Screening e diagnosi di tumore in ritardo: nonostante gli sforzi fatti, la pressione del Covid resta

Abbiamo parlato con l’Osservatorio nazionale screening e contattato ospedali e istituti oncologici di alcune tra le regioni più colpite. La rete si è riorganizzata, certo, ma con il Coronavirus che deve avere la precedenza, le attività ordinarie continuano a essere rallentate. E le conseguenze le vedremo nei prossimi anni.
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Giulia Dallagiovanna 30 Novembre 2020
* ultima modifica il 30/11/2020

"Se prima avevamo a disposizione 30 TAC al torace ogni giorno, oggi 25 sono destinate ai pazienti Covid e per le diagnosi di tumore ne restano 5". I numeri servono solo come esempio, ma il professor Oscar Bertetto, direttore del dipartimento interaziendale della Rete oncologica di Piemonte e Valle d'Aosta, riesce in poche parole a dare un'idea della situazione. Sebbene questa seconda ondata sia diversa dalla prima e ci abbia trovati un po' più pronti ad affrontarla, il problema di fondo rimane: pandemia significa aumento di pressione sulle strutture ospedaliere e meno spazio per chi è affetto da qualsiasi altra patologia. È così che in questi mesi del 2020 i malati oncologici, o i sospetti tali, devono fare i conti con i ritardi negli screening e nelle diagnosi. Con il rischio che la neoplasia venga scoperta quando è a uno stadio più avanzato.

Secondo un rapporto dell'Osservatorio nazionale screening, coordinato dall'Istituto per lo Studio, la Prevenzione e la Rete Oncologica di Firenze, tra gennaio e maggio sono venuti a mancare oltre 472mila test mammografici e 585mila esami colorettali, rispetto allo stesso periodo del 2019. Se infatti il lockdown aveva imposto di rimandare i controlli, con l'inizio della fase 2 non si è riusciti a smaltire tutta la coda che si era accumulata. E gli stessi rallentamenti si sono verificati anche per quanto riguarda Pap test e Hpv test (371mila in meno), o screening di prevenzione per altri tipi di tumore. "In tutto, abbiamo stimato un range di ritardo compreso tra i 2 e i 3,6 mesi – ha commentato la dottoressa Paola Mantellini, direttore dell'Osservatorio. – Bisogna dire che la situazione varia anche da regione a regione. Chi aveva più servizi dislocati sul territorio è riuscito a ripartire più rapidamente, mentre quelli che li avevano concentrati negli ospedali hanno impiegato più tempo. E poi ci sono aree come la Lombardia che hanno pagato un prezzo importante durante la prima ondata dell'epidemia, perciò è stato ancora più complicato ristabilire le attività ordinarie".

Il range di ritardo negli screening, accumulato durante il lockdown, è stimato tra i 2 e i 3,6 mesi

Ma se è vero che tra maggio e luglio tutte le regioni sono tornate a offrire tutte le prestazioni normali del sistema sanitario, è altrettanto vero che a ottobre la pandemia ha riacquistato forza: i contagi sono aumentati e i posti letto si sono riempiti velocemente, di nuovo. "Solo il 15% di tutti i casi di tumore viene diagnosticato attraverso uno screening – fa notare il professor Pierfranco Conte, direttore del dipartimento di Oncologia Medica 2 presso l'Istituto Oncologico Veneto (IOV) e coordinatore della Rete oncologica della stessa regione. – La maggior parte delle volte sono necessari esami che vengono effettuati in ospedale. Il loro numero dipende quindi dagli specialisti disponibili e da quanto rapidamente possono essere svolte le analisi di tipo radiologico, endoscopico e di laboratorio. Se i reparti sono sovraccaricati dall'emergenza Coronavirus, sarà più difficile trovare spazio per i pazienti oncologici".

Un ritardo in una diagnosi significa lasciare del tempo alla neoplasia per progredire e, allo stesso tempo, una riduzione delle probabilità di guarigione. Quanto importante sia questa perdita dipende proprio dalla lunghezza l'attesa. Uno studio pubblicato sul British Medical Journal è arrivato a stimare per ogni mese di procrastinazione un aumento del rischio di mortalità che oscilla tra il 6% e il 13%, rispetto a chi ha ricevuto le cure in modo tempestivo.

Ma i disagi sono diretta conseguenza di una situazione che resta, di fatto, poco prevedibile: l'evoluzione della pandemia e il possibile arrivo di un vaccino che, quanto meno, possa ridurre la circolazione del virus. Nel frattempo si fanno i conti con tre ostacoli:  gli operatori sanitari che si infettano e quindi una minore disponibilità di personale, una parte di questo dirottata verso il rafforzamento dell'assistenza ai pazienti Covid e le norme di sicurezza, che impongono un generale rallentamento delle prestazioni. "Tra un esame e l'altro deve essere sanificato l'intero locale. Di conseguenza, se prima riuscivamo a fare sei mammografie in un'ora, adesso si sono ridotte a tre o quattro –  spiega il prof. Bertetto. – Oltre al fatto che gli appuntamenti sono ancora più scaglionati, per evitare assembramenti nelle sale d'attesa"

La ripartenza delle attività ordinarie c'è, ma è più lenta e la pressione del Covid sugli ospedali si fa sentire

La ripartenza c'è dunque, ma con una marcia in meno. "Alcune aziende sanitarie sono riuscite ad aumentare gli orari dei servizi, per non dover rinunciare alla normale quota di visite effettuate. Servono, però, gli spazi adatti e non è una soluzione praticabile ovunque. Va detto che si è provato in ogni modo a contenere i ritardi", interviene la dottoressa Mantellini.

E poi c'è un fattore sul quale agire è più difficile, perché va a toccare la fragilità di ciascuno di noi: la paura. Anche se ci siamo abituati a uscire di casa indossando una mascherina, non saremo mai del tutto in grado di convivere davvero con una minaccia invisibile e sempre presente. E così, l'irrazionalità può prendere il sopravvento, nonostante ci garantiscano che gli ospedali oggi siano luoghi sicuri, con percorsi differenti per pazienti Covid e non Covid. "Capita che le persone non vadano dal medico o addirittura disdicano gli esami già programmati. Tutto per paura della pandemia", conferma il professor Conte. "Quando abbiamo ricominciato a telefonare per avvertire della ripartenza degli screening, alcune persone non se la sono sentita di venire. Ci rispondevano: ‘Aspetto ancora un po', ci risentiamo più avanti'. Bisogna tenere conto che una buona parte di loro poteva avere anche 60 o 70 anni", aggiunge Mantellini.

Non fraintendiamoci, il panorama non è più quello di marzo o aprile. Le regioni si sono organizzate e i presidi sanitari hanno fatto rete attorno a centri a vocazione oncologica, come l'Istituto Oncologico Veneto o l'Istituto Nazionale Tumori di Milano. In queste strutture è più semplice mantenere percorsi puliti e Covid-free: nessun paziente viene ricoverato per il trattamento dell'infezione da SARS-Cov-2. "Abbiamo accolto circa 200 pazienti, provenienti da 25 strutture dislocate sul territorio lombardo che erano impegnate nella gestione della pandemia e non potevano operarli – ci spiega il dottor Oliviero Rinaldi, Direttore Sanitario dell'istituto milanese. – Paradossalmente, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, la nostra attività di ricovero per pazienti regionali è aumentata del 3%".

Tamponi periodici al personale e test per i pazienti prima di ciascun intervento, mascherine chirugiche consegnate all'ingresso e un'area con 7 posti letto per l'isolamento di casi positivi o sospetti sono solo alcune delle misure che sono state messe in atto. "Non mi è stato riferito di malati oncologici che fossero peggiorati a causa di possibili ritardi nelle visite –, prosegue il dottor Rinaldi. – Noi però non abbiamo un pronto soccorso, quindi mantenere puliti i percorsi è più facile che in un ospedale generico".

La situazione quindi è migliorata, ma il problema non è risolto. Un evento straordinario come la diffusione di un nuovo virus, induce a mettere l'ordinario in secondo piano. Tutte le energie, o quasi, si concentrano sull'assistenza ai malati di Covid, lasciando meno spazio a tutti gli altri pazienti che, però, esistono, proprio come prima. Forse ci sono interi sistemi da rivedere e riorganizzare, per alleggerire gli ospedali e non dipendere così direttamente da queste strutture. Lo ripetiamo da marzo: potenziare il territorio e gestire i malati al loro domicilio significa avere una Sanità più snella e che, lo abbiamo visto, risponde meglio anche a fenomeno improvvisi e inaspettati.

Nell'immediato, però, la risposta più rapida arriverà con la fine dell'epidemia. E se le istituzioni devono fare la loro parte (magari organizzandosi in anticipo e con maggiore lungimiranza rispetto a quanto accaduto sinora), ciascuno di noi ha un ruolo importante da giocare. Indossare la mascherina e mantenere il distanziamento sociale è una scocciatura per tutti, ammettiamolo, ma è anche l'unico modo che abbiamo per evitare che lo straordinario ci impedisca di andare avanti con le attività ordinarie. Negli ospedali, nell'economia e nelle nostre vite.

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