Morbo di Alzheimer: diagnosi con un semplice prelievo di sangue ben 16 anni prima dell’insorgenza dei sintomi

Un prelievo potrebbe individuare nel sangue livelli troppo alti di una proteina strutturale presente all’interno dei neuroni, che se immessa in circolo nel corpo può segnalare la presenza di un danno cerebrale. Questo consentirebbe maggiore possibilità di manovra nella ricerca di nuove terapie e in una maggior conoscenza della patologia.
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Sara Del Dot 24 Gennaio 2019
* ultima modifica il 22/09/2020

Per il morbo di Alzheimer, lo sappiamo, non esiste ancora una cura. E quel che è peggio, il numero di individui che arriva a manifestarne i sintomi per poi finirne preda è in costante aumento. Solo in Italia, attualmente ci sono oltre un milione di persone affette da questo tipo di demenza, e più di tre milioni sono coloro che quotidianamente sono costrette ad avere a che fare indirettamente con la malattia, attraverso cure e assistenza. Si tratta di una malattia molto studiata ma ancora oscura in molti suoi aspetti. Per questa ragione, risulta una vera e propria scoperta e opportunità la possibilità di effettuare una diagnosi in grado di riconoscere la malattia di Alzheimer nell’individuo molti anni prima rispetto all’insorgenza dei primi sintomi di declino cognitivo. Soprattutto perché, fino ad ora, si riconosceva la malattia soltanto molto tardi rispetto ai primi segnali.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Nature Medicine, condotto dalla Washington University School of Medicine di St. Louis (Usa) e dal Centro tedesco di Malattie Naurodegenerative di Tübingen, in Germania, un semplice esame del sangue potrebbe rivelare la presenza del morbo di Alzheimer nel cervello delle persone fino a 16 anni prima della comparsa dei primi campanelli d’allarme.

L’esame

Si chiama test per il dosaggio delle catene leggere del neurofilamento (Nfl), è già disponibile ma deve essere ulteriormente provato in alcuni suoi aspetti. Si tratterebbe in sostanza di un prelievo effettuato nell’ambito di uno screening neurologico presso centri specializzati. Questo test analizzerebbe una proteina strutturale, chiamata neurofilamento, che si trova nello scheletro dei neuroni. Quando i neuroni vengono danneggiati, la proteina vi fuoriesce, entra nel liquor (il liquido che protegge il sistema nervoso centrale da traumi) e viene immessa in circolo nel corpo. Livelli alti di questo neurofilamento nel sangue, sono indicativi di problematiche legate a demenza e traumi cranici. Di conseguenza, è stato riscontrato che l’alta presenza nel liquor di questo biomarcatore è strettamente legata a un danno neuronale. Tuttavia, non essendo semplice effettuare esami del liquor, i ricercatori hanno provato a vedere se fosse possibile analizzare la proteina anche tramite esami più superficiali, ad esempio quelli del sangue, verificandone il collegamento con un danno neuronale.

Dal momento che il biomarcatore studiato non è presente soltanto in pazienti affetti da morbo di Alzheimer ma anche in presenza di altre patologie, è stata avanzata l’ipotesi che questo test potrebbe essere utilizzato anche per verificare la futura insorgenza di altre malattie neurologiche come sclerosi multipla, trauma cranico, ictus.

Lo studio

I ricercatori che si sono occupati della ricerca, hanno studiato un gruppo di famiglie colpite da una variante genetica che può provocare l’Alzheimer a 30 o 40 anni, per un totale di 409 persone. 247 risultavano portatori di questa variante, chiamata early-onset, e 162 erano invece parenti non portatori. Considerato il fatto che un genitore ha il 50% di possibilità di trasmettere la patologia al proprio figlio, è stato possibile analizzare l’andamento cognitivo di questi soggetti in anni molto precedenti alla comparsa dei sintomi. Nell’organismo dei portatori early-onset, i livelli delle catene leggere del neurofilamento erano già alti inizialmente, per poi aumentare con il passare degli anni. Nei non portatori, invece, i livelli erano bassi e stabili. Il dato importante è che questa differenza è risultata già evidente 16 anni prima della comparsa dei sintomi del morbo. In più, è risultata evidente la correlazione tra la velocità di innalzamento dei livelli della proteina e quella con cui la parte del cervello coinvolta nei meccanismi della memoria si riduceva. In pratica, che i neuroni fossero danneggiati era già visibile molto prima dell’insorgenza di sintomi visibili.

Dopo due anni dal test, 39 persone portatrici della variante early-onset sono state sottoposte a una visita di controllo in cui sono stati somministrati loro dei test cognitivi, ed è risultato evidente come coloro che avevano presentato un veloce aumento dei livelli della proteina nel sangue erano peggiorati nelle loro facoltà cognitive, confermando i risultati dello studio.

I vantaggi di una conoscenza precoce

Sicuramente l’introduzione di un esame di questo genere può risultare molto utile, da diversi punti di vista. Indipendentemente dalla volontà di un singolo individuo di conoscere la propria condizione in merito a questa malattia, poter individuare l’insorgenza del morbo con ben 16 anni di anticipo potrebbe consentire uno studio maggiore e più approfondito dei meccanismi che lo generano e di cui è caratterizzato, oltre a consentire sperimentazioni cliniche per trovare nuove terapie.

Fonte | "Serum neurofilament dynamics predicts neurodegeneration and clinical progression in presymptomatic Alzheimer’s disease", pubblicato su Nature Science il 21 gennaio 2019.

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