Niente più esami complessi e invasivi: ora il rischio rigetto di un trapianto di cuore si scopre con un semplice prelievo di sangue

Messa a punto da un gruppo di ricercatori della Città della Salute di Torino, la nuova metodica manda “in pensione” la biopsia endomiocardica puntando tutto sull’analisi dei frammenti di Dna del donatore all’interno del sangue del paziente ricevente: se le concentrazioni sono alte è sintomo di una risposta immunitaria al nuovo organo.
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Kevin Ben Alì Zinati 12 Luglio 2021
* ultima modifica il 14/07/2021

“Ha funzionato?”. È la prima domanda dei famigliari, appena il padre o il fratello escono dalla sala operatoria, e ovviamente dei pazienti, appena aprono gli occhi subito dopo la conclusione di un trapianto di cuore.

Tra le varie complicanze nascoste dietro un intervento così delicato sai bene che c’è il rischio di rigetto, ovvero la risposta immunitaria del ricevente che riconosce come estraneo il nuovo organo.

Quando si parla di un trapianto di cuore, purtroppo, è una situazione molto frequente cui va incontro almeno un paziente su tre nel primo anno post intervento.

Oggi ci sono diversi modi per provare a prendere per tempo questa possibilità. Il più utilizzato è la cosiddetta “biopsia endomiocardica”.

Devi immaginare una sonda inserita nei vasi sanguigni che arrivano al cuore per raccogliere un frammento dell’organo, esaminarlo e indagare la presenza di eventuali alterazioni tipiche del rigetto.

Puoi capire però come questa operazione, tuttavia, non solo debba essere ripetuta intervalli regolari dopo il trapianto ma sia anche una pratica invasiva, complessa e ricca di rischi.

Per questo l’alternativa proposta da uno studio della Città della Salute di Torino e pubblicato sul Journal of Heart and Lung Transplantation potrebbe ridisegnare il quadro che ti ho appena descritto.

I ricercatori torinese hanno messo a punto, infatti, una metodica nuova, più semplice, veloce e assolutamente meno invasiva per riconoscere il rigetto.

Tutto si basa sull’analisi del DNA del donatore che circola libero all’interno del sangue del paziente che ha ricevuto il nuovo cuore.

Il DNA, infatti, non si trova solo dentro le cellule ma può “invadere” anche nel sangue sotto forma di piccoli frammenti.

Questa metodica è già stata applicata per esempio nella diagnosi prenatale non invasiva di malattie genetiche fetali oppure anche in campo oncologico con l’analisi del DNA circolante originato dalle cellule tumorali.

Trasportando questo approccio al trapianto di cuore, i ricercatori hanno dimostrato che l'aumento del DNA derivato dall’organo trapiantato all’interno del sangue del ricevente è un biomarcatore specifico di rigetto.

Maggiori concentrazioni di DNA sono dunque correlate al danno delle cellule del trapianto, provocato dalla risposta immunitaria del rigetto.

Fonte | "HLA-DRB1 mismatch-based identification of donor-derived cell free DNA (dd-cfDNA) as a marker of rejection in heart transplant recipients: A single-institution pilot study" pubblicata il 14 maggio 2021 sul Journal of Heart and Lung Transplantation

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