Paola, 10 anni con la sclerosi multipla: “Con il tempo mi ha aiutato a conoscermi”

Paola Kruger da dieci anni soffre di sclerosi multipla, una malattia neurodegenerativa che manda in corto circuito il sistema nervoso centrale. Per celebrare la giornata mondiale dedicata alla patologia, Paola ha voluto condividere con noi la sua storia fatta di mondi ribaltati, ospedali, terapie e figli che chiedono come sta la mamma ma anche di ripartenze e nuove scoperte. Oggi Paola è una “paziente esperta” e collabora con istituto e centro di ricerca per aiutare altre persone a conoscere e accettare la propria sclerosi multipla.
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Kevin Ben Alì Zinati 30 Maggio 2020
* ultima modifica il 23/09/2020

Se di cognome fai Kruger, è difficile nascondere le origini tedesche. Ma Paola è nata a Milano, anche se oggi vive a Roma e fa formazione ai pazienti malati di sclerosi multipla, e dei due mondi dice di aver preso il meglio: “L’etica lavorativa e la forza mentale vengono da fuori, ma per fortuna ho preso il senso dello humor italiano”. E proprio così, con rigore e un sorriso, ci ha raccontato della sua sclerosi multipla. Già, perché era il 2010 quando Paola ha ricevuto la notizia che le ha ribaltato la vita, la diagnosi di una malattia neurodegenerativa che manda in corto circuito il sistema nervoso centrale. In pratica per cause che ancora non siamo capaci di spiegare, si danneggia la mielina, cioè la copertura che circonda le fibre nervose del cervello e del midollo spinale. E le fibre si deteriorano fino al punto che i segnali nervosi, come in un filo con la corrente, non arrivano a destinazione. Quella con cui convive Paola è una patologia cronica spesso invalidate, che può impossessarsi del corpo silenziosa e invisibile, come un gatto nero nell’ombra. In tutto il mondo oltre 2 milioni di persone sono affetti da sclerosi multipla e in Italia, se prendi un gruppo di 500 persone e ne estrai una, ecco che potrebbe soffrirne.

Paola Kruger, quando è iniziata la sua convivenza con la sclerosi multipla? 

Quest’anno “festeggio” dieci anni di patologia. Tutto è partito con il sintomo più caratteristico, la neurite ottica. Come succede quasi sempre nel caso di una malattia cronica senza cura anche su di me la diagnosi è stata come una bomba che rade al suolo tutto: esplode e devi capire cosa rimane sotto le macerie. Non mi era rimasto molto, è cambiato tutto in maniera rapida e drammatica. Mi sono separata e ho dovuto reinventare la mia vita lavorativa.

Si è sentita sola?

Il problema è che perdi i parametri di te stesso, non sei più chi eri prima, non sei più sana e “normale” e tutto ciò che c’era prima non c’è più. Devi ricostruire un te stesso nuovo, fatto anche di ospedali e visite perché la diagnosi coincide anche con un percorso di esami, analisi e terapie. Nel momento di panico totale in cui scopri che c’è qualcosa di devastante nella tua vita, vieni catapultato in un universo nuovo con cui devi familiarizzare. La vita personale va in confusione. Avevo due bimbi piccoli che non è stato facile gestire e la persona che mi stava accanto non ha saputo reggere il peso della nuova realtà.

Come hanno vissuto la malattia i suoi due figli? 

Ho scelto di raccontare loro sempre tutto con le parole più giuste per l’età che avevano. Non volevo spaventarli ma nemmeno tenerli all’oscuro perché si rendevano conto che ero diversa. Avermi vista serena però li ha tranquillizzati, hanno capito che ero la mamma di sempre. Credo anche che la mia malattia li abbia resi più consapevoli e sensibili. Hanno imparato l’importanza di aiutare chi è più in difficoltà, sanno che ognuno di noi può avere dei problemi che, però, non ci rendono diversi.

Paola Kruger durante un congresso scientifico

Che cosa le comporta la malattia, fisicamente?

Per fortuna la mia è una forma abbastanza stabile per ora, non mi tocca così pesantemente dal punto di vista fisico e mi permette di fare una vita normale. Oltre al problema all’occhio, che è rimasto, soffro di formicolii oppure mi capitano sensazione strane come sentirsi un arto più leggero, tutte sensazioni fisiche che fanno parte del quadro della sclerosi multipla. A volte può sopraggiungere una difficoltà cognitiva che mi porta a una maggior stanchezza in determinati momenti. Diversamente da molti altri, però, non soffro della cosiddetta “fatigue”, ovvero di quella estrema stanchezza che i pazienti a volte descrivono come un cellulare a cui vengono tolte le batterie. È una perdita di energie immediata, una condizione invalidante. Il vero problema con la sclerosi multipla è la consapevolezza di avere una spada di Damocle sulla testa. Non sai che direzione sceglierà di prendere e così, come altri, viviamo in una condizione di assoluta incertezza.

Ma è riuscita a trovare comunque una soluzione. 

Perché ho realizzato che Paola Kruger non è la sclerosi multipla. È un concetto che si impara con il tempo, ti rendi conto che la normalità non è univoca ma è fatta di sfumature in cui può rientrare anche una patologia come questa. La patologia è uno degli elementi che mi caratterizza al pari dei capelli o il colore degli occhi ma non mi definisce come persona. Non bisogna farsi annientare ma cercare di continuare a viaggiare nel mondo.

E infatti lei dall’universo della comunicazione istituzionale oggi è passata a fare la “paziente esperta” a tempo pieno. Che cosa significa? 

È un concetto che nasce in Inghilterra per indicare, in prima battuta, una persona molto consapevole della propria patologia. Oggi invece il know-how dato dall’esperienza di vita con una determinata malattia è affiancato da un percorso di formazione, scientifica e non solo. Ho seguito un corso europeo e da anni ormai faccio formazione ad altri pazienti. Con loro mi concentro sulla conoscenza, il mezzo che permette di sviluppare una forte consapevolezza della propria condizione. È lo strumento per muoversi dentro la propria patologia, per capire quali sono le informazioni rilevanti e quali sono corrette. Serve per saper gestire la malattia in modo più tranquillo e responsabile.

In che senso?

Significa assumersi il peso delle proprie scelte, come quando insieme al medico si opta per una cura o un farmaco. È una partnership tra il paziente e il professionista e maggior consapevolezza e responsabilità portano a una maggior attivazione. Ogni paziente quindi può diventare parte integrante del processo e può sentire di avere un proprio ruolo. Più noi pazienti siamo coinvolti, più rispondiamo in modo efficace alle terapie. Ed è per questo che come “paziente esperto” collaboro anche nei processi di sviluppo dei servizi a 360 gradi e nelle sperimentazioni cliniche dei farmaci.

Paola mentre parla in pubblico durante un evento di divulgazione scientifica

Qual è il suo ruolo in questi casi?

La presenza di una figura come la mia sta diventando sempre più una routine nei protocolli di ricerca ed è ben vista anche dagli sponsor delle sperimentazioni. La presenza di un “paziente esperto” aiuta a porre l’accento sulla qualità della vita legata a un determinato farmaco, che non è sempre un elemento che il clinico considera indispensabile. Un composto sviluppato in collaborazione con il fruitore ultimo godrà di una maggiore accettazione e avrà più garanzie di essere assunto.

In Italia questa figura però è ancora poco diffusa.

Molte persone affette da patologie come la sclerosi multipla oggi si interessano al “paziente esperto”. La formazione negli ultimi anni è aumentata e i pazienti vogliono essere attivi, consapevoli e informati in maniera corretta.

Come si possono vincere le resistenze di chi non ha ancora accettato la propria malattia? 

Tra pazienti ci si coinvolge facilmente, c’è una base comune che è il fatto di condividere la stessa condizione. Spesso gli altri pazienti ascoltano di più un malato che cita un elemento di vita vissuta piuttosto che il medico perché quella particolare situazione l’hanno vista entrambi, la riconoscono e la capiscono. Entrambi sanno di cosa si sta parlando, c’è un’immedesimazione automatica. Con il medico è normale che sia diverso, ed è anche giusto perché i ruoli sono differenti.

Paola, che cosa le ha dato la “sua” sclerosi multipla? 

Ho una nuova e maggiore consapevolezza. Sono cambiata come persona e ho acquisito delle competenze nuove, sono diventata più attenta e paziente, oltreché più indulgente con me stessa. Ho dei limiti e non me la prendo troppo a male. So che non è colpa mia se non riesco a fare determinate cose. È importante risolvere il rapporto con la patologia.

Qualcuno potrebbe obiettare che non è poi così semplice… 

Ne sono cosciente, ma dobbiamo provare a essere positivi. Vedo tanti pazienti che hanno ancora problemi, che provano un senso perenne di combattimento e tanta rabbia per non riuscire a vivere la propria vita appieno. Tuttavia dobbiamo includere questa malattia nel nostro progetto di vita, fa parte di noi.

Resilienza, insomma. 

Esatto. È il miglior “regalo” che possa fare questa malattia. Affronti gli ospedali, le terapie, gli stravolgimenti e da lì in un modo o nell’altro ne vieni fuori. La patologia ha anche qualche lato positivo, ti permette di acquisire la capacità di affrontare le difficoltà consapevole che non sarà la fine di tutto.

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