La solitudine dell’aborto spontaneo, un lutto di cui non si parla. Mai.

Non ci vogliamo pensare, non lo menzioniamo nemmeno, eppure colpisce molte più donne di quanto immaginiamo. Tutte loro si sono sentite rispondere “sono cose che capitano, fai subito un altro bambino”. Così non hanno potuto dar voce al proprio dolore o prendersi il loro tempo per elaborare il lutto. Abbiamo voluto dare spazio ad alcune delle loro storie, per rompere un silenzio che non fa bene a nessuno.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Giulia Dallagiovanna 8 Luglio 2021
* ultima modifica il 12/07/2021
Con la collaborazione della dottoressa Sara Baggetta, psicologa dello sviluppo e dell'educazione esperta in Psicologia Perinatale e Consulente per la famiglia, e del dottor Riccardo Corizza, ginecologo esperto di Medicina della Riproduzione.

Ti senti madre, ma per il resto della società non lo sei. Questo è l'aborto spontaneo. Un lutto che, secondo tre studi molto recenti pubblicati su The Lancet, colpisce circa l'11% della popolazione femminile. A livello mondiale, se ne registrano 23 milioni ogni anno: 44 al minuto. Ma è probabile che i numeri siano più alti. Non sono poche le donne che gestiscono tutto a casa propria e non rientrano nei tracciamenti ufficiali.

Percentuali elevate per episodi che, denunciano gli stessi autori, spesso vengono "minimizzati e liquidati in poco tempo". Hai perso tuo figlio e ti senti devastata, ma per il mondo esterno è semplicemente accaduto "qualcosa che capita", nulla di che. "Fanne subito un altro e non ci pensi più", ti sentirai ripetere. Così possiamo evitare di parlarne, possiamo dimenticarcelo. Tutti.

"È un tabù che ho avvertito in modo molto forte quando è capitato a me. È stato terribile non essere compresa nemmeno da mio marito o da altre persone che avevo accanto. Forse questo tipo di esperienza viene elaborata in modo diverso da un uomo e da una donna. Io ho scelto di chiedere aiuto a una psicoterapeuta, una fortuna aver preso questa decisione". Marzia Costantino insegna in una scuola elementare in provincia di Catania, alle pendici dell'Etna. Nel 2014 si è dovuta scontrare con un primo aborto spontaneo e l'anno successivo ha dovuto affrontare di nuovo questo dolore. Rientra, cioè, in quel 2-3% di donne a cui la gravidanza si interrompe due volte consecutive. Un 1% arriva a superare le tre.

Assieme a Chiara Napoletani, Marzia è amministratrice del gruppo Facebook "Aborto Spontaneo Italia", fondato allo scopo di creare uno spazio di condivisione e ascolto. Due cose che spesso al di fuori di lì non si trovano.

Parlarne: un bisogno che resta nascosto

"Non so se sia successo solo a me, ma in quel periodo ricordo che alcune mattine mi svegliavo e pensavo di essere ancora incinta". Giorgia Marini è un'editor pugliese trapiantata a Milano. Nel 2015, quando era incinta di Allegra, la sua prima figlia, ha aperto il blog Stato di grazia a chi? in cui tuttora racconta in modo ironico le vicissitudini di una madre alle prese con due bambine piccole. A fine maggio scorso, però, è apparso un post diverso dagli altri: "Aborto. Quella parola che non vorresti mai sentire". E accade qualcosa di singolare: non riscuote un numero elevato di commenti o like, ma in tanti, tantissimi, lo leggono. Le persone hanno bisogno di parlarne, ma senza esporsi troppo.

La storia è la sua. All'inizio dell'estate del 2016, Giorgia scopre di aspettare il secondo figlio ed è tranquilla. Con una bambina di meno di un anno a cui badare, non ha nemmeno il tempo di pensare a tutti i rischi dei primi mesi di gravidanza. Sta per partire per il mare e ha già fissato un appuntamento con una ginecologa che non conosce, ma che opera proprio nella località della sua vacanza. "L'ho cercata su Internet e ho visto che aveva tante recensioni positive. Sono andata a quella visita serena, senza ansie. Nei giorni prima avevo avvertito qualche dolore notturno, ma potevano essere proprio i sintomi della gravidanza". E invece, alla prima ecografia, risulta un piccolo distacco del trofoblasto (la placenta che si forma nelle prime settimane), bisogna stare a riposo. Ci si rivede tra qualche giorno, per il controllo del battito.

Al controllo successivo, la situazione non è migliorata. "Mi sono chiesta se fossi stata sdraiata abbastanza. Forse non avrei dovuto fare quelle passeggiate in riva al mare, mi dicevo. Col senno di poi la mente viaggia. Avevo 39 anni e la dottoressa non ha perso l'occasione di farmelo notare. Come se da sola non l'avessi saputo. Mi ha raccomandato più volte di fare la villocentesi e alla fine ho iniziato a irritarmi".

Giorgia torna a Milano e in ospedale le confermano che il feto era morto. Si sente fortunata perché la mattina successiva ha già fissato l'appuntamento per il cosiddetto raschiamento. "Quando l'aborto è molto precoce, viene assimilato a una mestruazione – ci spiega il dottor Riccardo Corizza, ginecologo esperto di Medicina della Riproduzione, che da anni si occupa di infertilità, problemi riproduttivi e aborti ripetuti. – Se invece è più tardivo e si sono già verificate perdite di sangue importanti si ricorre a una terapia medica o, più spesso, chirurgica per espellere l'embrione. Può avvenire anche attraverso sostanze che provocano contrazioni uterine ma, a differenza di quanto accade con la pillola RU486, sempre in ambiente ospedaliero".

Se la madre si sente in colpa

Il dottor Corizza collabora con l'associazione Strada per un sogno onlus, che opera in tutta Italia. Aiuta i genitori che non riescono ad avere figli a realizzare il proprio desiderio attraverso il percorso per loro più adatto, come la fecondazione assistita, l'adozione o l'affido. La presidente è Luisa Musto, che vive a Roma e ha sperimentato sulla sua pelle cosa significhi vedere tradita la lunga attesa per la nascita di un bambino.

Era il 2010 e Luisa scopre finalmente di essere incinta, dopo un lungo e complicato percorso di procreazione medicalmente assistita. Esistono diverse tipologie di Pma e variano in base alla gravità della situazione. Nel caso di inseminazione semplice, ad esempio, viene iniettato il seme direttamente in utero. Se si parla di fecondazione in vitro, invece, significa che deve essere indotta una crescita follicolare multipla attraverso un farmaco. I follicoli vengono stimolati a maturare il più possibile, dopodiché vengono prelevati gli ovuli con un piccolo intervento e messi a contatto con gli spermatozoi. Se si formano degli embrioni, questi vengono poi trasferiti nell'utero nella speranza che attecchiscano. In ultimo, se l'uomo ha problemi di ostruzione dei dotti deferenti, anche gli spermatozoi devono essere prelevati chirurgicamente.

"Sono rimasta incinta tramite Pma e la dottoressa mi ha fatto capire che insomma…quando si forza la natura…"

Dopo 8 settimane in cui la gravidanza di Luisa sembrava procedere al meglio, compare qualche perdita di sangue. Mentre il marito è al lavoro, viene accompagnata dai genitori al pronto soccorso più vicino, quello di un famoso e importante ospedale romano. "La mia esperienza in quella struttura è stata agghiacciante, al limite della violenza ostetrica. Sapevano che avevo fatto Pma e la dottoressa mi ha fatto capire che, insomma, quando si forza la natura…Non solo, ma anche a me è stata ripetuta la solita frase ‘capita, perché non prova di nuovo'".

Viene ricoverata nello stesso reparto delle partorienti, circondata da madri felici che stringono i loro bambini appena nati. "Sono rimasta dentro una notte, non lo auguro a nessuno. Avevo tantissime perdite e sentivo che la donna ricoverata nella stanza accanto si lamentava perché avevo riempito il bagno comune di assorbenti. Lei aveva un figlio, io non avevo nulla". Luisa chiede insistentemente che le venga fatto un controllo, ma arriva la risposta scocciata dell'infermiera: "Mica le possiamo fare un'ecografia ogni ora". Quando l'esame viene finalmente eseguito, ogni paura diventa ufficiale: non c'è più battito. "La signora ha interrotto", viene comunicato al ginecologo che, distratto dal proprio cellulare, si limita a commentare "Da questo momento in poi non dovrà né mangiare né bene, intanto può attendere fuori".

"Da quello che vedevo, si comportavano in questo modo solo con me, mentre con le ragazze che avevano partorito erano molto più sorridenti. Per loro probabilmente un aborto, per di più precoce, era ormai una routine. Chissà come si comportano con quelle che interrompono la gravidanza in modo volontario". Dal telefono arriva la risata amara di Luisa. Poi aggiunge: "Dopo tutto il percorso che avevo vissuto, mi sono sentita in colpa. Ero quella che non ce l'aveva fatta".

"Non è colpa della madre, è la natura che fa il suo corso, anche se può essere difficile da accettare – interviene il dottor Corizza. – Tre quarti degli aborti precoci sono dovuti ad alterazioni genetiche dell'embrione che lo rendono incompatibile con la vita".

Un luogo per un bimbo mai nato

Dopo averci riflettuto un'intera settimana, Elisa Bigi, pedagogista di Bologna, decide, assieme al marito, che vuole seppellire suo figlio. Esiste un decreto del Presidente della Repubblica che lo permette, il 258 del 1990, ed Elisa vuole esercitare il suo diritto. Anche se il ginecologo che le ha praticato il raschiamento le risponde che "le leggi si fanno e si interpretano" e aggiunge che "non ne vale la pena, è solo un grumo di cellule". È il 2011 e quel grumo di cellule in realtà ha già un nome, Francesco.

"Le nostre famiglie lo capirono e ci supportarono, probabilmente perché sapevano che ero incinta e che avevamo desiderato tanto questo bambino. Agli amici non lo avevamo ancora detto, invece, così decidemmo di parlargli di quello che ci era accaduto, per evitare di dover sempre far finta da nulla. Hanno reagito nei modi più disparati. C'è chi ci è stato molto vicino anche se magari fino a quel momento non eravamo così in confidenza, altri che invece hanno provato a sdrammatizzare con una battuta. Noi siamo cattolici praticanti e ci ha colpito molto il distacco di parte dell'ambito parrocchiale. Da quel contesto ci si aspetterebbe più accoglienza e comprensione e invece ci è arrivata più che altro freddezza".

Elisa riesce a seppellire Francesco, anche se l'ospedale non è molto collaborativo. In teoria, una volta transitato per il laboratorio dell'anatomo patologo, l'embrione dovrebbe essere conservato in formalina e destinato alla camera mortuaria. Invece, in un primo momento Elisa si vede consegnare il vasetto con dentro suo figlio, non potendo quindi procedere con la sepoltura. Deve arrivare a contattare direttamente la direzione sanitaria per vedere rispettate le sue scelte. Ma quell'esperienza le tornerà utile due anni dopo, quando dovrà affrontare l'ultimo saluto a Giorgio, il suo secondo figlio morto prima di nascere. "Negli anni, poi, diversi genitori mi hanno telefonato chiedendomi un aiuto, perché nello stesso ospedale gli rispondevano che non era possibile seppellire un embrione così giovane e che non era mai accaduto prima. Allora gli inviavo il mio certificato".

"Quello che viene vissuto è realmente un lutto, anche se di rado viene chiamato così"

Oggi Elisa e il marito Luigi hanno due figli, entrambi adottati. Come sostegno altre famiglie che hanno dovuto affrontare la loro esperienza, hanno ideato il progetto Bimbi mai nati (e la relativa pagina Facebook) per ristabilire la dignità di tutti quei bambini morti in grembo e per fornire informazioni a chi vuole seppellire il proprio figlio, spirato prima del tempo. "È una scelta molto personale, ma secondo me c'è un aspetto che spesso si sottovaluta: quello che è stato vissuto è realmente un lutto, anche se di rado viene chiamato così. Quando muore un parente lo vedi, magari hai seguito il decorso della sua malattia e poi lo saluti durante il funerale. Quando un bambino muore prima di nascere, soprattutto se era ancora un embrione, nessuno ha fatto in tempo ad accorgersi che fossi incinta. Quella è la trappola. Rimani lì, bloccata nel tuo dolore, mentre le persone ti dicono ‘cosa vuoi che sia, capita spesso, andrà meglio con il prossimo'. Una sensazione terrificante, che ti può schiacciare".

Quando si diventa madri?

Esiste un momento esatto in cui una donna diventa madre? Quando l'embrione diventa un feto? Quando partorisce? No. Se la gravidanza è desiderata, si è madri o padri dall'istante esatto in cui il test risulta positivo e si accoglie questa nuova vita. "Dentro di noi si innesca un processo che ci porta a immaginare la vita a tre o a quattro. Magari, poi, la donna ha già potuto sentire il battito o ha visto il bambino durante l'ecografia. Nasce già quel legame forte che si instaura tra madre e figlio. Il bambino deve essere contato all'interno della famiglia e nessun altro figlio andrà mai a prendere il suo posto", ci spiega la dottoressa Sara Baggetta, psicologa dello sviluppo e dell'educazione esperta in Psicologia Perinatale e Consulente per la famiglia.

E se il lutto c'è, bisogna concedersi il tempo per elaborarlo. Altrimenti il rischio è quello di soffocarlo, nasconderlo sotto una montagna di altri pensieri, per poi magari proiettare tutte le nuove ansie e le aspettative sulla gravidanza successiva.

"Amici e familiari non devono minimizzare. Anche per loro probabilmente è difficile gestire un dolore così forte e quindi non sanno rispondere in modo adeguato. Ma va bene anche rimanere in silenzio e dire ‘ti abbraccio, ti accolgo, rispetto il tuo silenzio e ti ascolto se ne vuoi parlare'", consiglia la dottoressa.

Seguire l'istinto

"È importante parlarne e trovare qualcuno che stia davvero lì ad ascoltarti, senza distogliere l'attenzione o cambiare discorso". Chiara Napoletani abita in provincia di Ascoli-Piceno ed è ideatrice del corso di danza Dance with me Babywearing, dedicato a gestanti e neomamme con i propri figli piccoli. Qualche anno fa ha dovuto fare i conti con un'esperienza sconvolgente: perdere un figlio al sesto mese di gravidanza. "Io e mio marito non ce lo aspettavamo, anche perché nessuno te ne parla prima. Non ci si pensa, come è giusto che sia. Li riteniamo eventi molto rari e invece poi scopriamo che sono più frequenti di quanto sembra. È dura da affrontare, comprendere, accettare".

Come è possibile che dopo ben 6 mesi di gravidanza, il bambino possa non sopravvivere? Il primario del reparto dove le devono indurre il parto non le sa rispondere. "Purtroppo succede – si sente ripetere anche lei – sono cose naturali, capitano. Ci riprovi e vedrà che andrà tutto a posto". Ma né lei né il marito hanno intenzione di finire di nuovo in quel baratro.

Chiara decide di fare da sola. Ricerca, si informa e alle fine torna dal ginecologo con una lista di analisi a cui voleva sottoporsi per scoprire se il suo corpo avesse qualche problema che interferisse con un'eventuale gravidanza. "Tutti fissati con questi esami", le risponde il medico. Nel frattempo, resta incinta di nuovo. E di nuovo, lo perde. Questa volta durante le prime settimane.

Dai referti dei prelievi risulta che Chiara ha due fattori mutati della trombofilia, patologia che può provocare l'insorgenza di trombi durante la gravidanza e bloccare l'arrivo di sangue al bambino. "Bisognerebbe minimizzare di meno. Per il sistema sanitario nazionale le indagini devono partire dopo che si è verificato il terzo aborto. Da un lato si capisce il senso, perché studi e statistiche dimostrano questo, ma dall'altro lato lo si provi a dire a una madre che ha perso il secondo o il terzo figlio, se non avrebbe preferito fare prima tutti gli esami". Alla fine, riesce a trovare un ginecologo che lavora vicino ad Ancona ed è specializzato in questo tipo di problematiche. Inizia una nuova gravidanza, con punture di eparina durante tutti i nove mesi. Così arriva Noemi, che oggi ha 5 anni. E poi Nathan, che ne ha 3.

L'importanza di cercare aiuto

"Sarebbe molto utile che l'ospedale ti lasciasse il contatto di uno psicologo. All'inizio non vuoi parlare con nessuno, ma poi tornando a casa cominci a pensare a quello che è successo, lo elabori e potresti aver bisogno di aiuto. Senza indicazioni specifiche non sai nemmeno dove sbattere la testa". A Chiara, una psicologa è stata presentata quando le era già stato indotto il parto e stavano iniziando le contrazioni per espellere il bambino. Come è evidente, quello non può essere il momento giusto.

Marzia invece ha iniziato il suo percorso di psicoterapia dopo circa 4 o 5 mesi dall'aborto. "Stavo davvero male, soffrivo di attacchi di panico, non riuscivo più a gestire le mie emozioni. E poi ero gonfia, i miei ormoni mi stavano devastando. È stato fondamentale poter parlare con una persona competente che mi ha aiutata e sostenuta. Avevo bisogno del mio tempo".

"Un percorso psicoterapeutico serve per prendersi il giusto spazio, per dare voce al proprio dolore"

Anche la dottoressa Baggetta ci conferma che in media trascorrono circa 6 mesi prima che una donna o addirittura una coppia arrivino nel suo studio. "Il percorso serve per prendersi il giusto spazio per capire quello che è accaduto, per dare voce al proprio dolore e a tutti i sentimenti che sopraggiungono in quel momento. È necessario anche per riprendere in mano l'identità di coppia, in modo che l'intimità non sia controllata o mirata alla ricerca ossessiva di una nuova gravidanza, ma metta al primo posto la condivisione dell'amore".

Dare l'aiuto che non è stato trovato

"Al pronto soccorso una dottoressa me lo disse in modo molto freddo ‘non c'è battito, se ne vada a casa e torni tra 24 o 48 ore'. Era la mia prima gravidanza e mi sono sentita crollare il mondo addosso. Non capisci cosa stia succedendo, cosa devi fare". Loredana Messina lavora come psicoterapeuta in un ospedale di Palermo e cerca di fornire alle madri quello stesso supporto che avrebbe voluto ricevere lei.

"Alle donne che seguo ricordo sempre che noi siamo mamme, anche se i nostri bambini sono nati dormendo. Abbiamo dato la vita comunque e non dobbiamo dimenticarcelo. I nostri figli hanno messo subito in chiaro chi è che comanda e che noi non possiamo controllare tutto".

Trascorse quelle 24 ore, Loredana si era recata in un altro ospedale, dove le avevano confermato la diagnosi. "Procediamo con l'espulsione", le dissero. Non ricevette nessun'altra informazione. Non le dissero come sarebbe avvenuta la procedura e nemmeno cosa fare del bambino. "Siccome ero irrequieta e li disturbavo perché continuavo a fare domande, mi sedarono. Quando mi risvegliai, vidi un'infermiera che agitava mia figlia in un barattolo. Iniziai a urlare cose irripetibili. Fu in quel momento che decisi di far nascere Associazione Georgia".

Nel 2012, un anno dopo l'aborto spontaneo, Loredana fonda ufficialmente l'associazione, il suo modo per far rinascere la figlia sotto altre spoglie. "Nessuno mi disse che avrei potuto seppellire la mia bambina, lo scoprii in seguito. Nacque in me un forte senso di colpa, che non favorì l'elaborazione del lutto. Mi feci aiutare da una collega psicoterapeuta. Nel frattempo, il mio matrimonio finì".

Quello che servirebbe in quei momenti, ci spiega, è "un traduttore", perché quando si riceve una notizia del genere ci si disconnette dalla realtà e ci si vuole solo svegliare, come fosse un brutto sogno. Bisogna avere accanto qualcuno che ci accompagni e che dia tutte le informazioni con calma.

"Ti senti vuota. La prima difficoltà che hai è quella di guardarti allo specchio, di guardare la pancia o di toccarla. Se qualcuno si avvicina, anche solo per abbracciarti, ti dà fastidio. Mi sentivo quasi sbagliata. Dovevo dare la vita e invece ho dato la morte".

Una nuova gravidanza

Durante la nostra chiacchierata al telefono, Chiara mi parla dei bambini arcobaleno. Sono quelli che arrivano dopo un aborto spontaneo, come l'arcobaleno dopo la tempesta.

"La prima mestruazione ritorna dopo 30 o 40 giorni e di solito la donna è già fertile. Da un punto di vista medico, può provare a rimanere incinta di nuovo, se non sono state individuate cause specifiche per l'interruzione della gravidanza precedente. Tutto dipende da quanto se la senta, naturalmente", specifica il dottor Corizza.

Ognuno fa le proprie considerazioni, ma la parola d'ordine è: niente fretta. Il rischio è quello della ricerca ossessiva di una nuova gravidanza per seppellire il dolore della perdita. "Io sono rimasta incinta dopo circa un anno dall'aborto. Nemmeno il corpo sarebbe stato pronto ad accogliere una nuova vita", racconta Marzia. "Quando una donna ha abortito, capita spesso che provi a far coincidere le date: ‘a quest'ora sarebbe nato', ‘oggi avrebbe tot. anni'. Io ci penso tuttora. Con 12 mesi di mezzo, però, le date non si sono sovrapposte". Dalla nuova gravidanza è nato Marco, che oggi ha 4 anni e sta benissimo.

"Il consiglio che dò di solito è quello di conservare tutto ciò che riguardava il bambino. La prima ecografia, ad esempio, oppure le analisi o un indumento che si aveva già acquistato. Sono ricordi forti che permettono di dire ‘ok, tu sei esistito, ho dato voce al mio dolore e ora mi preparo per una nuova ricerca", suggerisce la dottoressa Bagetta.

Serve aiuto anche al personale sanitario

"Quando si parla di un neonato o di un feto si fa molta fatica ad accostarlo alla morte, perché è un bambino che ancora doveva vivere. La nostra mente non lo accetta. Indossiamo delle corazze per difenderci e anche per aiutare chi sta soffrendo. Gli diciamo, ‘non è successo nulla, ne puoi fare degli altri'", chiarisce la psicologa.

Amici e famigliari non sono gli unici a indossare delle corazze. Quel personale sanitario che appare così freddo, in realtà ha dovuto imparare a sopravvivere a sua volta. "È possibile – prosegue la dottoressa – che abbiano molto a che fare con la morte e quindi abbiano dovuto sviluppare un certo cinismo, per necessità di sopravvivenza. Devi essere lucido, non ti puoi far coinvolgere dal dolore dell'altro. Il problema è che non sono preparati sotto questo punto di vista, non sanno proprio cosa devono fare, come proteggersi. Se invece fossero formati saprebbero come accompagnare la donna, come guidarla e accogliere il suo dolore senza rimanerne schiacciati".

"Molto spesso – aggiunge Loredana Messina, – tutto questo avviene all'interno di un luogo di lavoro molto caotico, quindi non c'è neanche il tempo materiale per fermarsi a spiegare, perché il medico e gli operatori sanitari devono fare altro. Il lavoro di accompagnamento dovrebbe essere svolto da figure specializzate in questo".

Oggi i professionisti sanitari si stanno formando e molti passi avanti sono dovuti anche all'impegno di realtà come CiaoLapo, che operano proprio per sensibilizzare, supportare e preparare il personale.

L'aborto spontaneo, così come la morte, è avvolto da un grande silenzio che nessuno di noi vuole infrangere. Abbiamo paura, questa è la realtà. Ci sentiamo inadatti, impacciati, sbagliati nel provare a stare accanto a chi lo vive. Proprio come si sente inadatto e sbagliato chi lo affronta. Ma è proprio per colpa di questo silenzio generale che le donne e le coppie si sentono ancora più sole.

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.