La rivoluzione del bypass aortocoronarico, il dottor Speziale: “Con l’arteria radiale i pazienti vivranno di più e meglio”

Uno studio internazionale e multicentrico ha confermato 10 anni di osservazioni cliniche: accanto all’arteria mammaria, che resta il punto di riferimento della cardiochirurgia, la nuova frontiera è l’arteria radiale. Bypass realizzati con questi condotti durano più a lungo e garantiscono ai pazienti una qualità di vita migliore rispetto a quelli costruiti con la vena grande safena.
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Kevin Ben Alì Zinati 14 Settembre 2020
* ultima modifica il 23/09/2020
Intervista al Dott. Giuseppe Speziale Responsabile delle Cardiochirurgie di GVM Care & Research

Anche in cardiochirurgia le rivoluzioni passano dai dettagli. Quelli piccoli ma decisivi, che una volta portati alla luce possono rinfrescare anni di prassi e routine e allo stesso tempo migliorare ancora di più la qualità di vita dei pazienti. La rivoluzione oggi coinvolge il bypass aortocoronarico, una delle più frequenti operazioni cardiochirurgiche con cui, creando di fatto nuove “strade”, viene ripristinata la normale circolazione del sangue verso il cuore quando le arterie coronarie sono bloccate da occlusioni o restringimenti. E il motore che alimenta il cambiamento è il potenziale rinnovamento nella tecnica con cui il bypass viene seguito poiché i chirurghi, ora,  potranno utilizzare l’arteria radiale al posto della vena grande safena. In ogni rivoluzione serve qualcuno che faccia da alfiere, illustrando i punti cardine del movimento, così abbiamo parlato con il dottor Giuseppe Speziale, responsabile delle Cardiochirurgie di GVM Care & Research. Insieme al dott. Giuseppe Nasso, responsabile dell’unità operativa di Cardiochirurgia dell’Anthea Hospital di Bari, hanno condotto uno studio internazionale multicentrico poi pubblicato sulla rivista Jama, i cui risultati hanno trasformato 10 anni di osservazioni cliniche in una pietra miliare nella tecnica del bypass aortocoronarico. Così ce lo siamo fatti raccontare.

Dottor Speziale, prima di arrivare al vostro studio serve dipingere il contesto, quindi ci spieghi: che cos’è un bypass aortocoronarico? 

Alcune malattie del cuore derivano all’ostruzione delle arterie coronarie, quelle che riforniscono il muscolo cardiaco di sangue ossigenato. Anche le arterie del cuore possono dunque ammalarsi e questo dipende dalla formazione di placche, che ostruiscono il passaggio del sangue. Il chirurgo interviene lì dove c’è un restringimento ma non lo tocca: applica invece quello che potremmo immaginare come “un tubo aggiuntivo”. Come in un acquedotto quando una condotta è ostruita, anziché disostruirla si devia il flusso aprendo un’altra via.

A quali rischi potrebbe andare incontro un paziente che dovesse presentare un’ostruzione coronarica? 

A volte le coronarie possono chiudersi così tanto da provocare danni gravi fino all’infarto o anche al decesso. Prima di arrivare all’infarto tuttavia c’è un periodo in cui il muscolo cardiaco riesce a sopravvivere anche con poco sangue, ecco perché è fondamentale il fattore tempo. Appena un paziente dovesse avere un dolore toracico, che è tipico di questa occlusione, deve presentarsi in pronto soccorso in modo da intervenire il prima possibile.

In che modo? 

I due approcci sono l’angioplatisca, ovvero la dilatazione di un restringimento coronarico, e appunto il bypass. Questa malattia, però, ha due esordi differenti. Può essere improvvisa, quindi la coronaria si ostruisce e il sangue non arriva più al cuore e il paziente sente un forte dolore toracico: in casi acuti l’intervento più indicato è l’angioplastica. Altre volte però le malattie sono latenti e il dolore quindi potrebbe arrivare solo sotto sforzo. Siccome in questi casi è possibile che l’ostruzione con il tempo si sia allargata anche ad altre parti della coronaria rendendo quindi rischiosa l’angioplastica, il bypass è più consigliabile.

Il dottor Giuseppe Speziale, responsabile delle Cardiochirurgie di GVM Care & Research

Qui si inserisce il vostro studio. Perché in un intervento di bypass è determinante anche la composizione, la “qualità” dei tubicini che vengono impiegati per ripristinare il flusso di sangue. 

Uno dei capisaldi della cardiochirurgia è l’utilizzo dell’arteria mammaria per eseguire i bypass, grazie alla eccezionale pervietà a distanza e alla quasi totale assenza di aterosclerosi nell’uomo. Chi viene sottoposto a questo intervento, però, a volte necessita di due o tre bypass perché l’ostruzione può coinvolgere più punti della coronaria. Se è solo uno, che comunque è molto raro, si utilizza l’arteria mammaria, quando invece ne sorgono di più vengono utilizzati altri “materiali”, tra cui l’arteria radiale o la vena grande safena. La differenza è che le arterie sono condotti vivi, hanno una consistenza e una conformazione tali che rendono più duraturo il lavoro del chirurgo e il bypass ha la speranza di sopravvivere più a lungo nel tempo. Nel nostro studio ci siamo dunque chiesti se la vena può essere un condotto giusto per il bypass.

E lo è? 

Abbiamo dimostrato che bypass realizzati con l’arteria radiale hanno una durata migliore rispetto a quelli costruiti con la safena. Lo avevamo già descritto in un articolo di cinque anni fa ma oggi, a dieci anni di distanza, abbiamo confermato questo risultato.

Il dottor Speziale durante un intervento di cardiochirurgia

Un bypass con l’arteria radiale quindi può allungare la vita. 

Il messaggio del nostro studio è proprio questo: se il chirurgo realizza dei bypass con l’arteria mammaria e quella radiale il paziente vivrà di più rispetto a interventi realizzati con la mammaria e la safena. E soprattutto vivrà meglio. Nel caso di un infarto la qualità della vita si abbassa, potrebbe sviluppare problemi respiratori o nel pompaggio del sangue da parte del cuore. Così invece morti e incidenti cardiovascolari si ridurrebbero drasticamente. Il bypass con l’arteria radiale permettere di vivere di più e meglio.

Dottor Speziale, quando entreremo nel futuro della cardiochirurgia?

Non possiamo obbligare i centri a modificare la prassi o la politica e la pratica giornaliera. Certo è che la divulgazione farà più informazione sui medici e chirurghi. Il training per un chirurgo non è così impegnativo, credo sia più una questione di consuetudine. Noi ci auguriamo che questi studi possano avere presa sia nella popolazione dei cardiologi e anche nell’utente finale, che oggi è sempre più informato. Sono convinto che questa sinergia potrà far sì che il cambiamento avvenga.

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