La storia dell’Aids, un’epidemia strettamente legata ai cambiamenti nel nostro modo di vivere

La storia dell’Aids ha radici più lontane di quelle che immagini. Il mondo la conosce negli anni ’80, quando scoppia l’epidemia negli Stati Uniti e iniziano a verificarsi i primi decessi, ma è dagli anni Venti che il virus è passato dalle scimmie all’essere umano e ha iniziato a mietere vittime.
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Giulia Dallagiovanna 7 Ottobre 2019
* ultima modifica il 24/09/2020

Dalla scimmia all'essere umano e dall'Africa fino all'Europa, la storia dell'Aids (Acquired Immune Deficiency Syndrome) è intrecciata e procede di pari passo con quella della nostra civiltà. Viaggia sulla ferrovia che inizia a unire il continente nero negli anni Venti, vola sull'oceano Atlantico a bordo di aerei da turismo tra gli anni Sessanta e Settanta e poi si diffonde, spinta dalla rivoluzione sessuale e dai viaggi all'estero sempre più frequenti e accessibili. Quando insomma sbarca negli Stati Uniti, per i medici e per l'intera popolazione è una completa, terribile sorpresa. Cosa si nascondeva dietro le improvvise e sempre più frequenti morti di giovani omosessuali maschi, prima, e di pazienti emofilici, poi?

La scoperta che vale il premio Nobel non arriva fino al 1983 e nel frattempo l'epidemia ha raggiunto una dimensione mondiale, coinvolgendo anche Europa e Asia. Intanto si susseguono i casi di decessi illustri, primo fra tutti quello del celeberrimo attore statunitense Rock Hudson. Si fanno strada i pregiudizi di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze ed esplodono le fake news alimentate dalla paura per una malattia che non ha un nome. Una vicenda che rimane tragica almeno fino al 1987, quando viene scoperto un primo farmaco in grado di rallentare il decorso, e trova una svolta solo nel 1996, quando arriva finalmente la terapia antiretrovirale, che trasforma l'Hiv (Human Immunodeficiency Virus) da virus mortale a infezione cronica.

Come nasce l'Aids

Innanzitutto, una precisazione: l‘Aids è la forma conclamata del virus dell'Hiv. Questo significa che per capire come nasca, bisogna seguire le tracce dell'agente patogeno e non solo della malattia in sé. E in realtà, non si conosce ancora con precisione da dove abbia avuto inizio il tutto. L'ipotesi ormai più accreditata è che l'origine sia da ricercarsi nel virus SIV (Simian Immunedeficiency Virus) che contagiava diverse specie di scimmie, in Africa. Sarebbe da qui che deriva il ceppo Hiv-1, il più diffuso e quello che porta a sviluppare la Sindrome da immunodeficienza acquisita come la conosci.

Quando sia avvenuto il cosiddetto "salto di specie" non lo si può ancora determinare con certezza, ma secondo le ricerche più recenti è accaduto da qualche parte in Camerun, in seguito al contatto tra esseri umani e scimpanzé. Probabilmente la trasmissione è stata resa possibile dall'abitudine di cacciare e macellare questi animali, per ricavarne carne e pellicce. Insomma, dal fatto che a quel tempo non era strano avere a che fare con sangue e liquidi corporei di un primate.

E ora veniamo ai dati certi. Il primo uomo sieropositivo accertato viveva a Léopoldville, nell'allora Congo Belga, nel 1959. E proprio a partire da questo campione di sangue e da altre provette raccolte in Africa negli ultimi 50 anni, un team di ricerca internazionale ha iniziato a ricostruire l'albero genealogico dell'Hiv e nel 2014 ha pubblicato i risultati del lungo lavoro sulla rivista Science. Quella che oggi è Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, negli anni Venti era una città coloniale caotica e in piena espansione. La prostituzione era diffusa e l'abitudine di sterilizzare le siringhe utilizzate negli ospedali non era ancora arrivata. Così, di persona in persona, il virus inizia a ad allargare il proprio territorio.

Ma a Léopoldville c'è anche un altro elemento molto importante: la ferrovia. Alla fine degli anni Quaranta quei binari venivano utilizzati da circa 1 milione di passeggeri ogni anno. Viaggiavano loro e viaggiava anche l'Hiv che raggiungeva gli altri Paesi africani. Per questa sorta di mappatura è stato importante individuare quale sottogruppo del virus si fosse diffuso maggiormente: fino a questo momento si tratta del gruppo M. Ma proprio la caratteristica di questo retrovirus, cioè quella di mutare molto rapidamente, ha permesso di seguire il suo percorso anche oltre i confini del continente.

Dall'Africa ai Caraibi

Tra gli anni Sessanta e Settanta, gli scambi commerciali e il turismo si muovono rapidamente. Persone di diversi Paesi entrano in contatto sempre più di frequente, creando un terreno fertile per la diffusione dell'Hiv. Dall'Africa, dunque, fa il suo ingresso nei Caraibi e, più precisamente, ad Haiti. Dai primi del Novecento, però, il virus è mutato di nuovo e ora bisogna seguire il sottogruppo B del gruppo M. Lo hanno fatto gli autori di un altro studio, pubblicato nel 2016 sulla rivista Nature e coordinato dal Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta.

Ancora più preciso rispetto a quello di due anni prima, questo lavoro si basa di nuovo su campioni di sangue risalenti a quell'epoca e riesce a individuare le tappe esatte del viaggio dell'Hiv. Ad Haiti, ad esempio, il primo caso accertato è del 1969. Ma l'isola caraibica è importante soprattutto per la sua posizione geografica: è la porta d'ingresso per gli Stati Uniti.

In quegli anni, è meta prediletta per i giovani omosessuali statunitensi alla ricerca di maggiori libertà di espressione, ma è anche luogo di provenienza di una consistente percentuale di prodotti emoderivati, necessari per il trattamento dell'emofilia. E naturalmente, nessuno controllava se nel sangue dei donatori fosse presente un agente patogeno di cui, ancora in quegli anni, si ignorava l'esistenza.

1981: l'epidemia negli Stati Uniti

L'epidemia vera e propria inizia nel 1981, in California. Perché così tanti anni dopo? Per due ragioni. Prima di tutto, l'Hiv è un retrovirus che appartiene al sottotipo dei Lentivirus: come suggerisce il nome, l'infezione progredisce molto lentamente e possono volerci anche una decina d'anni prima che sopraggiunga l'Aids conclamata e compaiano i sintomi veri e propri. In precedenza c'era stato solo qualche caso isolato e sporadico, che non aveva scaturito particolari preoccupazioni. Inoltre, negli anni Settanta scoppia la rivoluzione sessuale e mai come in quel momento il contagio è libero di diffondersi come gli pare e piace.

Si arriva dunque alla fine del 1980, quando Michael Gottlieb, un ricercatore dell'Università della California, analizza le cartelle cliniche di pazienti ricoverati nell'ospedale di San Francisco per portare avanti uno studio sui deficit del sistema immunitario. Nota così che un ragazzo ha contratto una forma di polmonite provocata dal protozoo Pneumocystis carinii (o jirovecii), che di solito si trova solo in persone con difese immunitarie ridotte al minimo. Proseguono i mesi ed emergono altri tre ricoveri per la stessa patologia e con un livello molto basso di linfociti T, un sottogruppo di globuli bianchi che si occupa proprio della risposta immunitaria.

Nel 1981 si verificano una serie di decessi per una rara forma di polmonite e per il sarcoma di Kaposi: i medici intuiscono che sono collegati

Il 5 giugno del 1981 il Center for Disease Control and Prevention della California scrive che la polmonite Pneumocystis carinii ha colpito cinque uomini che fino a quel momento erano sempre stati in salute. Ma il frutto del contagio degli anni precedenti ormai emerge a un ritmo elevato. Nel giro di poco tempo, si contano 422 nuovi casi, di cui 159 già deceduti. Intanto il 3 luglio di quell'anno, un articolo del New York Times sposta l'attenzione verso un'altra emergenza sanitaria: il sarcoma di Kaposi. Tra San Francisco e New York erano già avvenuti 41 ricoveri e 8 pazienti erano morti nel giro di 24 ore. E sai come titolava quel pezzo? "Un raro cancro colpisce 41 omosessuali". Già, perché è proprio questa l'unica cosa che hanno in comune tutti i casi elencati finora.

Tra medici e ricercatori, però, c'è un altro dato che emerge in modo sempre più evidente: l‘origine di questi due tragici fenomeni potrebbe essere la stessa. Sì, ma quale? Un pregiudizio un po' fuorviante, intanto, si fa strada: è una patologia che colpisce solo gli omosessuali. Anzi, un'autorevole rivista scientifica come The Lancet arriva a parlare di "gay compromise sindrome”. Proprio alla fine di quell'anno però si registra un primo caso di paziente eterosessuale.

1983: la scoperta contesa

L'anno successivo, nel 1982, si è ormai abbastanza concordi che si tratti di una nuova malattia e che all'origine ci sia un virus. Già in agosto la Food and Drug Administration, l'ente governativo che vigila anche sul commercio di prodotti farmaceutici, propone una prima definizione azzeccata: Sindrome da immunodeficienza acquisita. E si chiama "sindrome" proprio perché si manifesta in diversi modi e con patologie all'apparenza distanti tra loro.

Intanto, aumentano casi e decessi. Ma soprattutto, il contagio oltrepassa le categorie alle quali, fino a quel momento sembrava essere confinato. Negli ultimi mesi, agli omosessuali maschi si erano infatti aggiunti i tossicodipendenti, che lo contraevano dalle siringhe non sterili, gli emofilici, che ricevevano emoderivati infetti, e gli Haitiani, tra i quali si registrava un elevato numero di casi. In particolare, due notizie scuotono l'opinione pubblica e danno il via alla vera e propria paura per l'Aids: la morte di un bambino affetto da emofilia e il primo episodio di trasmissione da madre a figlio. Quattro anni dopo l'eradicazione del vaiolo, una nuova epidemia spaventava il mondo. E già si verificavano i primi ricoveri anche in Canada, in Brasile e in Europa, Italia compresa.

Il 1983 e il 1984 sono gli anni della svolta. I Centers for Disease Control and Prevention iniziano a lavorare sulla prevenzione, e in tanto i migliori ricercatori del mondo sono all'opera per dare finalmente un nome al virus. Ci riesce per primo il virologo francese Luc Montagnier, dell'Istituto Pasteur di Parigi, che il 20 maggio 1983 annuncia in uno studio di aver isolato il probabile agente patogeno. Viene inviato ai Centers for Disease Control and Prevention di Atlanta e nell'aprile del 1984 arriva la conferma: il microorganismo, rinominato Lav, è la causa dell'Aids. In realtà la prima persona in assoluto a vedere il virus al microscopio fu una donna, l'immunologa francese Françoise Barré-Sinoussi, che lavorava con Montagnier.

La prima persona a vedere il virus al microscopio fu una donna: l'immunologa francese Françoise Barré-Sinoussi

Nel frattempo però anche negli Stati Uniti, e precisamente al National Cancer Institute di Bethesda, nel Maryland, si lavora per capire da dove venga la nuova patologia. Esattamente il giorno successivo a questo annuncio, ne arriva un altro. Il medico e biologo Robert Charles Gallo ha scoperto l'esistenza di una famiglia di retrovirus e ha isolato un preciso agente patogeno, chiamandolo Htlv-III (Virus umano della leucemia a cellule T di tipo III). È proprio lui a individuare per primo l'esistenza di retrovirus umani. Non solo, ma aggiunge che metterà a disposizione un test per diagnosticare l'infezione.

La scoperta vale il premio Nobel e così tra i due istituti di ricerca prende il via una vera e propria battaglia legale. Entrambi iniziano a pubblicare studi e ricerche a un ritmo sorprendente fino a quando, nel 1985, appare chiaro un fatto: si tratta dello stesso agente patogeno. Quando nel 2008 Luc Montagnier riceverà effettivamente l'ambito premio, si dirà dispiaciuto che lo stesso merito non sia stato riconosciuto anche a Robert Gallo.

La storia dell'Aids in Italia

Finora ti ho parlato degli Stati Uniti perché è dove l'epidemia ha avuto origine, ma se dall'Africa ha raggiunto New York e San Francisco, il viaggio verso l'Europa era ancora più semplice. I primi contagi arrivano già alla fine del 1981 nei Paesi del nord, mentre in Italia si fanno i conti con l'Hiv a partire dall'anno successivo. Il primo ricovero fu di un paziente omosessuale che si recava spesso negli Stati Uniti. Già nel 1984 il numero di casi era salito a 18 e, soprattuto, a Milano si ammalò una persona tossicodipendente che non era mai stata all'estero. La patologia, insomma, si era ormai stabilita ufficialmente nel nostro Paese.

A partire dalla metà degli anni '80 infatti, era partita quella che viene definita la terza fase dell'epidemia, che interessava soprattutto l'Europa centromeridionale e che mieteva vittime principalmente tra persone che facevano uso di eroina.

Ma in Italia l'Aids è strettamente connessa alla politica e a due tra gli scandali più importanti che investirono la sanità in quel periodo: sto parlando del sangue e dei prodotti emoderivati infetti. Si sono verificati in contemporanea, tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '90.

Senza dilungarsi troppo in lunghe vicende politiche e giudiziarie, il problema fu principalmente che le sacche provenivano da persone che non erano state sottoposte ai tutti i controlli necessari e che spesso appartenevano a categorie non sicure come tossicodipendenti, detenuti e individui con comportamenti sessuali a rischio. Prima dell'entrata in vigore del "Piano sangue", nel 1994, le logiche di mercato facevano sì che una larga parte di materiale per le trasfusioni arrivasse dagli Stati Uniti e da donatori che ricevevano un pagamento in denaro. Alcuni di questi lo facevano addirittura in modo occasionale.

A pagarne le conseguenze furono soprattutto gli emofilici, cioè coloro che non presentano il fattore VIII della coagulazione e hanno bisogno di continue trasfusioni. In migliaia furono esposti alla trasmissione di virus come l'Epatite C e l'Hiv e il risultato furono centinaia di decessi e pazienti che ancora oggi combattono contro queste infezioni.

Fonte| Istituto superiore di sanità

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