Moltissimi contagi ma pochi morti: è la misteriosa fotografia della Corea del Sud invasa dal Coronavirus. Da secondo focolaio dopo la Cina, nelle scorse ore il paese ha lasciato il posto all’Italia con i suoi oltre 9mila casi totali (aggiornati a martedì 9 marzo) e nella giornata di martedì 10 marzo ha pure “festeggiato” l’annuncio di soli 131 nuovi contagi. Ovvero il quarto giorno consecutivo in cui i casi positivi al virus stanno diminuendo.
Se confrontata con il nostro Paese, dove l’aggiornamento della Protezione Civile del 9 marzo contava un amento dei positivi (+1598) e dei decessi (+97), l’emergenza sudcoreana appare meno spaventosa e contenibile: 7513 casi positivi al contagio e solo 54 morti.
Per capire l’equazione sudcoreana, però, bisogna analizzare le variabili in gioco, su tutte il numero dei tamponi effettuati: se in Italia, al 9 marzo, eravamo intorno ai 40mila test, in Corea del Sud superano i 200mila.
Il Coronavirus in Corea del Sud è arrivato intorno al mese di dicembre ma fino a metà febbraio c’erano solo 30 contagiati e zero decessi. Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie governo sudcoreano poi ha individuato l’epicentro della diffusione a Daegu (città di 2,5 milioni di abitanti), precisamente nella setta religiosa della chiesa di Gesù Shincheonji.
Si tratta di una setta segreta che conta circa 200mila fedeli e per i quali la segretezza anche con i familiari è d’obbligo. Se qualcuno era contagiato e lo sapeva dunque, non ne ha parlato con nessuno, agendo come se niente fosse e contribuendo alla sua diffusione. Nel giro due settimane i contagi positivi in Corea del Sud sono saliti fino ai 7513 attuali, con un numero di morti che non supera le 60 unità.
Più del 60% dei contagiati, comunque, appartiene alla Chiesa di Shincheonji.
Che la Corea del Sud stia riuscendo a rallentare la diffusione del virus è un dato di fatto. Lo confermano soprattutto i decessi che, ad oggi, sono stati contenuti a 54: poco più di una settimana fa, facendo riferimento al 1 marzo, in Italia erano 34, in Corea del Sud 17. Oggi nel nostro Paese sono aumentati di quasi 14 volte.
Ma come ha fatto la Corea del Sud a contenere in modo così efficace i contagi? Che differenze di approccio ci sono rispetto agli altri paesi e all’Italia, oggi secondo focolaio mondiale? Possiamo individuare diverse motivazioni.
Dopo l’individuazione del primo contagio nella zona di Daegu e nella setta religiosa, le autorità sanitarie sudcoreane sono rimaste convinte che per il 63% delle infezioni il contagio sia arrivato da un’unica fonte, appunto la setta religiosa Shincheonji.
Per questo, con un potenziale epicentro preciso e individuato per tempo, le autorità hanno potuto identificare e isolare i membri con più facilità e sono riuscite a mettere in pratica sistemi di rilevazione e contenimento più stringenti.
La grande differenza nella risposta sudcoreana al Coronavirus l’hanno fatta i tamponi. E, più che il numero di persone, i sintomi che avevano i cittadini a cui sono stati sottoposti i test per verificare la presenza o meno del contagio.
Secondo gli ultimi dati aggiornati, su un sub-totale di 202,631 casi sospetti, oltre 184mila sono risultati negativi mentre ad oggi 18mila stanno ancora aspettando gli esiti. Questo significa che le autorità hanno effettuato cinque volte i tamponi fatti dall’Italia, che si aggirano intorno ai 40mila.
La Corea del Sud, che ha la capacità di fare circa 15mila test diagnostici al giorno, ha eseguito tamponi soprattutto su chi presentava sintomi anche lievi: questi sono stati tenuti sotto controllo fin da subito, così da evitare nuovi contagi e per provare a ridurre l’insorgenza di sintomi più gravi.
In Italia invece il ministero della Salute e la Protezione Civile, dopo la risposta totalizzante dei primi giorni, hanno deciso di sottoporre ai tamponi solo chi aveva sintomi palesi che potesse far pensare concretamente all’infezione da Coronavirus.
È evidente quindi che fare tamponi a tutti o principalmente a chi ha sintomi o solo a chi sintomi palesi può cambiare la prospettiva con cui si analizza il rapporto contagi-decessi di un paese.
Tra le misure che il governo sudcoreano ha messo in campo per fronteggiare e contenere la diffusione del virus ci sono stati i cosiddetti “drive-through”, stazioni di test rapidi. Funzionano così: i cittadini a bordo delle loro auto potevano fermarsi a una di queste stazioni, senza che dovessero scendere dal veicolo personale attrezzato con mascherina e tuta anticontaminazione si avvicinava loro, sottoponendoli al test della temperatura, al tampone del naso e del muco e a dando loro un questionario da compilare.
Dopo due o tre giorni i cittadini che erano stati testati ricevono i risultati via sms.
I questo modo i contatti sono stati limitati praticamente allo zero, non si sono creati ammassamenti di persone strette uno all’altra e i rischi di contagio sono stati di fatto annullati. Rendendo la procedura, oltretutto, molto più veloce.
In Corea del Sud, così come in Italia, le politiche di contenimento sono state molto stringenti. Secondo molti però, un’importante differenza è stata la risposta della cittadinanza. Nel nostro Paese abbiamo visto di casi di irresponsabili affollare strade, piazze e bar nonostante i provvedimenti del governo.
In Corea del Sud, invece, sembra che la risposta alle raccomandazioni delle autorità sia stata molto attenta e scrupolosa: tutto all’insegna della massima prevenzione.
Sicuramente efficace è stato l’apporto della tecnologia. Ci sono App, infatti, che allentano se si ci avvicina a meno di 100 metri da luoghi frequentati da persone infettate, altre invece tengono costantemente aggiornati sulle zone da evitare.
Fonti | WorldMeters; Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie – Corea Del Sud; Ansa;