Ottobre è il mese dedicato alla lotta al tumore al seno. Nonostante gli ultimi dati presentati nel report “I numeri del cancro in Italia 2019” a cura dell'Aiom, sono 145 le donne che ogni giorno in italia ricevono una diagnosi di tumore al seno. Nel dicembre del 2013, anche Francesca Favia, ha ricevuto la stessa diagnosi e il mese successivo ha subito l’intervento chirurgico di quadrantectomia per l’asportazione del tumore. Abbiamo incontrato Francesca per farci raccontare la sua esperienza, un anno di battaglia contro il tumore al seno.
Avevo l’appuntamento segnato in agenda: “Fare controllo senologico”. L’abituale visita con ecografia al seno come raccomanda la “buona” prevenzione. Il giorno in cui era fissato l’appuntamento sono andata a S. Giovanni Rotondo, presso la Casa Sollievo della Sofferenza. Una struttura che mi era comoda, così come lo era per la mia amica con cui mi recavo sempre a queste “scadenze”. Nulla faceva presagire qualcosa di diverso dai precedenti controlli: nessun nodulo palpato, nessun dolore o anomalia del seno sospetti. Invece l’ecografia rivela qualcosa di dubbio: l’ecografista mi parla di un nodulo da accertare meglio con una mammografia e un ago aspirato per definirne la natura.
Mi sono sottoposta immediatamente ai due esami. Ho atteso il risultato per 20 giorni, i più lunghi della mia vita. Poi quella busta sigillata. È stato mio padre ad aprirla. Una doccia fredda. La terra mi si è aperta sotto i piedi perché la diagnosi era di tumore al seno. Mi sentivo completamente frastornata; all'inizio non ho realizzato la serietà del problema fino a che non ho condiviso la notizia con la mia famiglia e il mio compagno.
Mi sono rivolta all’Ospedale di Matera, dove lavorava mia cugina, un medico chirurgo. Da subito è stata lei a dare risposte efficaci e precise alle mie domande e mi ha rassicurato molto. Mi sentivo appoggiata sia da un punto di vista clinico che psicologico. Mi sono affidata a lei per l’intervento chirurgico di quadrantectomia, seguita da una ventina di cicli di chemioterapia all'Unità Baccelli del Policlinico di Bari e 30 sedute di radioterapia, fatte sempre all’Ospedale di Barletta. Questi punti di riferimento sono stati fondamentali e mi hanno aiutato ad accettare e vivere al meglio la malattia in tutte le sue fasi. Oggi farei la stessa scelta.
Tutto. La mia chemio è stata pesante, anche se non pesantissima. Ho potuto fare una vita abbastanza normale, ero solo debole. Il momento più brutto, dopo quello della diagnosi, è stato il momento della perdita dei capelli. È successo all'improvviso, mentre facevo la doccia. Rientrata dal lavoro sono andata in un negozio specializzato in parrucche, il titolare mi ha rasato i capelli e ho scelto la parrucca che avrei indossato fino al termine delle cure.
Evitavo il più possibile le persone negative, mentre apprezzavo le persone che sapevano infondermi, con le loro parole, ottimismo e fiducia. Ero circondata dagli amici e dalla famiglia che si forzavano di trattarmi in maniera normale, senza comunque negare la situazione. Poi il mio lavoro come guida turistica mi ha aiutato tanto. Le molte ore in piedi erano fisicamente debilitanti, soprattutto nelle settimane di chemio, ma stare in mezzo alla gente mi aiutava a non pensare e a parlare di qualcosa d’altro, diverso dalla mia malattia. Ho coltivato sempre i miei interessi, mantenendo gli abituali impegni per quanto possibile, vivendo la malattia come una "probabilità" che può capitare.
Ho ripreso la mia vita normale, lavoro come guida turistica e faccio sport, ma le cure non sono ancora concluse: ho avuto un tumore sensibile agli ormoni e per questo motivo sono stata costretta a entrare in menopausa farmacologica. Purtroppo devo rinunciare al progetto di avere dei figli perchè il mio è stato un tumore molto aggressivo e se prima sembrava fosse necessario "tenere tutto fermo" solo per i consueti 5 anni di follow up, adesso mi è stato consigliato di continuare con la menopausa farmacologica.
Sono cambiata emotivamente e psicologicamente: sono più attiva di prima e più appassionata alla vita. Ho conosciuto il valore delle relazioni importanti, di amici e famigliari che mi sono stati vicino. Ora so dare il giusto valore alle cose, mi infastidisco, ad esempio, se le persone si lamentano per questioni di poco conto; credo sia dovuto alla sofferenza che ho visto intorno a me. Perché la malattia insegna a guardare le situazioni, gli eventi più o meno positivi, con il giusto distacco e senza farsi eccessivamente travolgere da quanto accade intorno, apprezzando invece il senso della quotidianità, il valore delle relazioni e il dono della vita.
Sono convinta che se non ci fossero state la ricerca e l’impegno costante dei ricercatori, la mia storia avrebbe avuto un risvolto e un percorso differenti. Sono grata e sostengo l’importanza di devolvere fondi per studi e ricerche che ogni giorno possono aggiungere una informazione in più alla conoscenza, per arrivare a una scoperta che solo ieri non c’era e che può cambiare la storia di molti malati, a beneficio dell’intera collettività. Ma devo dire grazie, oltre che alla ricerca, alla prevenzione che mi ha salvato la vita”.
L’Airc si è rivolta al reparto dove ero stata operata e una delle dottoresse ha dato il mio nominativo all’associazione. Il primo passo per affrontare un tumore è parlarne, non deve essere una cosa da nascondere; a me faceva bene parlarne. Spero che il racconto della mia storia possa aiutare chi sta affrontando un duro e difficile percorso di vita e di malattia, a trovare forza e positività per lottare. Perché anche loro, come me, si convincano di potercela fare. A volte qualcuno pensa sia una forma di esibizionismo, ma è solo un modo per aiutare gli altri.