“Nome di battaglia LILA”: un documentario racconta la storia della prima associazione italiana per la lotta all’AIDS

“Lo stigma sociale esiste ancora – ci ha ricordato Massimo Oldrini, presidente della LILA, – in ambito lavorativo, sanitario e persino di accesso al credito. Ci sono ancora persone che vengono allontanate dalla famiglia di origine perché sieropositive”. Insomma, dopo tutte le battaglie che l’associazione ha guidato, resta tanto lavoro da fare. E questo film, che uscirà il 24 novembre, lo racconta bene.
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Giulia Dallagiovanna 17 Novembre 2020
* ultima modifica il 17/11/2020

"Una malattia sconosciuta proviene dagli Stati Uniti, si chiama AIDS". Era il 7 giugno del 1983 e della Sindrome da immunodeficienza acquisita si parlava da pochi anni. Al telegiornale Studio Aperto veniva infatti annunciata così – scandendo per bene le singole lettere – l'epidemia che in Italia faceva registrare i primi due casi. Intanto, si navigava al buio: non si conoscevano i meccanismi di replicazione del virus dell'Hiv e nemmeno come si potesse trasmettere.

"Ignoranza e paura sono diventate terreno fertile per stigma sociale e discriminazione – ci racconta Massimo Oldrini, presidente nazionale della LILA (Lega italiana per la lotta all'Aids). – Le cronache riportavano situazioni drammatiche di persone allontanate dai luoghi di lavoro solo perché ritenute possibili fonti di contagio, anche se non erano sieropositive. C'erano addirittura bambini che non potevano entrare a scuola perché si sapeva che i genitori erano tossicodipendenti". Ed è proprio in questo contesto che nasce una delle prime associazioni italiane che si occupa di sensibilizzare e informare sulla prevenzione del contagio. E oggi il film documentario "Nome di battaglia LILA" ne ripercorre i decenni di lotte a sostegno dei diritti delle persone con Hiv.

Uscirà il 24 novembre, ma noi di Ohga abbiamo potuto vederlo in anteprima e ne abbiamo parlato proprio con Massimo Oldrini. Era il 1987 e la situazione era drammatica, non solo dal punto di vista sanitario, ma anche sociale. L'Aids veniva considerata la malattia di omosessuali e tossicodipendenti, aumentando l'emarginazione di queste due comunità. E intanto le istituzioni non sembravano in grado di fornire informazioni e risposte. "Basti pensare che un ministro della Salute si era permesso di scrivere a tutti i cittadini dicendo che se si rischiava di contrarre l'Hiv solo se si avevano rapporti al di fuori della coppia". Il risultato furono paura e smarrimento, anche perché l'Aids è stata, per diversi anni, la prima causa di morte dei giovani italiani. Provocava più decessi persino degli incidenti stradali.

Per diversi anni l'AIDS è stata la prima causa di morte tra i ragazzi italiani

La necessità di avere un punto di riferimento, una guida, o anche solo un aiuto era forte. Così avviene qualcosa di molto importante, perché persone già attive per la difesa dei diritti in altri contesti, si uniscono e danno forma alla LILA. C'erano ad esempio Pia Covre, che si batteva per la tutela delle prostitute, e Don Luigi Ciotti, già impegnato nelle comunità per tossicodipendenti. E poi Franco Grillini, presidente di Arcigay, e Vanni Piccolo, tra i fondatori del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, ma anche persone provenienti dal mondo dei sindacati che vedevano violati i diritti dei lavoratori. Insomma il messaggio era chiaro: l'Hiv è un problema che riguarda tutti.

"Questa è una delle caratteristiche principali della nostra organizzazione: unire mondi all'apparenza distanti tra loro per farli comunicare, interagire e trovare risposte a una serie di bisogni sociali. Si potrebbe pensare, ad esempio, che universo cattolico e comunità LGBIT non possano collaborare. Ma come si vede anche nel documentario, esiste un universo cattolico molto solidale. In anni così drammatici, gli intenti si sono saldati al punto che il primo presidente della LILA fu proprio Don Ciotti".

Tra le battaglie più importanti portate avanti dall'associazione c'è sicuramente quella per l'accesso gratuito ai farmaci. Si trattava, a tutti gli effetti, di lottare per la vita e la salvezza di persone che avevano contratto una malattia in grado di portare alla morte nel giro di massimo cinque anni. Ma il 1996 sarà da tutti ricordato come l'anno della svolta. All'undicesima Conferenza Internazionale dell'AIDS, che si teneva a Vancouver, furono presentati alcuni studi davvero rivoluzionari: tramite un cocktail di farmaci alcuni pazienti che sembrano essere giunti ormai alla fine della loro vita, recuperavano le proprie difese immunitarie e iniziavano a stare meglio. La viremia veniva tenuta sotto controllo, al punto che la persona non era nemmeno più infettiva. Erano gli inibitori di proteasi, la prima terapia antiretrovirale che contribuirà a trasformare l'Hiv da virus mortale a malattia cronica. Ed era finalmente arrivata, sì, ma non per tutti.

"Le due aziende che li producevano reputavano il nostro Paese come una nazione con scarsa capacità di solvenza – ricorda Oldrini, – quindi non in grado di pagare medicinali tanto costosi. A differenza di altri stati europei, da noi non era quasi possibile somministrarli tramite l'uso compassionevole, un meccanismo che viene attivato quando un farmaco si dimostra particolarmente efficace e non c'è nessun altro prodotto in grado di contrastare quella specifica patologia grave. Ricevemmo circa un ventesimo delle dosi che erano state concesse a Francia, Germania o Inghilterra. Io ho avuto l'onore di partecipare all'occupazione della sede di Farmindustria e di essere una delle persone che si sono incatenate per chiede che tutti potessero avere accesso alle cure. Nell'arco della stessa giornata furono avviate delle trattative internazionali che portarono allo sblocco della situazione: da 300 dosi, si arrivò a 3mila. Nel concreto, significava 3mila vite umane salvate".

Esiste una lunga lista di benefici e di realtà che tu oggi darai per scontati. Invece sono vittorie, ottenute attraverso proteste, lotte, fatica. E sono proprio queste battaglie che vengono raccontate nel documentario che sta per uscire (e del quale troverai il link su questa pagina, una volta che sarà online). L'attivismo per combattere i problemi di ieri e di oggi: "Lo stigma sociale è rimasto. Ci sono ancora persone costrette a nascondere la propria condizione di sieropositività sul luogo di lavoro e di conseguenza incontrano problemi a richiedere permessi per le visite periodiche e tutti gli esami a cui devono sottoporsi. La discriminazione continua ad esistere anche in ambito sanitario o di accesso al credito e alle assicurazioni. E persino sieropositivi che vengono allontanati dalla famiglia di origine perché non sono più ben accetti", ricorda Oldrini.

Il lavoro dunque non è finito. Il pregiudizio lo si combatte soprattutto attraverso l'informazione e la conoscenza. Ecco perché questo film, così come l'attività della Lila e di altre associazioni impegnate su questo fronte, sono così importanti.

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