Nel parco giochi inclusivo con Sirio, Adele, Orlando, Luca e Samuele: dove le barriere si superano divertendosi tutti insieme

Per la Giornata internazionale dedicata alle persone con disabilità abbiamo fatto un viaggio particolare. Abbiamo immaginato di esplorare un parco giochi inclusivo, dove trovano spazio strutture e costruzioni a misura di bambini in carrozzina, tetraplegici, ipovedenti e affetti da qualsiasi altro tipo di disabilità, e non solo.
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Kevin Ben Alì Zinati 3 Dicembre 2020
* ultima modifica il 15/02/2021
In collaborazione con la Prof.ssa Anna Ogliari Psicologa clinica esperta in età evolutiva e professore associato di Psicologia Clinica all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano

Questo non è un pezzo qualunque e il luogo in cui ti sto portando non è un luogo qualunque.

A volte imbroglio la mia ritualità quotidiana e ripercorro le strade al contrario. Per andare al lavoro, al supermercato o alla pista ciclabile e tornare indietro ho sempre utilizzato due percorsi distinti, anche a costo di aggiungere qualche minuto al mio già perenne ritardo.

Capita però che inverta le due strade. Così quella che era la via d’andata diventa quella del ritorno e quella che sapevo mi avrebbe riportato a casa si trasforma nella prima scelta con cui risponde il cervello quando, dalla sinapsi, arriva l’impulso “devo andare lì”Viaggiare all’inverso, in auto o a piedi, ha i suoi lati positivi. Fa sembrare le solite strade dei percorsi mai battuti prima e ripesca in me quel brivido di novità che prova un turista nella grande metropoli, quando con lo sguardo indaga un mondo uguale ma diverso.

Oggi è una di quelle giornate. Il sole si fa largo tra le nuvole, nell’aria c’è ancora il profumo della pioggia di ieri e camminando sulla strada che in altre occasioni sarebbe stata quella della sera, finisco in un parco. Ci capito senza accorgermene, è sbucato all’improvviso. Mi avvicino a un pilone di metallo ricoperto di foglie ritagliate nel cartoncino verde, origami di farfalle e altri animali dalle geometrie buffe. Il cartello appeso recita “Parco Giochi Inclusivo”.

Nel castello 

Mentre cerco di capire in che luogo mi trovo, alle mie spalle s’inseguono schiamazzi. Sotto un tiglio dal tronco largo c’è una struttura che assomiglia a un castello, ha un’entrata, un’uscita e un timone da un lato e mi colpisce perché è una costruzione maestosa e spaziosa. I bambini al suo interno paiono miniature.

È il gioco preferito di Sirio. Mi raggiunge una voce squillante, decisa, e le parole arrivano veloci. Valentina ha lo sguardo fisso verso il figlio e sotto la frangia lunga c’è un mezzo sorriso. Mi incuriosisce, così comincio a osservare Sirio che combatte con un drago sputafuoco, o forse contro dei testardissimi soldati.

Valentina ha voglia di parlare. Mi racconta che a Sirio piacciono i giochi che danno velocità come le piste dove si corre con la carrozzina e che adora quel senso di pericolo che viene dall’altezza dell’altalena. “Ma quando è nel castello, vedo un bambino che vuole conquistare il sorriso degli altri e che vuole far parte del gioco e del mondo”.

Indica la sedia con le ruote grandi come quelle di una carrozza e annuisco. Poi le confesso che non conoscevo l’esistenza di questo parco ed evitando di spiegarle la dietrologia del ragionamento con cui sono arrivato fin qui, le chiedo se lei e Sirio lo frequentano da molto. “I parchi inclusivi sono stati una scoperta, e allo stesso tempo una conquista. Quelli però che inclusivi lo sono per davvero” precisa.

Le chiedo cosa ha dovuto superare perché oggi debba definire il parco come una conquista. Una parola che suona strana associata a un parco giochi. Temo di essere stato troppo invadente.

Valentina, però, ha un’aura calda e accogliente che calamita le mie domande. “I bambini disabili, come tutti i bambini, vogliono stare in mezzo alle voci di chi ride, ai colori, al caos che li attende fuori dalle loro camerette. Sirio è un tipo curioso, con la sua carrozzina si spingeva verso giochi che, però, erano sempre troppo alti e non si trovavano all'altezza giusta”.

Sirio è nato molto prematuro e dopo 8 giorni che l’aveva portato a casa ha avuto quella che si chiama «morte in culla». Valentina spiega che è rimasto senza ossigeno per venti minuti. “Ha subìto una paralisi cerebrale e una tetraparesi spastica”. Da allora è disfagico e non deglutisce, mangia attraverso la Peg e ha un’insufficienza respiratoria cronica. Oggi ha 7 anni e vive su una carrozzina anche se è in grado di muoversi e deambulare.

Sirio nel "suo" castello

“Quando entrava al parco, poi, era come se fosse arrivato un alieno, calava un silenzio indimenticabile”. Mi spiega che i più piccoli si avvicinavano un po’ incuriositi e spaventati, i genitori, invece, erano quelli che più spesso si imbarazzavano e per pudore trascinavano via i propri figli. Nel parchetto tutto è amplificato e un oggetto come l’aspiratore della tracheostomia può far paura. Per fortuna che c’era lui”.

Valentina lo indica con il braccio teso e l’indice dritto. Punta uno dei bambini che entra ed esce dal castello, fa lo slalom tra il disco rotante e la giostra girasole poco più avanti e si avvinghia alla carrozzina di Sirio, spingendolo in mezzo agli altri. È il fratello di Sirio, Nilo, di tre anni più grande.

“Era lui che ci introduceva ai bimbi, che spiegava loro cosa avesse suo fratello e come respirava e tutti si avvicinavano tra le risate, trascinando anche i genitori. Una volta oltrepassata la soglia del parco, Valentina dice che sono stati i bambini ad accoglierli e dare loro il benvenuto. Secondo lei, il segreto sta nella loro naturale curiosità.

“Alcuni bimbi del parco hanno affrontato la disabilità di Sirio come se fosse un gioco. Una volta, mentre armeggiavo con siringa e sonda per far bere Sirio, una bambina ci ha raccontato tutta seria che conosceva quel tubicino perché anche lei, quando era più piccola, non era capace di bere da sola”. Valentina è ipnotizzata e non distoglie lo sguardo dal castello. Nemmeno quando mi rivela che ha imparato a raccontare la disabilità dentro al parco giochi.

In volo con il disco rotante 

I bambini sono così, fanno domande che spesso appaiono dure ma ti rendi conto in fretta che basta spiegare e loro capiscono. Si affacciano alle stranezze della vita senza filtri sugli occhi, nelle loro menti c’è una lavagna grande e vuota con tanti gessi colorati e un panno per cancellare e riscrivere e cancellare ancora. E da loro possono imparare anche i grandi.

Sto per chiedere a Valentina se sa da quanto tempo esiste questo parco, ma vengo attirato da un fischio alla mia sinistra. È un suono acuto e sento che si avvicina e si allontana a intervalli regolari, sfiora l'orecchio per poi sparire lentamente dietro agli alberi in fondo al parco, tornando infine a me formando un cerchio morbido.

Valentina ha imparato a raccontare la disabilità dentro al parco giochi

Aspetto che faccia di nuovo tappa al timpano, poi come un passeggero sul treno, decido di seguire il suo viaggio. Lo sguardo ricade così sul disco rotante attorno a cui correva Nilo. Lì sopra un bambino rotea a destra e a sinistra e sulla testa indossa un cappellino a punta fatto di carta colorata.

Abbozzo un sorriso e sto per voltarmi di nuovo verso Valentina e Sirio quando si avvicina una donna con voluminosi ricci biondi. Strizza gli occhi quando mi guarda. “Oggi Orlando compie sette anni e tra poco andremo a casa ad aprire i regali”.

Orlando non vuole scendere dal disco rotante

La donna dice di chiamarsi Beatrice e poi, ridendo e mimando un "no" con il capo, racconta che Orlando si è perdutamente innamorato del disco rotante la prima volta che ci è salito, in Inghilterra, e che da allora è il suo gioco preferito.

“L’abbiamo fatto installare anche nel parco inclusivo che abbiamo riqualificato insieme alla mia associazione Tana Libera Tutti. Dice che insieme ad altri genitori hanno raccolto fondi sia dai cittadini privati che da aziende e hanno reso il parco accessibile a tutti, anche nelle parti in cui non c’era nemmeno la pavimentazione in gomma colata.

“Il parco del nostro quartiere era pieno di sassi e accedervi era molto faticoso per tutti e poi, per come era strutturato, Orlando in carrozzina poteva fare davvero poco: la verità è che quel parco, per Orlando, non era affatto divertente. Nelle parole di Beatrice c’è soddisfazione più che dispiacere.

Soprattutto quando racconta che nella sua zona, a Monterotondo, l’associazionismo è molto forte e la rete è stata fondata anche da persone non direttamente coinvolte. E che con i soldi raccolti non hanno creato nuovi parchi, ma hanno riqualificato quelli già esistenti.

La visione di uno spazio da mettere a nuovo scegliendo dove mettere cosa mi fa sentire come un bambino di fronte alla letterina per Babbo Natale. Quando glielo ammetto, Beatrice mi racconta che prima hanno creato un percorso in cemento colorato per poi risistemare diverse aree con giochi inclusivi.

“Abbiamo costruito anche una sabbiera su più livelli e abbiamo lasciato uno spazio verde dove i bambini possono fare dei picnic o divertirsi con i propri giochi portati direttamente da casa. Poi abbiamo installato un’altalena e nell’ultima parte anche una nave dei pirati. Dice che è bellissima, che ci sono la prua e la poppa e anche l’albero centrale e che è rialzata, senza gradini.

A bordo della giostra girasole 

“Anche noi abbiamo fatto così. Con l’associazione Adele and Friends abbiamo voluto portare inclusività e accessibilità all’interno di uno dei parchi gioco di Jesolo, tutto con donazioni e senza aiuto del Comune”.

Massimo ci ha sentiti e interviene dalla giostra girasole di fronte a me e dietro al disco rotante. Ha i capelli corti corti e gli occhiali tondi e tra i suoi tatuaggi noto Woody, il cowboy di Toy Story, e un aquilone rosso disegnati sul braccio destro. In mezzo alla struttura circolare avvolta da sbarre rosse scintillanti, intanto, una bambina di nome Adele, su una carrozzina, e un altro bimbo dai capelli neri fingono di cavalcare un’astronave.

Beatrice prepara Orlando per la festa a casa e mentre si allontana, Massimo la saluta con un sorriso e prende il suo posto accanto a me. “Sì, abbiamo allestito 200 metri quadrati con la gomma colata anti-trauma, abbiamo costruito un percorso a terra, un labirinto per bimbi ipovedenti e anche una giostra girasole come questa”.

Adele e Dante all’inaugurazione del "loro" parco. Ovviamente sulla giostra girasole

La giostra, spiega, può ospitare contemporaneamente una carrozzina e due bambini normodotati. “Questa è inclusività, l’accessibilità invece l’abbiamo raggiunta eliminando tutte le barriere architettoniche. La storia che racconta Massimo assomiglia a quella di Beatrice.

Anche i giochi nel parco vicino a casa loro non permettevano l’accesso a tutti, sebbene fossero considerati inclusivi, e siccome Adele è affetta da atrofia muscolare spinale di tipo 2, doveva sempre essere spostata dalla carrozzina alla cesta da lui o dalla moglie Giorgia.

Così il parco se lo sono costruiti loro, tanti genitori insieme. E uno dei segreti che animano il parco, si emoziona Massimo, è la consapevolezza. “Con mia moglie Giorgia fin da subito abbiamo scelto di affrontare la malattia tutti e tre insieme, a viso aperto, mettendo sempre le carte sul tavolo e senza mai dire una bugia ad Adele.

Secondo il papà di Adele la consapevolezza è un mantello che avvolge tutti in un abbraccio caldo. “Molti genitori qui spingono i propri figli a giocare con Adele, questo l’aiuta e dà consapevolezza a lei, ai loro figli e anche a noi”.

Adele intanto continua a vorticare e ridere. Con lei sulla giostra girasole c’è Dante, un piccolo uomo con una montagna di capelli. Massimo mi spiega che è il migliore amico di Adele e che adorano quel gioco. “All’inaugurazione del nostro parco non scendevano più. Vederli insieme è uno spasso. Dante è iperattivo e Adele lo riproverà perché lei certe cose non le può fare”.

Veloce sull’altalena orsetto

I parchi inclusivi in Italia esistono da poco tempo e ad oggi non c’è una vera e propria legge che chiarisca cos’è un parco inclusivo e come dovrebbe strutturarsi. Si parla di spazi senza barriere architettoniche ma un cittadino medio che passeggia per la città non si accorge di quante ancora ce ne siano. La sensazione è che il concetto di inclusività sia interpretato a libero piacimento.

Massimo fa un giro attorno alla giostra per assicurarsi che Adele e Dante vogliano dare avvio a un’altra avventura e il filo dei pensieri segue l’avanti e indietro dell’altalena orsetto posizionata poco più in là, sulla sinistra.

Di ciò che c’è dentro al seggiolino mi colpiscono prima di tutto le strisce bianche e nere della maglietta da cui, prepotente, spunta un codino a forma di chignon. Mi avvicino per sbirciare il nome scritto sopra il numero “sette” incollato dietro la maglia e non leggo “Ronaldo”, ma Luca.

Luca e sua mamma Emanuela sono altri abitanti di questo parco inclusivo sbucato dal nulla sulla mia strada e del quale, ora, comincio a sentirmi parte un po’ anch’io. Allora prendo coraggio e questa volta parlo per primo. Quando Emanuela sorride, sul suo volto si formano due fossette ai lati della bocca.

Le chiedo perché, secondo lei, nel nostro Paese siamo ancora così poveri di parchi inclusivi. Emanuela ha le idee chiare. L’inclusione non rientra tra i criteri della progettazione delle aree gioco. Quando i comuni o i centri commerciali decidono di crearne una non ragionano su dove posizionare l’altalena. Si apre il catalogo e si sceglie cosa mettere e dove in base al costo.

Le sue parole mi trafiggono, ormai però ho preso il largo e le racconto che oggi è il giorno in cui percorro al contrario le solite strade, che sono accidentalmente finito in questo parco, che comunque non mi ero mai accorto fosse qui e che le istituzioni, insomma, dovrebbero coinvolgere di più i cittadini perché non si può scoprire un parco inclusivo così, per caso.

Al mio crescente disappunto Emanuela contrappone una calma propositiva, continua a sorridere e spiega che la posizione dei parchi giochi non è casuale. O meglio, non dovrebbe esserlo. “Un parco giochi, e uno inclusivo ancora di più, deve nascere in una zona centrale della città, accessibile e già frequentata da bambini e famiglie. Non deve trasformarsi un luogo di periferia ma un parco per la comunità.

Secondo Emanuela inclusivo è un luogo che include, che attira a sé bambini e genitori. Non è necessario che sia il parco perfetto e soprattutto non deve diventare il parco dei bimbi disabili, ma il parco di tutti.

Impugna lo smartphone e con il pollice scorre tra le foto. Accanto a quelle di Luca, mi mostra le fotografie di costruzioni colorate, corde e scivoli lunghi e gialli. Mi spiega che è il parco inclusivo realizzato con l’aiuto di un’amica e due associazioni locali a Malnate, il primo in provincia di Varese.

“Luca soffre di tetraparesi spastica e non potevo portarlo al parco, in tutta la provincia poi esisteva soltanto un’altalena inclusiva, a decine di chilometri da casa”. Così hanno osservato e studiato altri parchi, hanno dato ascolto a tutto il mondo di abilità che ci circonda e hanno dato vita a un parco modello che ha ispirato anche gli altri comuni.

L’inclusione non rientra tra i criteri della progettazione delle aree gioco

Emanuela, mamma di Luca

Le foto scorrono sullo schermo del telefono, Luca intanto continua a oscillare sull'altalena. Si aggrappa al ferro davanti del seggiolino e come una cloche fa avanti e indietro neanche fosse un pilota d’aerei.

È la sua altalena, lo conferma mamma Emanuela. “Un giorno mia nipote mi raccontò che accanto al suo campo da calcio, a Novara, c’era un parco che poteva essere adatto anche a Luca. Con mio marito facemmo un giro e c’era quell’altalena orsetto che non scorderò mai, molto larga e contenitiva, davvero perfetta per Luca. Lo infilammo nel seggiolino, gli allacciamo le cinture di sicurezza a cinque punti e alla prima spinta Luca ci guardò e con gli occhi sgranati urlò «vado sull’altalena da solo!».

Emanuela ha ragione: chi lo fa scendere più, adesso?

Sporchi e zuppi con il gioco d’acqua 

Lei non ci prova nemmeno, infila di nuovo il telefono in tasca e osserva quell’ipnotico avanti e indietro. Sullo sfondo gli alberi si mescolano al tessuto urbano e ogni tanto qualche schizzo d’acqua proveniente da sinistra rischia di colpirgli la punta delle scarpe.

Vengono dal gioco d’acqua, dove Samuele sta scherzando insieme ad altri bambini. Sono tutti zuppi e sporchi di terra e non voglio immaginare il gran da fare delle loro mamme. “Spesso i genitori si lamentano e non vogliono che i propri figli si bagnino rischiando di rovinare i vestiti. Per me, invece, è un divertimento in più”. 

Sono felice di sentire le parole di Claudia, la mamma di Samuele. Penso che le porterò nella mia arringa difensiva al cospetto della mia di madre, che di vestiti sporchi di terra, erba e fango ne sa qualcosa.

Con il gioco d’acqua, Samuele si diverte un mondo

Con Claudia, che ormai è un’alleata, restiamo in piedi in silenzio per qualche minuto, contemplando la scena di fronte a noi prima di sederci sulla panchina, pochi passi più in là, e cominciare a riflettere su cosa significhi davvero inclusività.

Secondo lei è una definizione giovane, coniata meno di quindici anni fa e nata nell’assenza. Nel senso che a livello normativo un parco giochi è uno spazio pubblico che dovrebbe essere fruibile a tutti eppure così non era e per questo il concetto di «inclusivo» è nato per distinguere un parco adatto anche ai disabili dall’idea «classica e vecchia» di area giochi.

Sebbene oggi integrazione e diversità dovrebbero essere concetti consolidati, di parchi adeguati alle esigenze di bambini in carrozzina, tetraplegici o ipovedenti non ce ne sono tanti. Claudia ha fondato Parchi Per Tutti, un'associazione che dal 2012 si occupa delle aree gioco inclusive. Ha stimato che in Italia sono più o meno 73 e se facessimo poi il conto dei parchi potenzialmente fruibili da tutti i bambini arriveremmo a poco meno di 380.

“Capita che in un parco esistente venga installata una giostra girevole raso terra con un posto anche per la carrozzina oppure che in uno nuovo si scelgano giochi di arrampicata, scivoli con scalette e teleferiche e che solo in un angolino venga installato anche un gioco accessibile e fruibile” dice Claudia, sottolineando anche che le famose altalene inclusive, con una pedana dove può posizionarsi un bambino su una carrozzina manuale o anche elettrica, in Italia non arrivano a 500.

“Questi parchi mancano anche perché il gioco troppo spesso è considerato superfluo, figuriamoci quello per i bambini disabili. Prima vengono il diritto alla salute e dell’andare a scuola”. Nelle sue parole c’è la stessa desolazione che sento quando mi racconta di quella volta in cui un’amica sentenziò che per i bimbi disabili il gioco è considerato solo ai fini della terapia, come un’attività necessaria per acquisire competenze, senza divertimento.

In Italia ci sono 73 parchi giochi inclusivi, 376 parchi potenzialmente fruibili da tutti i bambini e 461 altalene per piccoli in carrozzina

Lo si vede anche quando costruiscono i parchi. In sostanza, per Claudia, tutti ne parlano ma pochi sanno cosa significhi davvero inclusione. E me lo spiega spingendomi a immaginare un parco giochi. “Che cosa vedi?” mi chiede. Sono ancora concentrato sul gioco d’acqua di Samuele e non faccio in tempo a formulare la riposta che l’ha già fatto lei per me.

“Strutture immerse nell’erba. Peccato che l’erba non sia affatto un terreno facilmente accessibile se sei in carrozzina. L’inclusività non si rivolge solo ai bambini disabili ma anche all’anziano che striscia i piedi a terra con il deambulatore e sull’erba fa fatica a camminare”. Per Claudia inclusività è sinonimo di collettività.

Il girotondo 

Nel frattempo che Claudia tenta di asciugare in qualche modo Samuele, mi allontano dalla panchina. Nel girotondo tra i giochi del parco il punto di riferimento è rimasto il pilone di metallo con gli origami di cartoncino, così mi ci dirigo cercando l’uscita.

Qualche passo più avanti, Orlando fa ciao con la mano spinto sulla carrozzina da mamma Beatrice. Il pilota Luca è ancora sulla sua altalena mentre Adele e Dante ora prendono fiato dopo l’ultimo giro sul disco rotante.

Mentre sfilano i loro volti, ripenso alla frase dell’amica di Claudia e all’idea che molti genitori hanno del gioco: un’attività meccanica e quasi fredda, necessaria solamente al raggiungimento di un obiettivo.

Un parco giochi inclusivo è fatto più o meno così. Credit foto: Parchi Per Tutti

Accanto a me passeggia una donna, guarda tutti i bambini ma senza soffermarsi su uno in particolare. L’avvicino e le chiedo su quale gioco si stia divertendo suo figlio ma mi spiega che i suoi, oggi, sono rimasti a casa. Dice di chiamarsi Anna Ogliari e che oltre ad essere una psicologa clinica esperta in età evolutiva è anche professore associato di Psicologia Clinica all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.

Riverso anche su di lei le mie preoccupazioni. “Capisco che possa essere difficile per alcuni genitori pensare al gioco come a un’attività finalizzata al solo divertimento. Siamo un po’ tutti figli del nostro tempo, e quello in cui viviamo oggi è un momento in cui la performance spesso prevale sull’essere contenti. Tutto questo, secondo la professoressa Ogliari, a volte viene amplificato nella disabilità. Come se vincesse l’idea di raggiungere l’eccellenza e non quella di fare qualcosa per noi stessi.

Il gioco tuttavia è decisivo nella crescita di un bambino, spiega la professoressa. "Il gioco ha un ruolo fondamentale sia per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo e, quindi, tutto ciò che concerne l’aspetto del linguaggio e  della percezione, sia per quanto riguarda poi tutti gli aspetti legati allo sviluppo motorio".

Oggi viviamo in un tempo in cui la performance spesso prevale sull’essere contenti

Prof.ssa Anna Ogliari, psicologa clinica esperta in età evolutiva Università Vita-Salute San Raffaele Milano

Non dimentichiamoci l’immaginazione. Lo dico piano, ripensando alle battaglie di Sirio contro i draghi o le avventura sull’astronave di Adele e Dante. “Basti pensare alle opportunità di gioco simbolico, durante le quali  il bambino utilizza strumenti di gioco come il «faccio finta che», immaginando di essere altro o il «mettersi nei panni di», che portano anche allo sviluppo di alcune abilità empatiche.

Eppure, a volte il gioco rischia di diventare uno strumento di lavoro che si dimentica di tutta la componente di divertimento. "Come adulti, uno dei pochi modi che abbiamo per lavorare con i bambini in termini psicoterapici o psicomotori è il gioco orientato, talvolta, al raggiungimento di una tappa e al superamento di alcune difficoltà".

La professoressa mi spiega che seppure sia importante sollecitare le corde del dovere, resta però fondamentale sviluppare le capacità emotive del bambino portandolo a svolgere un’attività con il solo scopo di provare divertimento. "Questo approccio al gioco stimola una maggiore fiducia in se stessi". 

Il punto è che la fatica che mettiamo nel fare qualcosa, a prescindere dalla natura dell’impedimento, non deve essere qualcosa di deplorevole ma deve diventare un’occasione per concentrarci ancora di più su ciò che ci piace fare.

Il gioco serve allo sviluppo cognitivo e del linguaggio, dell’intelligenza e allo sviluppo motorio

Prof.ssa Anna Ogliari, psicologa clinica esperta in età evolutiva Università Vita-Salute San Raffaele Milano

Specialmente se fatto in gruppo. Mentre passeggiamo verso l’uscita, mi spiega che il gioco all’interno di un gruppo assume la forma dell’interazione sociale e che qui dentro i piccoli scoprono le fatiche e il piacere di fare attività condivise e che l’adulto, guidando l’interazione, non dirà al bambino che il limite non c’è ma, accogliendolo, lo aiuterà ad accettarlo.

Dovremmo permettere che bambini disabili e normodotati giochino insieme sotto la guida di qualcuno in grado di guidare lo sviluppo e la scoperta di aspetti anche dolorosi. Di riflesso, il gioco è un vantaggio anche per i bambini normodotati che capiscono come i limiti, intesi come difficoltà, possono essere possibilità di crescita. Questo, per la professoressa Ogliari, significa inclusività.

Le solite strade all’incontrario 

La professoressa Ogliari annuncia che resterà nel parco ancora qualche minuto. Anche lei cammina e osserva Sirio mentre gioca sul castello, Orlando che manda un arrivederci al disco rotante, Dante e Adele che risalgono sulla giostra girasole e Samuele che tenta di bagnare le scarpe di Luca, ancora avvinghiato all’altalena orsetto. Anche lei, come me, ormai è un’abitante del parco.

Il mio girotondo è finito, la saluto e all’uscita del parco prendo a destra, ritornando sulla solita strada presa però al contrario. Mentre cammino ripenso al parco inclusivo tutto particolare in cui queste mamme, questi papà e i loro figli hanno voluto portarmi.

Mi sono divertito. Quello dei parchi gioco inclusivi è un mondo ampissimo e sfaccettato, ricco di stranezze e particolarità che ti si appiccano addosso. È un mondo che ha voglia di raccontarsi e, forse, di farsi ascoltare. Allo stesso tempo, appare chiaro che si tratta di un pianeta ancora tutto da conoscere e scoprire. Valentina, Beatrice, Massimo, Emanuela e Claudia in parte me l’hanno svelato, aprendo una finestra sulle sue bellezze e sulle difficoltà di chi lo vive quotidianamente.

Penso di aver afferrato il suo più profondo segreto, si riassume in una parola: insieme. Insieme come i bambini disabili che giocano con i normodotati, insieme come i genitori che in prima linea indagano, progettano e inaugurano spazi inclusivi e davvero a misura di tutti i bambini.

Può sembrare che il loro impegno attivo nasca da una mancanza e dall’esigenza di porre rimedio a un problema cui altri non pensano, e in parte è vero. Tuttavia nelle loro parole non vibrano sentimenti di rabbia. La delusione e il senso di abbandono sono rimasti rumori di sottofondo, schiacciati dalle voci del parco, dei suoi giochi e dei suoi abitanti.

Ciò che li spinge e li guida è la voglia, semplice ma profonda, di dare ai loro bambini e agli altri un luogo dove vigano le leggi del gioco del divertimento, con la speranza che possa rappresentare l’anticamera del mondo che li aspetta fuori.

Tutto questo l'ho scoperto ascoltando storie ed emozioni di genitori che vivono la disabilità dei loro figli tutti i giorni, dentro al parco, a scuola, in casa, sempre. Ho immaginato di passare con loro una giornata in un parco inclusivo, a cui si arriva semplicemente cambiando la routine quotidiana di un sentiero ordinario. Che, se guardato al contrario, può diventare un percorso stra-ordinario.

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