Se ti dico "infarto", cosa ti viene in mente? Probabilmente un uomo di mezza età, in sovrappeso, che si stringe la parte sinistra del petto in preda a dolori forti. In linguistica, si chiama modello ideale: l'immagine alla quale associ in automatico un concetto e per la quale ogni altra rappresentazione verrà relegata alla categoria "eccezioni". In medicina, questo procedimento mentale è all'origine della morte di più di 8.200 donne fra il 2003 e il 2013 nel solo Regno Unito.
I ricercatori dell'Università di Leeds, in Inghilterra, e del Karolinska Institut, in Svezia, hanno portato alla luce un problema grave, gravissimo: si tende a pensare che l'attacco di cuore sia un disturbo maschile, perciò una donna in media non riceve le cure adeguate e ha il doppio delle possibilità di morire rispetto a un uomo.
Un pregiudizio che costa caro: nell'arco dello stesso periodo, il 5,2% di pazienti femmine sono morte durante i 30 giorni successivi all'infarto. Fra i maschi, la percentuale si ferma al 2,3.
Risultati tragici che potrebbero essere evitati. Quello che hanno scoperto gli autori dello studio è che i medici tendono a non seguire le prescrizioni delle linee guida in materia di infarto, quando sono di fronte a una paziente femmina. Non perché siano sessisti o poco competenti, semplicemente perché discosta troppo dal modello ideale di persona con attacco cardiaco in corso.
"Le donne spesso non ricevono subito un'angiografia coronarica (cioè uno screening che consente di capire se le arterie sono ostruite, ndr.) – ha spiegato il cardiologo Chris Gales, primo autore dello studio – e sono quindi subito poste in una condizione di svantaggio rispetto agli uomini".
Più nel dettaglio, una paziente che ha avuto un infarto miocardico acuto, cioè un'ostruzione delle coronarie, ha il 34% in meno di probabilità di ricevere uno stent o un bypass che liberi le arterie, il 24% in meno di probabilità di vedersi prescritte terapie farmacologiche che prevengano un secondo attacco cardiaco e il 16% in meno di probabilità che gli venga consigliato l'acido acetilsalicilico per prevenire la formazione di nuovi coaguli di sangue.
E se per caso ti starai chiedendo se, in fondo, non sia semplicemente una questione biologica e non sociale, facciamo chiarezza anche su questo punto. Le differenze esistono, come ha dimostrato anche uno studio pubblicato a maggio dall'università di Bologna. Prima di tutto, i sintomi sono diversi: una donna può non avere la classica fitta al torace, ma presentare nausea, respiro corto e dolori a collo e schiena. Inoltre, il tessuto miocardico femminile reagisce in modo peggiore a un attacco rispetto a quello maschile.
Ma quello che dall'università di Leeds precisano è che le oltre 8,200 donne di cui ti parlavo prima sarebbero potute sopravvivere, se fossero state curate come i pazienti uomini. Non tutte, ma più di 8mila. Un numero sufficiente perché negli ospedali si alzi il livello di guardia.
Fonte| "Sex Differences in Treatments, Relative Survival, and Excess Mortality Following Acute Myocardial Infarction: National Cohort Study Using the SWEDEHEART Registry" pubblicato su Jaha il 14 dicembre 2017