“Per una persona ricoverata, ce ne sono 10 a domicilio”: intervista al dottor Tassinari, medico di famiglia a Bergamo

Nella città di Bergamo gli ospdali sono strapieni e molti pazienti positivi al Coronavirus sono gestiti a casa, dai familiari e dai medici di base, costretti a turni estenuanti e spesso senza i dispositivi di protezione individuale. Il dottor Mirko Tassinari, segretario dei medici di famiglia della provincia, ci ha raccontato i due lati della sua città: la sanità, immersa in una crisi sempre più ingestibile, e la popolazione, “gente che non molla mai”.
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Kevin Ben Alì Zinati 2 Aprile 2020
* ultima modifica il 22/09/2020
Intervista al Dott. Mirko Tassinari Medico di base e segretario dei medici di famiglia della Provincia di Bergamo

Bergamo. Poche lettere che oggi evocano dolore e rabbia. Per le immagini dei mezzi dell’Esercito incolonnati che trasportano i feretri in altre città, dove le salme verranno cremate in solitudine, senza parenti o amici. Per i silenzi, le strade vuote e quasi abbandonate e l’aria riempita solo dalle sirene delle ambulanze.

Ma Bergamo vuol dire anche orgoglio, oggi più che mai. Lo si sente nella voce del dottor Mirko Tassinari, seppur bassa e affaticata. Tassinari è un medico di famiglia, è il segretario dei medici di base di Bergamo, è uno dei primi che ha contratto il Coronavirus prestando servizio in prima linea, casa per casa, ad assistere i suoi pazienti.

Dottor Tassinari, come sta?

Meglio, sono stato uno dei primi medici ammalati, mi hanno fatto il tampone venerdì e ieri ho ricevuto il risultato. Fortunatamente è negativo.

Quanto è grave la situazione degli infetti in regime domiciliare a Bergamo?

Siamo di fronte a un problema di sanità pubblica. Per una persona ricoverata ce ne sono 10 a domicilio. Secondo le nostre stime ci sono circa 100mila malati di Coronavirus nelle nostre zone che per ora non riusciamo ad accertare.

Lei fa parte di uno studio di medici di base: come vi siete organizzati per fronteggiare l’emergenza?

Noi siamo 5 medici con circa 7mila pazienti. Sin dall’inizio dell’emergenza sono stati richiesti i Dpi. Come segretario dei medici di base della provincia però mi chiedo cosa avrei potuto fare di più oltre a questo, oltre ad aver avviato raccolte di qualunque tipo di dispositivo su donazione, oltre alle richieste fatte direttamente ai cittadini privati.

E con i pazienti come avete fatto?

Dai primi giorni ci siamo organizzati in condivisone di alcuni ambulatori in fasce orarie. Quando ancora non c’erano le misure di contenimento o le restrizioni, la mattina e il pomeriggio facevamo visite solo su appuntamento che non andava richiesto in segreteria ma con un triage telefonico con il medico che valutava i sintomi del paziente. C’era la fascia rossa tra le 12 e le 15 per i positivi, tutti gli altri potevano venire in fasce orarie diverse così da non creare sovrapposizione.

Come si gestisce un paziente positivo al Coronavirus a casa?

Soprattutto attraverso consulenze telefoniche con cui i familiari ci aggiornano in tempo reale sullo stato di salute della persona malata. Non si può chiedere che un medico vada 2-3 volte a casa per provare la saturazione, così come non possono farlo infermieri o operatori del 118.

Che cosa vi manca?

Oltre ai Dpi, sarebbe necessario avere un’adeguata disposizione di ossigeno a domicilio perché se 20-30 persone con polmonite ce l’hanno, possono essercene altre che ne hanno bisogno. Ma non può essere una caccia al tesoro.

Nient’altro?

Saturimetri, ne servono tantissimi. È inutile dare la bombole d’ossigeno se poi non si possono monitorare i valori. E soprattutto abbiamo pochi tamponi disponibili. Che senso ha usarli in ospedali per avere la certezza della diagnosi? Se uno ha già tutti i sintomi e con la Tac si è già visto lo stato dei polmoni, a cosa serve un altro tampone? Usiamoli per gli operatori sanitari, gli addetti alle segreterie e per tutte quelle persone che sono a contatto con pubblico. Il problema però non è tanto come avviene la gestione domiciliare.

E qual è?

È che non abbiamo tutto il materiale di cui si sente parlare alla televisione e che serve per l’ingresso nelle terapie intensive. I soprascarpe, la visiera, le maschere filtranti, le tute complete con cuffia e doppio paio di guanti. Senza tutto questo rischiamo noi e rischiamo pure di attaccare il virus alla persona che andiamo a visitare. Abbiamo la sensazione che noi medici e operatori siamo stati dei vettori del contagio.

Il sistema sanitario sta funzionando?

In questo momento cerchiamo di tamponare come possiamo ma ci sono molte falle, quello di oggi non mi sembra un sistema universalistico che mette tutti solo stesso piano.

Cioè?

Faccio un esempio. Ci sono due sorelle, Marta e Maria. Marta si ammala di Covid-19 e sviluppa una polmonite, in ospedale c’è un posto e viene ricoverata. Qui le fanno un tampone, la tac e l’esame del sangue, le danno l’ossigeno e tutti i farmaci. La sorella Maria invece abita nel paese accanto e ha la stessa situazione clinica ma quando chiama il 112 i posti sono finiti e viene lasciata a domicilio, dove non ha diritto ai farmaci. Per avere l’ossigeno deve rintracciare il medico di famiglia, che deve prescriverglielo, e in farmacia inizia a chiamare una, due, tre volte ma diventa inutile perché le bombole sono in esaurimento. C’è l’ossigeno liquido, dicono molti: vero, ma la consegna è in 12-24 ore e se sei in una situazione critica non sono molte. Che differenza c’è tra le due sorelle? La fortuna. E così non è un sistema equo.

È arrabbiato?

Pazienti nelle situazioni di oggi, due mesi fa sarebbero stati ricoverati subito. Non sono arrabbiato, l’ospedale o gli operatori non hanno colpe. La mia è una constatazione: a casa stiamo gestendo situazioni critiche assumendoci grosse responsabilità e correndo dei rischi.

Per esempio?

Facciamo un grande lavoro di comunicazione con le famiglie, può capitare che ci siano situazioni in cui magari non ci sono posti letto e i familiari devono staccarsi dalla persona infetta. Però al di là dell’empatia, che c’è perché noi siamo comunque coinvolti come tutti, non vorremmo che gli eroi di oggi, lodati da tutti, diventino poi i capri espiatori di domani. Noi ci stiamo assumendo le nostre responsabilità e la situazione che stiamo gestendo a domicilio è indipendente da noi e soprattutto è molto pesante. Vorrei che tutti lo capissero.

C’è qualcuno che non lo fa?

Ci sono persone che chiamano e si lamentano perché da 15 giorni sono chiuse in casa e vogliono sapere se possono uscire, anche solo per un’ora d’aria. Lo so che è pesante ma bisogna tutelare la salute di tutti. Ognuno di noi deve fare sacrifici per il proprio ruolo. Non è facile restare chiusi in casa ma non è altrettanto facile lavorare 15 ore al giorno sette su sette da 40 giorni come stanno facendo molti di noi.

Come sta Bergamo?

Nell’aria c’è grossa preoccupazione da parte della popolazione ma anche una forte presa di coscienza e di responsabilità. La gente di Bergamo non si tira indietro di fronte alle responsabilità. E difficilmente si lamenta.

È davvero una guerra?

Non avrei mai pensato di dovermi mettere a contare i morti sul campo. Finora sono morti cinque colleghi e cinque famiglie vivono nel dolore. Una di queste poteva essere la mia o quella del collega della porta accanto. Mai come in questo momento noi medici ci sentiamo in piena empatia con i nostri pazienti. Quello che vediamo nelle case della gente lo vediamo anche nelle nostre, quello che vivono loro lo viviamo noi.

Dottor Tassinari, ha paura?

Egoisticamente la paura è un po’ passata per quanto riguarda me e i miei cari, siamo in fase di guarigione. Ma sì, ho paura perché questo virus è una cosa nuova che non conosciamo, non sappiamo che evoluzioni potrà avere.

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