Gli sport di contatto e le difficoltà di riconoscere le commozioni cerebrali, la dott.ssa Di Pietro: “Ora c’è un test salivare per la diagnosi”

Il team della ricercatrice italiana presso l’Università di Birmingham ha messo a punto un test che riconosce la presenza di una “concussion” con il 94% di precisione. Il progetto ha avuto il supporto della Rugby Football Union e per ora è destinato ai giocatori ma l’obiettivo a lungo periodo è metterlo a disposizione anche dei genitori.
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Kevin Ben Alì Zinati 7 Aprile 2021
* ultima modifica il 14/05/2021
In collaborazione con la Dott.ssa Valentina Di Pietro Neuroscienziata molecolare presso l'Università di Birmingham

Dico rugby e subito pensi alla palla ovale che rotea da una parte all’altra del prato verde sempre all’indietro e mai in avanti, agli altissimi e fini pali sopra la zona di meta, alla haka neozelandese e, ovviamente, alla spettacolare e tattica mischia.

È più o meno la stessa sequenza di immagini che, come dei pop-up, si accende nella mente della dottoressa Valentia Di Pietro quando riflette sull’unicità di uno degli sport più antichi e affascinanti del mondo. Con una differenza.

La neuroscienziata molecolare dell’Università di Birmingham sa anche che il rugby, come altri sport, porta con sé il rischio, per i giocatori, di incorrere in un trauma cranico.

In fondo, è nella natura del gioco: come fai a frenare la corsa di un avversario lanciato a mille all’ora verso la meta? Devi bloccarlo, in qualunque modo. Non c’è alternativa.

Ogni placcaggio può esporre i giocatori a botte, colpi e contusioni che in qualche caso potrebbero anche trasformarsi in lievi forme di commozione cerebrale. Il problema però è che ad oggi non esiste un metodo oggettivo per riconoscere una commozione.

Puoi fare un’analisi dei sintomi ma il disorientamento e il vomito, che sono le principali avvisaglie mandate dal corpo in caso di attacco al cervello, non sempre appaiono immediatamente dopo il trauma.

Ad oggi non esiste un metodo oggettivo per riconoscere una commozione cerebrale

Può capitare insomma di non accorgersene. Il medico della squadra può guardare verso l’allenatore, indicare il giocatore ancora un po’ intontito, alzare il pollice e dare l’ok per il suo rientro nella battaglia. Un altro schema, un’altra botta e il cervello resta in pericolo.

La dott.ssa Valentina Di Pietro, neuroscienziata molecolare dell’Università di Birmingham

Secondo la dottoressa Di Pietro, dopo ogni commozione è come se una parte del cervello si fermasse. È un processo molto simile al letargo degli animali: “In questi casi vi è una sorta di riduzione del metabolismo, le cellule risparmiano le energie per affrontare l’inverno e poi si riaccendono. Con una commozione avviene più o meno lo stesso ipometabolismo.

La ricercatrice italiana di stanza in Inghilterra ci ha spiegato che dopo un trauma, diversi parametri metabolici del cervello subiscono una sorta di depressione a causa della quale l’interno della cellula si ferma.

Tutti gli episodi di commozione cerebrale tendono a riassorbirsi da soli, a patto però che al cervello della persona in questione venga dato il tempo per riposare. Una lieve commozione cerebrale si riassorbe dopo un periodo di 2 o 3 settimane restando, semplicemente, «tranquillo».

In caso di commozione, parti del cervello riducono il metabolismo, come il letargo degli animali 

Dott.ssa Valentina Di Pietro, neuroscienziata molecolare presso l'Università di Birmingham

Il discorso è diverso per le persone a rischio, sottoposte a ripetuti traumi lievi e quindi a maggiori rischi legati all’insorgenza di processi di neurodegenerazione precoce. “Penso agli atleti di sport di contatto, come i rugbisti, ma anche ai bambini o i militari: sebbene non vengano colpiti fisicamente, i soldati sono sottoposti alle continue forze d’onda delle esplosioni. Tutti questi traumi provocano movimenti nei tessuti molli come il cervello.

E il susseguirsi di colpi, e quindi di episodi di ipometabolismo, in un cervello già colpito da una depressione metabolica fa sì che il recupero richieda sempre più tempo. Per la dottoressa Di Pietro, il rischio è che “alla fine le cellule cerebrali non riescano a recuperare definitamente la propria attività”. 

Richard Fa’aoso dei Sea Eagles mentre viene assistito dopo aver subito una commozione cerebrale durante un match tra i Sydney Roosters e i Manly Warringah Sea Eagles all’Allianz Stadium il 14 settembre 2013 a Sydney, Australia. Photo Credit: Matt King / Getty Images

Te lo dicevo prima: la sintomatologia non è così specifica e ancora oggi non esistono cure o trattamenti per una lieve commozione cerebrale, l’unica soluzione è il riposo. Individuarlo per tempo, quindi, è tanto complicato quanto determinante.

Ecco perché l’ultimo lavoro della dottoressa Valentina Di Pietro, del collega Antonio Belli e del loro team dell’Università di Birmingham può davvero rivoluzionare tutto ciò che ti ho raccontato fin qui.

I neuroscienziati hanno messo a punto un test che attraverso una semplice ma ingegnosa e innovativa analisi della saliva è in grado di riconoscere con un’efficacia del 94% i casi di lievi traumi cranici cui possono essere vittime gli sportivi.

Una lieve commozione cerebrale si riassorbe dopo un periodo di 2 o 3 settimane restando, semplicemente, a riposo

“Abbiamo trovato una combinazione di molecole in grado di dare una stima molto precisa dei casi di una commozione cerebrale lieve nel cervello” ha spiegato la dottoressa Di Pietro, secondo cui l’alto grado di affidabilità è stato determinato “dal confronto positivo effettuato con le diagnosi dei medici per mezzo di strumenti specialistici”. 

Il punto di partenza dello studio sono state le ricerche, le analisi e le allerte lanciate nei primi anni 2000 dal dottor Bennet Omalu. Neuropatologo di origine nigeriana, fu il primo a scoprire che diversi giocatori di football, dopo una carriera in Nfl, soffrivano di una malattia degenerativa del cervello chiamata encefalopatia cronica traumatica. La causa? I ripetuti colpi subiti alla testa.

Forse il suo nome ti dice poco, ma potresti aver visto e sentito la sua storia in un recentissimo film con Will Smith: «Zona d’ombra» o «Concussion», che nell’inglese della scienza indica proprio la commozione cerebrale.

Il neuropatologo Bennet Omalu è accreditato come colui che, per primo, scoprì l’encefalopatia traumatica cronica in alcuni ex giocatori della NFL. Photo credit: Pete Marovich / Getty Images

Il nome del film è inevitabilmente uscito durante la chiacchierata con la dottoressa Di Pietro, che è d’accordo nel sostenere come la pellicola sia riuscita a mettere in mostra in modo molto accurato ed efficace ciò a cui può andare incontro un atleta di sport di contatto e a rischio come il football o il rugby, se non tutelato: “I continui traumi cranici a distanza di anni potrebbero portare allo sviluppo di malattie come l’Alzheimer, che in una persona normale sopraggiunge in età avanzata. Un atleta potrebbe poi soffrire di frequenti mal di testa, vomito, problemi di memoria e perfino crisi di identità che possono anche sfociare nel suicidio.

Non ho citato il rugby solo perché è uno degli sport di contatto più diffusi e noti al mondo. Non è stato solo un espediente narrativo, insomma. La fortuna e la potenza dello studio coordinato dalla dottoressa Di Pietro sta proprio nel rugby e nella partnership che l’università di Birmingham ha ottenuto con la Rugby Football Union, il più alto livello di competizione inglese.

“Si tratta di un sistema con uno dei migliori metodi diagnostici per le commozioni cerebrali al mondo: ci sono équipe mediche appositamente sui campi per valutare la salute dei giocatori”. Grazie alla collaborazione con la Rfu, oltre 1000 giocatori professionisti del campionato inglese di rugby nella stagione 2017-2018 e 2018-2019 si sono messi a disposizione dello studio.

Le conseguenze? Alzheimer precoce, problemi di memoria e crisi di identità che possono anche portare al suicidio

Dott.ssa Valentina Di Pietro, neuroscienziata molecolare presso l'Università di Birmingham

Dopo aver ricevuto la diagnosi di commozione cerebrale dai loro medici, gli atleti si sottoponevano al test: “Prelevavamo campioni di saliva da cui estrapolavamo il profilo molecolare per identificare un insieme di biomarcatori in grado di riconoscere il caso della commozione cerebrale. E nel 94% dei casi avevamo ragione”. 

La dottoressa Di Pietro ci ha spiegato che il test salivare è molto semplice. Probabilmente conosci già il suo funzionamento, perché è molto simile al tampone per individuare la positività al Covid-19: “Solo che nel nostro caso non è necessario che il tampone arrivi fino alle tonsille, basta invece strofinarlo all’interno della guancia. Lo si chiude poi in una provetta con del liquido reagente, lo si spedisce al laboratorio e nel giro di 24 ore si ha il risultato.

Se segui lo sport lo sai, quello dei traumi cranici è un problema diventato sempre più importante. “Fin dall’inizio è stato difficile farlo riconoscere dalle federazioni sportive ma oggi le evidenze scientifiche sono sempre maggiori e alcune federazioni si mettono a disposizioni e supportano gli studi perché sanno che qualcosa si deve fare”. Gli allarmi lanciati dal dottor Omalu hanno fatto breccia e nel tempo si sono susseguiti tantissimi studi che tengono monitorati gli atleti nell'arco della carriera.

E oggi? Il test per identificare le commozioni cerebrali lievi nei rugbisti è pronto è a fare il suo ingresso sui campi della Rfu. Ma non solo, perché anche altri sport potrebbero esporre a pericolosi traumi cranici: “Al momento per esempio stiamo lavorando sul cricket e, parallelamente, stiamo conducendo studi anche con la Premier League, il campionato di calcio inglese, anche se sul calcio, ad oggi, non abbiamo molti dati”.

La dottoressa Valentina Di Pietro ha concluso la nostra chiacchierata mostrandoci quali sono i confini che il test salivare potrebbe oltrepassare. La commozione cerebrale dovuta a un trauma cranico, infatti, non è un rischio cui incorrono solo gli atleti di sport di squadra. Potrebbe capitare a tutti, a un adulto così come a un bambino“C’è una company che ha lavorato e supportato lo studio e lo scorso febbraio ha ottenuto i requisiti e i certificati necessari per la produzione. Credo che il test potrà uscire entro la fine del 2021”.

Il test, insomma, presto potrebbe diventare un dispositivo da tenere anche nelle infermerie delle scuole di ogni ordine e grado e, perché no, pure nell’armadietto di casa tua. Come dice qualcuno, è meglio farsi trovare sempre pronti.

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