Morte perinatale: tutte le possibili cause del “lutto bianco”

Purtroppo anche in un momento genericamente gioioso come quello della gravidanza può accadere che accada qualcosa di imprevisto e che il feto non sopravviva. Approfondiamo insieme tutte le cause, i sintomi e le strade da percorrere per chi non ha la possibilità di concludere un percorso così delicato, ma che non deve perdere la speranza.
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Valentina Danesi 29 Giugno 2021
* ultima modifica il 14/09/2021
Con la collaborazione della Dott.ssa Antonella Poloniato Neonatologa dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano

Questo è un tema molto delicato. Non solo perché si parla di un lutto, ma anche perché si tratta della perdita di un bambino in un momento che sia per la donna e la coppia dovrebbe essere di massima gioia: ossia la gravidanza e la prima settimana di vita. Siccome, però, è qualcosa che purtroppo accade, è bene parlare della morte perinatale per capire meglio con cosa si abbia a che fare.

Cos’è


Quando parliamo di morte perinatale, o di mortalità perinatale, intendiamo la perdita di un bambino in un arco temporale che include la gravidanza dalla 22esima settimana fino alla prima di vita, ossia i sette giorni che seguono il parto. In gergo internazionale si parliamo di “Stillbirth”, ossia del bambino che nasce senza vita o che muore poco dopo la nascita.

Le cause e i sintomi

I motivi per cui una mamma perde il bambino sono vari ma possiamo dividerli in tre grandi categorie che ti spiegano un po’ l’origine di questo problema:

  • cause placentari, in sostanza se ci sono problemi con la placenta, ossia quel sacco che contiene il bambino e lo connette alla mamma tramite il cordone ombelicale. Purtroppo si può staccare o non portare il necessario nutrimento al piccolo
  • cause fetali, quindi legate esclusivamente al bambino, come una crescita eccessivamente lenta o la contrazione di infezioni;
  • cause materne, parliamo quindi di malattie o condizioni fisiche o psicologiche della madre che possono portare alla perdita del bambino

Queste macro aree spesso sono interconnesse, per esempio un problema placentare o al cordone ombelicale può far sì che il feto non cresca in modo adeguato. Ma scendiamo ancora più nel dettaglio, sempre mantenendo queste distinzioni. Ecco una breve lista di condizioni preoccupanti che possono essere riscontrate nella mamma:

  • diabete fuori controllo o non riconosciuto
  • preeclampsia (una tipologia di ipertensione) o eclampsia
  • infezioni
  • abuso di sostanze stupefacenti, alcolici o fumo
  • percosse o lesioni ricevute
  • problemi nella coagulazione del sangue
  • problemi nel funzionamento tiroideo
  • eccesso di peso (in questo caso parliamo di casi di obesità).

Se invece parliamo del bambino, ecco quali possono essere alcune cause specifiche:

  • infezioni
  • anemia
  • difetti o anomalie congenite quindi ereditarie

Se, infine, parliamo di placenta queste possono essere le problematiche principali:

  • distacco di placenta
  • riduzione di ossigeno, sangue o sostanze nutritive al feto
  • perdita di sangue 
  • prolasso del cordone ombelicale, ossia il cordone esce dal canale vaginale prima del feto o formazione di nodi o ostruzioni
  • vasi previ, quando i vasi sanguigni che fungono da collegamento tra cordone ombelicale e placenta sono eccessivamente vicini alla cervice.

I dati

Parliamo un po’ di dati riguardo questo problema così delicato, che colpisce sia il lato fisico che l'aspetto psicologico della madre e della coppia. Secondo una stima elaborata da UNICEF e OMS (insieme a Gruppo della Banca mondiale e Divisione per la popolazione del Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite “A Neglected Tragedy: The Global Burden of Stillbirths”) nel mondo, ogni 16 secondi circa nasce un bambino senza vita. In un anno si arriva a una cifra di circa due milioni.

A livello mondiale, ogni 16 secondi un bambino nasce privo di vita. Due milioni ogni anno

Nella maggior parte dei casi, il problema è distribuito in zone con reddito medio o basso, in sostanza i paesi più poveri. E questo fenomeno e proprio dovuto al fatto che spesso la morte perinatale è associata a una scarsa qualità delle cure durante gestazione e parto. Quindi nelle aree in via di sviluppo, la popolazione sotto la soglia di povertà si sottopone di norma a un minor numero di controlli. Se guardiamo, nello specifico, all’Italia le morti in utero sono pari a 2,4 ogni 1.000 nati, con una diminuzione del 15,1% dall’anno 2000 (1507 casi) al 2019 (1070 casi). Una piccola buona notizia. 

La diagnosi

È importante capire cosa non va, ma come? Ti spieghiamo quali possono essere gli esami utili da fare per arrivare a una diagnosi.

In primo luogo sicuramente una valutazione medica dal tuo ginecologo di fiducia, che non solo può verifica la situazione specifica, ma conosce le tue condizioni di salute e la tua storia medica e quindi ti prescriverà le analisi necessarie. Ecco alcuni esami specifici che possano aiutare a valutare stato di salute del piccolo quando ancora in vita:

  • monitoraggio della frequenza cardiaca del feto sia in movimento che quando è immobile
  • profilo biofisico: grazie all’uso dell’ecografia in tempo reale si possono ottenere immagini del bambino e osservare la sua attività, ma anche conoscere la quantità di liquido amniotico, la frequenza di respirazione e le condizioni muscolari.

Quando il medico sospetterà la morte del feto? Di norma quando, tramite un’ecografia, o anche solo con lo stetoscopio, non avvertirà più i movimenti del bambino. Anche se ti specifichiamo che con l’avanzare della gravidanza, avendo meno spazio, è normale che tu percepisca un’eventuale diminuzione dei movimenti.

Se, purtroppo, non si è più in tempo, esistono comunque degli esami da fare per poter capire la causa del decesso. Di norma si tratta di test genetici o esami del sangue per fare luce sull'accaduto e se, per esempio, c’erano in corso delle infezioni o dei problemi che non sono stati riconosciuti.

Di solito i medici consigliano di valutare il feto, ma anche di esaminare la placenta e l’utero. Dobbiamo specificare che spesso la causa non viene scoperta, ma eventuali esami diagnostici, per quanto il momento sia difficile, possono aiutare a scoprire possibili anomalie genetiche, che ti permetteranno di valutare come procedere in caso di una successiva gravidanza.

La cura

Cosa avviene ora? Ecco cosa accade se il feto non è più in vita. Se il feto non viene espulso e non è più possibile il raschiamento, perché lo stadio della gravidanza è troppo avanzato, verrà somministrata della prostaglandina (ossia un farmaco che serve a stimolare le contrazioni) e del misoprostolo, per indurre la dilatazione della cervice. In aggiunta viene somministrata l’ossitocina per stimolare il travaglio. Molto dipende anche dalle settimane della gestazione e dalle dimensioni del feto.

Se è inferiore a 24 settimane, si può ricorrere a dilatazione ed evacuazione (D e E) per rimuovere il feto deceduto. Se poi restano residui di tessuti o placenta all’interno dell’utero, sicuramente si deve procedere con il raschiamento aspirativo per asportarli. Di qualunque tipo di procedura si tratti, bada bene che chi subisce un aborto necessita un supporto di tipo sia fisico, quindi con cure e visite adeguate, ma anche e soprattutto psicologico, perché a qualunque stadio della gravidanza succeda, stiamo parlando di una perdita che causa una ferita molto profonda. È importante anche che tu sappia che subire una perdita di questo tipo non implica che non si possa avere una nuova gravidanza. Naturalmente, solo in caso lo si desideri e dopo aver valutato con attenzione la causa che ha provocato il lutto. Il consiglio è quindi, nel dubbio, di non esitare a contattare il tuo ginecologo di fiducia che, conoscendoti e consigliandoti esami specifici, ti saprà aiutare in qualunque fase.

Il parere dell'esperto

Abbiamo chiesto alla dottoressa Antonella Poloniato, neonatologa dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, quale possa essere il supporto migliore per genitori e famiglie dopo un evento di questo tipo:

Quando una gravidanza termina prematuramente e tutto è diverso da quanto si aspettavano i futuri genitori, è importante ricordare sempre che c’è un bambino "immaginato"che non nascerà o vivrà indipendentemente dal momento in cui tale perdita è avvenuta: sia che si parli dell’inizio della gravidanza o del termine, durante il parto o subito dopo. Il sostegno maggiore deve avvenire proprio nei giorni successivi al parto in modo tale che si riesca a elaborare un lutto che non è naturale: sopravvivere ai nostri figli.

È importante che i genitori possano costruirsi dei ricordi del loro bambino, per quanto piccolo sia o per quanto breve sia stata la sua esistenza. Ad esempio, se una donna partorisce un neonato senza vita, noi consigliamo ai genitori di vederlo, coccolarlo, abbracciarlo, creare un legame. In questo modo possono rendersi conto che il bimbo che hanno immaginato fino a quel momento è realmente esistito, che quel bambino è lì, davanti a loro e con quel faccino.  So che è davvero molto difficile, alcune mamme lo rifiutano, ma è fondamentale per creare dei ricordi e un’identità del proprio bambino, per poter contenere questo dolore e, se non iniziare a superarlo, renderlo parte di sé e continuare a vivere pensando a un futuro.

Come possiamo costruire questi ricordi?

Conservando, per esempio l’impronta del piedino o della manina. Oppure una foto, un vestitino o le calzine. Da diversi anni abbiamo aderito all’iniziativa ‘Memory box' dell’Associazione ‘Ciao Lapo', con la quale abbiamo condiviso e condivideremo un percorso formativo degli operatori sanitari con particolare attenzione proprio al lutto perinatale. Il ruolo svolto dal personale che è a contatto con i genitori non è per nulla secondario: la coppia deve essere sostenuta e noi abbiamo bisogno di operatori che non abbiano paura di affrontare una situazione emotivamente forte e difficile.

Come dovrebbe comportarsi quindi il personale sanitario in quel momento?

È importante essere presenti e mostrare empatia: usare anche parole di conforto, se le riteniamo opportune, ma in quei momenti è estremamente rilevante la nostra comunicazione non verbale. Il ‘non detto' deve trasmettere alla mamma e al papà la sensazione di non essere soli ad affrontare questa situazione che nemmeno loro si aspettavano potesse accadere. È necessario quindi che si crei un legame di fiducia. È fondamentale perché non solo si tratta di un evento doloroso e devastante per mamma e papà, ma anche perché spesso capita che sia difficile individuare la causa specifica della morte, o almeno non prima dell’esame autoptico. Quindi, saper comunicare in modo chiaro, delicato e sincero diventa ancora più urgente. Le parole che si dicono in quei momenti rimangono impresse, possono ferire come pietre.

Ci sono altre figure professionali che dovrebbero essere coinvolte o alle quali ci si può rivolgere?

Un ultimo tassello che vorrei aggiungere riguarda la figura dello psicologo perinatale che ha competenze specifiche e può aiutare le equipe sia nella formazione sia nel supporto alle famiglie. In questo caso l’apporto multidisciplinare è imprescindibile, irrinunciabile: molte figure ruotano attorno alla mamma che ha subito una perdita perinatale ed è importante che tutte si muovano sulla stessa lunghezza d’onda. È essenziale mettersi in ascolto per capire i bisogni di quella madre e di quella famiglia, perché situazioni simili possono richiedere soluzioni diverse. Ad esempio, un episodio che potrebbe verificarsi è l’arrivo della montata lattea. Una madre potrà scegliere di inibire la lattazione, un’altra di mantenerla e donare il suo latte a una Banca del latte. Ogni scelta consapevole va rispettata ed è questa la parte più difficile per noi operatori: non scegliere per gli altri, ma renderli consapevoli delle proprie scelte. Come si può ben capire, gli aspetti sono tanti e sempre diversi, quindi un apporto multidisciplinare è davvero irrinunciabile perché si possa agire al meglio sulla singola storia e su quel vissuto.

Fonti| ISS, ISS Salute, Unicef 

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