La prevenzione in ritardo: potevamo agire prima che arrivasse la pandemia?

Le avvisaglie di quello che sarebbe potuto accadere c’erano. E noi avevamo anche gli strumenti per alzare le difese. Ma allora, cosa è andato storto?
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Giulia Dallagiovanna 18 Aprile 2020
* ultima modifica il 22/09/2020

È arrivato inaspettato. Mentre i contagi in Cina cominciavano a calare e sulla nave da crociera Diamond Princess, rimasta ancorata per 27 giorni al porto giapponese di Yokohama, si registrava un solo italiano tra i circa 600 casi rinvenuti. Quella mattina del 21 febbraio hai acceso la televisione o hai aperto Facebook e hai trovato un'unica notizia: "Coronavirus, 38enne di Codogno positivo al tampone". Scommetto che ti ricordi perfettamente cosa stessi facendo in quell'istante. Un po' come accadde quel famoso 11 settembre di 19 anni fa.

Alle 12:30, quando si tenne la prima conferenza stampa in Regione Lombardia, i positivi erano già diventati tre. All'arrivo del ministro della Salute Roberto Speranza davanti ai giornalisti, alle 17:30, c'erano 14 casi confermati e in 10 comuni del lodigiano venivano emanate misure restrittive per la prevenzione e il contenimento del virus. "L'Italia è pronta", dichiarava Speranza in quella stessa occasione.

E invece no, il nostro Paese non era preparato a un'emergenza di queste dimensioni. Come noi, diverse nazioni in Europa e nel mondo hanno dovuto fare i conti con un nemico più forte di quello che avevano stimato. Ma la domanda è: si poteva agire prima? La risposta non è scontata, ma gli strumenti a disposizione c'erano.

Wuhan, dove tutto è partito

Era il 10 gennaio quando l'equipe del professor Yong-Zhen Zhang, del Shanghai Public Health Clinical Center, annunciava di aver sequenziato il genoma di un nuovo virus, che stava provocando una serie di strane polmoniti nella città di Wuhan, in Cina. Si seppe subito, dunque, che eravamo di fronte a un  coronavirus che condivideva circa il 70% del genoma con la SARS. Nel Paese i casi erano emersi ufficialmente a fine dicembre, dopo che le autorità avevano taciuto il problema e arrestato il medico oftalmologo Li Wenliang, il primo a lanciare l'allarme tra i suoi colleghi.

Il 23 gennaio la provincia di Hubei e i suoi 56 milioni di abitanti venivano chiusi in quarantena. Da una quarantina di pazienti ricoverati, si era già saliti a 654 malati confermati e i morti sfioravano le centinaia. Il virus di diffondeva in fretta, era più che evidente.

Perché a Wuhan il tasso di letalità era più alto rispetto al resto della Cina?

A mano a mano a che le settimane passavano, un dato sollevava diversi dubbi tra gli esperti: come mai il tasso di letalità di Wuhan superava il 3%, mentre nel resto della Cina rimaneva sotto l'1%? Cosa c'era di diverso in quella città? L'ipotesi più accreditata era che gli ospedali, anche quelli costruiti a tempo record, erano saturi e non riuscivano a occuparsi dell'incredibile numero di pazienti che ogni giorno accedeva alle strutture. Molti morivano a casa, tanto che su Ohga ci eravamo chiesti se lo stesso scenario non si sarebbe potuto verificare in Italia.

"È diverso gestire tre persone e avere a che fare con oltre 60mila pazienti – ci confermò il professor Andrea Gori, direttore dell'unita operativa complessa di Malattie Infettive del Policlinico di Milano – difficilmente si potrà garantire un'assistenza meticolosa e impeccabile a tutti. Un secondo fattore, invece, è che in quell'area il virus si è diffuso in maniera molto rapida fin dall'inizio ed è possibile che sia arrivato a toccare le fasce più deboli della popolazione".

Quanto sono vicine Italia e Cina

Nel 2019 abbiamo avuto scambi commerciali con la Cina per un valore complessivo di quasi 45 miliardi di euro. Nel 2018, 5 milioni di turisti cinesi hanno visitato le nostre città d'arte e ogni anno 200mila italiani viaggiano nella Repubblica popolare. Un volo Milano-Shanghai dura 12 ore e si riesce a spendere anche meno di 500 euro. Non si può più parlare di lontano Oriente.

Il Covid-19 è molto contagioso: si diffonde per via aerea, la più rapida. In quei giorni ha camminato sulle gambe di chi si spostava, per lavoro o per piacere. Come la collega del 33enne di Monaco di Baviera, quello che secondo alcune ricostruzioni potrebbe essere il paziente zero d'Europa. Lei veniva da Shanghai e il 21 gennaio, senza mostrare sintomi, ha trasmesso l'infezione all'uomo che, tre giorni dopo, accusava già problemi respiratori.

"Con i se e con i ma non si fa la storia, ma viviamo in un mondo globalizzato ed è difficile arginare i virus, che non conoscono confini". I nostri dubbi vengono confermati dal dottor Mirko Tassinari, medico di famiglia a Bergamo e segretario FIMMG (Federazione italiana medici di Medicina Generale) per il suo territorio.

Si poteva prevedere?

Non si poteva prevedere che durante i primi mesi del 2020 il SARS-Cov-2 avrebbe provocato una pandemia da migliaia di morti. Però si sapeva che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa di molto simile.

A febbraio 2018, l'Organizzazione mondiale della sanità pubblicava l'Annual review of diseases prioritized under the Research and Development Blueprint in cui illustrava le principali sfide che l'umanità si sarebbe trovata ad affrontare a partire dall'anno successivo. Tra queste, spiccavano le malattie infettive. Una in particolare avrebbe dovuto attirare l'attenzione: la "malattia x". Secondo gli autori del report, sarebbe stato un virus nuovo, nato da un animale e che avrebbe effettuato il salto di specie in un luogo in cui le condizioni economiche e sociali avrebbero favorito il contatto ristretto tra esseri umani e bestie selvatiche. Come i wet market da cui è arrivato il Covid-19, ad esempio.

Non solo, ma in un articolo pubblicato sul New York Times, Peter Daszak, che faceva parte proprio di quella commissione, spiegava come la patologia sarebbe stata inizialmente confusa con altre e avrebbe potuto così diffondersi in modo silenzioso, sfruttando la rete dei viaggi e del commercio. Contagioso al pari dell'influenza, ma con una letalità superiore, avrebbe creato forti pressioni sui sistemi sanitari e su quelli economici.

Ma l'Oms non era l'unica a temere uno scenario di questo tipo. Già nel 2012, il Robert Koch-Institute, l'organizzazione responsabile per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive in Germania, spiegava in un documento come un nuovo virus sarebbe potuto emergere da un animale selvatico esposto in un mercato del sud-est asiatico e come si sarebbe diffuso facilmente tra la popolazione, facilitato dagli spostamenti di lavoro o di studio e dall'assenza di cure e vaccini. Al TED2015 Bill Gates raccontava al pubblico come "Oggi il più grande rischio di catastrofe globale non è più la bomba atomica. È più simile a questo, invece" e indicava con la mano l'immagine di un virus che appariva dietro di lui. E infine il John Hopkins health security center, che lo scorso novembre simulò cosa sarebbe accaduto se un nuovo coronavirus si fosse diffuso negli Stati Uniti e trovò la nazione in forte gap di preparazione.

Di documenti e report come questi ne esistono a decine. Preveggenza? Complotto? No, semplice calcolo delle probabilità. Sai che le premesse perché questo accada ci sono tutte, ma non puoi conoscere la data precisa in cui la bomba esploderà.

Lo strano caso delle polmoniti

Tra la fine di dicembre e l'inizio di gennaio in Italia si è registrato uno strano aumento delle polmoniti da influenza, tanto che all'ospedale San Carlo di Milano era stata istituita un'area apposita da dedicare ai pazienti con questi sintomi. Un fenomeno che hanno conosciuto città come Bergamo, Brescia, Piacenza e, appunto, il capoluogo lombardo. Proprio i centri più colpiti dal Covid-19. La domanda è legittima: il virus era già qui?

Non è così facile rispondere. L'Azienda Usl di Piacenza ha fatto partire un'indagine, revisionando le carelle cliniche di 215 pazienti che in quei giorni si presentarono al pronto soccorso e ha concluso che: "nessuno dei casi di polmonite di dicembre e gennaio possa essere riconducibile a Covid19".

Eppure diversi medici di famiglia di quelle zone hanno ricordato come, da dopo le feste di Natale, i loro assistiti abbiano riportato polmoniti che sembravano durare più della norma. "Anche io ho notato qualche caso strano e una di queste persone si è poi rivelata affetta da Covid-19 – ricorda il dottor Angelo Rossi, segretario FIMMG Brescia e medico di famiglia nel comune di Leno. – È probabile che circolasse già sottotraccia e poi abbia iniziato a crescere in modo esponenziale. Inoltre bisogna tenere conto dei 14 giorni che possono trascorrere prima che una persona presenti i sintomi. Ciascun medico avrà notato 2 o 3 polmoniti in più, ma non abbastanza per pensare a un'emergenza. Di sicuro, l'epidemia è esplosa a febbraio".

Anche il dottor Tassinari è cauto: "Qualche collega mi ha riferito di aver notato queste situazioni, tra i miei pazienti invece non è accaduto. È difficile capire se potessero essere riconducibili al SARS-Cov-2 perché le polmoniti possono verificarsi a ondate anche in diversi periodi dell'anno, persino in estate. Come lo scorso agosto, quando all'origine c'era lo stafilococco".

Come ci ha trovati il Covid-19

Il nuovo Coronavirus è stato un urgano. Lo abbiamo scovato il 21 febbraio e ai primi di marzo le terapie intensive della Lombardia erano già al limite e il personale sanitario sottoposto a turni massacranti. Ma a queste conseguenze così drammatiche avevamo spianato la strada durante gli anni predenti.

"Il Ministero dell'economia e delle finanze ha fatto un eccellente lavoro per mettere a posto i conti della sanità – commenta con tono ironico Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, che monitora la pandemia in Italiagrazie anche alla silenziosa complicità del Ministero della Salute che non ha mai alzato la voce. La nostra analisi dimostra che nel periodo 2010-2019 sono stati sottratti alla sanità pubblica 37 miliardi di euro: a fronte di questo ‘saccheggio', scaricato prevalentemente sul capitale umano, si è preteso di garantire un ‘paniere' di prestazioni sanitarie talmente ampio che dopo più di 3 anni i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sono ancora al palo per mancata approvazione del ‘decreto tariffe' sulle prestazioni ambulatoriali e di protesica".

In 10 anni abbiamo perso 70mila posti letto, il 30% del totale. Oltre a questo mancano 8mila medici e 36mila infermieri negli ospedali, mentre entro il 2022 saranno vacanti anche 10mila posti negli ambulatori di Medicina Generale. Siamo andati in guerra con un esercito già fortemente provato.

E frammentato. Il nostro sistema sanitario è nazionale solo di nome: ogni regione amministra il proprio e ogni territorio si fa carico delle sue decisioni. Secondo un'analisi pubblicata sull'Harvard Business Review, questa è stata una delle ragioni per cui il nostro Paese è stato così duramente colpito.

"Aumentano le diseguaglianze – conferma Cartabellotta – in particolare la forbice tra Nord e Sud come documentano i flussi della mobilità sanitaria, e i rapporti Governo-Regioni ulteriormente destabilizzati dalle istanze di regionalismo differenziato sono ben lontani da quella ‘leale collaborazione' a cui è affidata la tutela della nostra salute".

Così, il Veneto ha scelto di effettuare tamponi a tappeto ed è riuscito a contenere la diffusione del contagio, nonostante ospitasse il secondo focolaio d'Italia. La Lombardia invece ha testato solo chi veniva ricoverato in ospedale e ha preferito valorizzare i centri d'eccellenza, invece che l'assistenza sul territorio.

In 10 anni sono stati tagliati 37 miliardi alla sanità

"Noi siamo abituati a trattare i malati cronici, non a intervenire in caso di emergenza – ha spiegato Angelo Rossi. – La Regione ha strutturato il sistema mettendo al centro l'ospedale, ma se non si potenzia il territorio, le strutture hanno dei limiti. Non potendo gestire i pazienti a domicilio, infatti, abbiamo dovuto ricoverare tutti e così nel giro di pochi giorni i reparti si sono riempiti".

Come lo abbiamo aspettato

Il nostro Paese, va detto, non è rimasto a guardare. Il 25 gennaio erano pienamente attivi i controlli ai passeggeri che atterravano nei più importanti aeroporti italiani, quelli che avevano anche collegamenti con la Cina. Il 31 gennaio, invece, dopo il ritrovamento a Roma della coppia di Wuhan positiva al Coronavirus e in linea con quanto deciso dall'Oms il giorno prima, il governo ha dichiarato lo stato d'emergenza sanitaria che terminerà solo a fine luglio. In questa occasione, arrivavano la nomina di Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, a commissario straordinario per l'emergenza e lo stanziamento di 5 milioni di euro per coprire i costi delle misure di prevenzione e intervento. Non finisce qui, si decise anche di interrompere tutti i collegamenti diretti con la Cina, in controtendenza rispetto al resto d'Europa. Ci siamo sentiti tutti più protetti, eppure c'erano dei "ma".

I controlli con il termoscanner

Ai passeggeri che arrivavano in Italia veniva misurata la temperatura con un termoscanner, uno strumento simile a una pistola che registra il dato a distanza. Si voleva insomma capire se avessero la febbre o meno: quello era uno dei primi sintomi del Covid-19. Uno dei, però.

"Non è un parametro affidabile – chiarisce Tassinari. – Molti pazienti hanno una temperatura normale o appena accentuata nonostante l'infezione sia severa e presentino la polmonite. Inoltre, era già documentata la trasmissione da persone asintomatiche".

La sospensione dei voli

Evitare che vi fossero collegamenti diretti tra l'Italia e la Cina era apparsa una buona idea. Almeno, all'inizio. Fino a quando non è emerso come la tratta potesse continuare a esistere attraverso i voli indiretti e i vari scali, in cui i passeggeri non venivano controllati. Quante persone sono entrate nel nostro Paese in questo modo?

I primi giorni dell'emergenza

Per diverso tempo lo abbiamo considerato il "paziente uno". Mattia, 38 anni, era stato trovato positivo al Coronavirus solo grazie a un'anestesista di Codogno, la dottoressa Annalisa Malara, che era venuta meno al protocollo. Sì, perché le linee guida prescrivevano un tampone solo a chi avesse avuto contatti con la Cina o con un caso sospetto. Ma l'uomo non si ricordava di averne avuti. Eppure la sua polmonite non rispondeva alla cure e in poche ore aveva mostrato un brusco peggioramento. Così la dottoressa aveva insistito e solo allora la moglie si era ricordata della cena con un amico che aveva soggiornato nel Paese asiatico. Amico che poi risulterà non aver mai contratto il Covid-19.

Insomma, i protocolli non tenevano conto di un mondo sempre più interconnesso, dove ci si sposta velocemente. Lo stesso errore sarà contenuto nelle misure adottate in seguito.

Le zone rosse

Domenica 23 febbraio entrarono ufficialmente in vigore le due zone rosse, a Vo' Euganeo e nel lodigiano. Nessuno poteva più entrare o uscire da queste aree e ogni attività non essenziale veniva sospesa. Ma ci sono diverse domande che ci siamo dimenticati di porci:

  • Come mai i due focolai erano stati scoperti allo stesso tempo, pur non essendoci un collegamento diretto? Una coincidenza o il segnale che l'epidemia era già più diffusa?
  • Dove lavoravano le persone residenti in questi comuni? Chi abita nel lodigiano, ad esempio, fa spesso il pendolare verso le città più vicine, come Piacenza e Milano.
  • Come è possibile che il primo positivo sia emerso in un paese che la maggior parte delle persone non aveva mai sentito nominare invece che in una grande città, che ha rapporti frequenti con la Cina? Non sarà stato un semplice caso, mentre il focolaio era da un'altra parte?

Come suggeriscono gli esperti sull'Harvard Business Review: "Il momento migliore per agire contro un’epidemia è ai suoi primissimi inizi, quando la minaccia appare ancora piccola, o prima che si verifichi un solo caso. Ma se un intervento di questo tipo funziona davvero, in retrospettiva apparirà come se le azioni molto forti assunte fossero esagerate. E questo è un gioco dal quale molti politici preferiscono tenersi alla larga".

Il caso della Val Seriana

La Val Seriana si snoda per una cinquantina di chilometri lungo il percorso del fiume Serio. È un'area industriale e molto produttiva della provincia di Bergamo e i legami con la città sono stretti. Tra i 38 comuni che ne fanno parte, tu conoscerai soprattutto Alzano Lombardo e Nembro. È qui che il 23 febbraio si registrano i primi casi di Covid-19.

Quando all'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo arrivano i due responsi positivi, scatta l'allarme. Viene decisa l'immediata chiusura del pronto soccorso e l'isolamento di tutta la struttura. Poche ore dopo, però, i pazienti sono trasferiti a Bergamo e nel comune si riapre tutto. Nel mezzo, non è avvenuta nessuna vera sanificazione. "L’abbiamo fatta passando asciugamani e stracci", raccontano due infermieri al Corriere della Sera.

Questi e altri errori porteranno gli ospedali della zona a trasformarsi in veri e propri incubatori del contagio. Personale sanitario e pazienti contrarranno il SARS-Cov-2 proprio qui.

"La  mancanza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari – denuncia Cartabellotta, – conseguente anche al timore di indebolire gli organici si è trasformata in un boomerang letale: nel nostro Paese, al 6 aprile sono 12.681 i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus, ovvero il 9,6% dei casi totali in Italia. Un numero enorme, una percentuale quasi tripla rispetto allo studio di JAMA pubblicato sulla coorte cinese (3,8%). È evidente che le attuali raccomandazioni per la protezione degli operatori in prima linea a combattere l’emergenza risultano fortemente inadeguate. La situazione è molto allarmante per due ragioni: da un lato se si ammalano medici, infermieri e altri professionisti e operatori sanitari in prima linea, sia in ospedale che sul territorio, in questa emergenza il servizio sanitario non può assicurare l’assistenza alla popolazione. Dall’altro professionisti sanitari contagiati rischiano di veicolare l’infezione ai pazienti, in particolare a pazienti fragili e affetti da comorbidità, che sono il bersaglio prediletto per le complicanze della COVID-19, peggiorando il quadro clinico e aumentando la mortalità".

Oggi nella provincia di Bergamo i contagi totali sono più di 10mila e i morti sono oltre i 2mila. Ma questi sono solo i numeri ufficiali. Secondo un'indagine svolta dall'Eco di Bergamo i decessi sarebbero più del doppio, mentre i medici di famiglia insistono che per ogni caso conclamato ce ne sono fino a 10 sommersi.

Ma il 23 febbraio, a differenza di quanto accade nel lodigiano, qui nulla si ferma. Mentre la situazione precipitava, Regione e Governo si rimpallavano la responsabilità della decisione di istituire una terza zona rossa. Si arriva così all'8 marzo, quando l'intera Lombardia assieme ad altre 14 province limitrofe viene dichiarata zona arancione. Più tardi, il 7 aprile, l'assessore al Welfare Giulio Gallera dovrà ammettere: "Avremmo potuto farla noi? Ho approfondito e effettivamente c'è una legge che lo consente". Nello specifico, si riferisce al provvedimento 833 del 1978 e non è un decreto volante, ma l'atto con cui viene istituito il servizio sanitario nazionale.

Quali armi avevamo a disposizione

Una pandemia prima o poi arriva e l'Organizzazione mondiale della sanità lo sapeva. Proprio su raccomandazione di questa, nel 2003 l'Italia adotta un "Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale". Quell'anno probabilmente te lo ricorderai, dal momento che si rischiò per due volte un'emergenza sanitaria globale, prima con la SARS e poi con l'aviaria. E infatti il documento sottolinea che: "è diventato più concreto e persistente il rischio di una pandemia influenzale". Ci eravamo accorti che questo stretto rapporto tra uomini e animali in assenza di adeguate condizioni igieniche e di sicurezza avrebbe prima o poi provocato dei danni di proporzioni mondiali.

"Il Piano, adeguatamente e tempestivamente aggiornato, avrebbe potuto guidare la gestione dell’emergenza coronavirus", conferma Cartabellotta. Sì, perché anche se il SARS-Cov-2 non è un'influenza, la via di trasmissione è la stessa e la capacità di contagiare un elevato numero di persone in breve tempo ne è la prova. Ma cosa prevedeva questo documento?

Prima di tutto divideva il fenomeno pandemico in sei fasi, dove la prima era l'esistenza di un virus in un animale, che avrebbe potuto mutare e infettare l'essere umano. Questa è la condizione in cui ci troviamo ogni giorno: ci sono milioni di patogeni che potrebbero effettuare il salto di specie da un momento all'altro. La seconda invece descrive la presa d'atto che un virus sta davvero circolando tra gli animali e potrebbe arrivare all'uomo. Lo sappiamo almeno dal 2003 che i pipistrelli sono serbatoi naturali di infezioni molto pericolose per noi. Stando al documento, in questo frangente avremmo dovuto assicurare "l'approvvigionamento dei DPI per il personale sanitario; il controllo del funzionamento dei sistemi di sanificazione e disinfezione; l'individuazione di appropriati percorsi per i malati o sospetti tali". Inutile dire che non è stato fatto.

Potevamo agire anche senza aspettare la dichiarazione ufficiale di pandemia

Eppure potevamo agire, anche senza aspettare una dichiarazione di pandemia da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità che comunque il 30 gennaio aveva già decretato l'emergenza sanitaria globale.

"La dichiarazione di pandemia è solo un fatto formale che prende atto della diffusione del virus in tutte le aree del mondo – conferma il Presidente della Fondazione GIMBE. – Il Piano poteva essere ripreso e aggiornato non appena dichiarato lo stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio, ben prima che l’Oms dichiarasse lo stato di pandemia. L’andamento dell’epidemia in Cina lasciava pochi dubbi in proposito: il virus è estremamente contagioso e non conosce confini. Ma tutti i Paesi del mondo sono stati inspiegabilmente ‘alla finestra' a guardare lo stesso film nei vari punti del pianeta, che si è replicato identico ovunque con un semplice ritardo di giorni o settimane"

La Lombardia e quegli interventi mai attuati

Anche la Regione Lombardia si era attrezzata con un piano per la pandemia. Era accaduto nel 2009, quando si temeva che l'influenza suina, rivelatasi per fortuna meno pericolosa di come era apparsa in partenza, potesse rivelarsi proprio quel virus che tutti temevano. L'anno successivo, con una delibera regionale del 22 dicembre 2010, veniva stilata una tabella per verificare quali buoni propositi si fossero trasformati in atti concreti. E il verdetto è poco incoraggiante: quasi nessuno.

Mancano all'appello tutte quelle azioni chiave che avrebbero potuto evitare la situazione drammatica che stiamo ancora vivendo. Prima di tutto la definizione delle modalità per incrementare l'ADI, l'Assistenza domiciliare integrata. In altre parole, tutti quegli aiuti che possono arrivare al malato per far sì che rimanga a casa il più tempo possibile, fino a quando il ricovero in ospedale non diventa inevitabile. E si torna al potenziamento del territorio di cui si parlava prima. È la tabella a rivelarlo: "Assenza di azioni specifiche", si legge.

E questo ritornello si ripete anche per le scorte di dispositivi di protezione personale che ogni Asl avrebbe dovuto avere e per il potenziamento dell'assistenza medica e infermieristica nelle RSA, le quali, come ben saprai, sono state del tutto dimenticate.

Non è stato nemmeno stipulato un accordo con i media per avere un unico canale di informazione diretto e ufficiale, proprio quello che è mancato all'inizio dell'emergenza.

Prendersi cura di chi ci cura

Sempre nella stessa delibera ci si rende conto anche della necessità di "definire accordi con Medici di Medicina Generale per l'ampliamento dell'assistenza nella fase 6". Si riferisce alla pandemia conclamata, ma di nuovo non serve che qualcuno la dichiari ufficialmente. È sufficiente basarsi sul Piano nazionale del 2003, dove al livello 1 si legge: "presenza di casi nella Nazione o presenza di intensi collegamenti o scambi commerciali con Paesi dove la pandemia è in atto". È stato mosso qualche passo? No. "Non sono stati siglati accordi, nemmeno a livello nazionale", è scritto nero su bianco.

Al 16 aprile, tra tutti i positivi registrati ufficialmente nel nostro Paese, quasi l'11% è personale sanitario. Dall'inizio dell'emergenza, sono morti 128 medici. Circa la metà di loro era un medico di famiglia. "Nella provincia di Bergamo, su 600/700 contagiati, più di 140 erano colleghi. In cinque sono morti. In quella bara potevo esserci io", racconta il dottor Tassinari.

A pensarci adesso, sembra incredibile. Il primo punto di riferimento di un paziente, la persona che chiunque di noi chiama non appena ha qualche linea di febbre non è stata tutelata. Per nulla. Mascherine e qualsiasi strumento di protezione non sono pervenuti e così i dottori hanno contratto il Covid-19 e si sono trasformati, loro malgrado, in veicolo di contagio per altri assistiti.

"Veniamo considerati liberi professionisti convenzionati  – chiarisce il dottor Rossi, – perciò l'equivoco è che dovremmo procurarceli da soli. E noi abbiamo provato ad attrezzarci, chi dal ferramenta, chi attraverso internet. Ma anche l'online ritardava le consegne e spesso le mascherine venivano fermate alla frontiera. Siamo nel mezzo di una guerra, non può bastare la volontà del singolo. Inoltre molte fabbriche che le producono sono dislocate in Cina, che per diverse settimane è rimasta ferma. Per questo motivo, mancano anche in Francia, in Germania e nel resto del mondo".

La FIMMG porta avanti questa battaglia da molto prima che si sentisse parlare di nuovo Coronavirus. "Io di solito faccio questo esempio – spiega Tassinari – così come gli ospedali hanno scorte di farmaci in modo da averne a disposizione in caso di bisogno, così noi dovremmo avere riserve di DPI, nell'eventualità che scoppi un'epidemia. Invece ci siamo messi tutti a cercarli in quel momento ed è stata una gara a chi arrivava prima, una guerra tra poveri. Non si è capito che noi siamo la prima linea".

Potevamo agire prima?

La domanda, alla fine, resta sempre quella: potevamo fare qualcosa per prevenire tutto questo?

"Di sicuro questo virus è stato ampiamente sottovalutato – ammette Angelo Rossi. – Anche virologi di chiara fama sostenevano che fosse poco più di un'influenza. E poi gli esponenti della politica, sia in Italia che negli altri Stati. Basti pensare al premier britannico Boris Johnson, che poi si è ammalato. Non realizziamo mai che possa toccare a noi".

Certo, servivano risorse, sia organizzative che economiche. E forse ogni volta si presentava una qualche emergenza più urgente alla quale destinare i fondi. Però è un dato di fatto che abbiamo scelto di ignorare tutte le avvisaglie che ci sono arrivate. Persino quando la Cina ha messo in quarantena 56 milioni di persone, accettando di rinunciare a due punti di Pil, abbiamo continuato a sentirci al sicuro. Ci siamo ricordati della SARS, che non era mai arrivata in Italia, e abbiamo dormito sonni tranquilli. Non ci siamo invece accorti di quanto fosse ben più contagioso questo nuovo virus e del pericolo che si nascondeva dietro gli infetti asintomatici. Ma soprattutto non abbiamo considerato quanto fosse vicino a noi l'Estremo Oriente.

Fonti| Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale; Delibera della Regione Lombardia del 22 dicembre 2010

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.