime militari della prima e della Seconda Guerra mondiale messe insieme. Eppure chi se la ricordava prima che nel 2020 cominciassimo a parlare di paziente zero, mascherine e lockdown?

Per essendo estremamente complesso, il meccanismo della memoria insomma non è infallibile. Durante il processo di archiviazione e recupero, qualcosa inevitabilmente va perso e tutti i ricordi possono finire per sgretolarsi. Come la sagoma di una persona che si allontana nella nebbia: più passa il tempo, più i suoi contorni si perdono, fino a sparire.

“La pandemia avrà lo stesso destino?” si è chiesto il Washington Post attraverso le parole di Suparna Rajaram, professoressa di psicologia che studia la trasmissione sociale della memoria alla Stony Brook University.

Sì, se il passato è un predittore del futuro allora potrebbe accadere per davvero che tra dieci, quindi, vent’anni non ci ricorderemo di Covid-19. Allo stesso tempo però abbiamo tutti gli strumenti per proteggere ciò che ci hanno detto, insegnato, raccontato, rubato e mostrato questi ultimi tre anni.

Il punto è: cosa vogliamo?

Fonte | Istituto di psicologia e psicoterapia comportamentale e cognitiva

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