Tra i sintomi del Long Covid ci sarebbe anche la depressione, il prof Benedetti: “Se la si cura bene, però, in un mese si guarisce”

Non solo la nebbia cognitiva. Il professor Francesco Benedetti, responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia del San Raffaele di Milano, ci ha spiegato che l’infezione da Sars-CoV-2 è di fatto un’iperinfiammazione e che, come tale, ostacola la produzione della serotonina, un neurotrasmettitore la cui assenza è legata l’insorgenza della depressione.
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Kevin Ben Alì Zinati 11 Maggio 2022
* ultima modifica il 11/05/2022
In collaborazione con il Prof. Francesco Benedetti Professore associato di psichiatria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia

La pandemia non è finita. Nemmeno ora che abbiamo ripreso una vita praticamente normale e libera da misure di sicurezza (fatta eccezione, per ora, per le mascherine al chiuso) o Green pass da esibire per accedere a locali e spazi pubblici.

La pandemia non è finita perché Sars-CoV-2 continua a diffondersi e contagiare ma anche, e soprattutto, perché ci troviamo a dover gestire la sua enorme eredità.

Sai bene che in moltissimi casi l’infezione non si esaurisce con il tampone negativo. Spesso gli strascichi del Covid-19 possono persistere anche per mesi dopo la guarigione.

Tra le manifestazioni più classiche del cosiddetto Long Covid avrai sentito parlare dell’affaticamento, di quel persistente senso di stanchezza che limita anche le attività più semplici come salire le scale oppure delle importanti difficoltà respiratorie che molti provano solo a scendere da letto.

Con il tempo, tuttavia, le pagine che tracciano i contorni della sindrome post-Covid si sono dovute aggiornare perché l’iperinfiammazione provocata dal nuovo Coronavirus finisce, in qualche modo, con il prendere di mira anche il cervello, provocando sequele di effetti neurologici e neuropsichiatrici impattanti.

Secondo Francesco Benedetti, professore associato di psichiatria presso l’Università Vita-Salute San Raffaele e responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia, “circa il 30% delle persone che sopravvivono a polmonite da Covid sviluppa nei mesi successivi un episodio depressivo. Parliamo di persone che non avevano una storia psichiatrica”. Percentuale che sarebbe già lievitata al 35-40%.

Insieme a tristezza, riduzione di energie e incapacità di provare piacere, il Covid sarebbe però capace di impattare anche a livello neurologico, provocando difficoltà dell’uso delle funzioni cognitive superiori: dall’attenzione alla memoria, dalla concentrazione alle funzioni esecutive che ci consentono una normale vita quotidiana come un buon coordinamento psico-motorio.

Un quadro importante e con due sintomatologie, neuropsichiatria e neurocognitiva, in grado di incidere pesantemente sulla qualità di vita di ciascuno di noi. Ma che può essere gestito e risolto: a pattò, però, che venga riconosciuto.

Le infiammazioni dietro alla depressione

Per capire i «come» e i «perché» dietro al legame tra il Covid-19 e la depressione ti faccio fare un passo indietro e ti riporto agli anni pre-pandemia.

Ancora prima che il virus facesse la sua comparsa, il team di neuropsichiatri del San Raffaele aveva già messo sotto al microscopio proprio le infiammazioni, sia quelle nel cervello sia quelle periferiche che si sviluppano in altri distretti dell’organismo: l’idea di fondo era che un’infiammazione rappresentasse uno dei meccanismi patogenetici dietro all’insorgere della depressione.

“Insieme a un gruppo di Università europee riteniamo che le infiammazioni siano uno dei modi in cui il cervello viene ostacolato nella produzione di alcuni neurotrasmettitori, in particolare la serotonina – ha spiegato il professor Benedetti –  Ogni volta che nell’organismo di una persona si crea una condizione di persistente infiammazione, infatti, questa è a forte rischio di sviluppare sintomi di deficit neurocognitivi e depressione maggiore”. 

Chi è affetto da depressione endogena, quindi non originata da altre patologie, presenterebbe nel proprio sangue livelli di mediatori dell’infiammazione più elevati rispetto a chi invece è sano. Sto parlando delle famose "citochine”.

Proprio loro ti avranno accesso qualche lampadina perché ormai hai imparato che l’infezione da Sars-CoV-2 è responsabile di un’infiammazione potente e violenta che è definita, appunto, una tempesta di citochine.

Anche tu adesso avrai avuto la stessa intuizione balenata nella mente del gruppo del professor Benedetti. Non appena la pandemia ha fatto il suo ingresso in campo, infatti, il team del San Raffaele ha capito che la situazione non si sarebbe risolta rapidamente con la semplice eliminazione del virus: “Era più probabile che questa infiammazione persistesse nel tempo con tutte le sue conseguenze. Secondo noi avrebbe dovuto, e potuto, scatenare sintomi di tipo cognitivo e depressivo”. E così è stato.

Gli effetti del Covid-19 sul cervello

Sebbene possa sembrarti intuitivo e lineare, il Long Covid può colpire chiunque abbia avuto un contatto con il virus e contratto l’infezione. Gli strascichi quindi non interessano necessariamente solo le persone che hanno avuto una forma grave di malattia.

Nelle sue manifestazioni lievi l’infezione, purtroppo, comporta un interessamento di quei tessuti dell’organismo che esprimono maggiormente la proteina ACE2 a cui si lega la proteina Spike del virus. Parlo dell’intestino, dei reni, del cuore, degli organi endocrini, della tiroide e ovviamente anche i polmoni.

Le infiammazioni ostacolano la produzione di serotonina favorendo deficit neurocognitivi e depressione

Prof. Francesco Benedetti, Ospedale San Raffaele Milano

Impatterebbe sul cervello solo successivamente, in maniera secondaria. Tra i primi a mettere insieme uno studio prospettico per seguire nel tempo tutte le persone ricoverate per polmonite da Covid a partire già dalla prima ondata, i neuropsichiatri dell’ospedale milanese in questi mesi hanno scoperto che “una persona sopravvissuta anche brillantemente al Covid può purtroppo sviluppare depressione e tutti i sintomi di rallentamenti generali delle attività mentali”. 

La persistente infiammazione innescata da Sars-CoV-2 condurrebbe insomma alla riduzione in termini quantitativi della produzione di alcuni neurotrasmettitori cerebrali, in primis la serotonina. E il calo di concentrazioni di questa sostanza nell’organismo, come hai visto prima, è connessa a una maggior predisposizione all’insorgenza di episodi di depressione.

Allo stesso tempo però l’infiammazione da Covid provocherebbe anche una sofferenza della materia bianca, responsabile invece della riduzione della velocità di funzionamento dei neuroni. Ha continuato il professor Benedetti: “L’infiammazione agisce sulla mielinizzazione degli assoni e dei dendriti, cioè sulle vie di connessione della sostanza bianca e la comunicazione tra aree cerebrali e sistemi neurali viene quindi rallentata”.

La persistente infiammazione innescata da Sars-CoV-2 condurrebbe alla riduzione in termini quantitativi della produzione di alcuni neurotrasmettitori cerebrali

Se dunque la gravità dell’infezione non è una discriminante per stabilire chi è più a rischio a livello neurologico e neuropsichiatrico, lo sono invece altri parametri come una pregressa esperienza con depressione o esaurimento nervoso e, come per tutte le condizioni ansiose e depressive, il sesso.

“Le donne sono più a rischio degli uomini. È una regola generale – ha continuato il responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia del San Raffaele di Milano – legata al fatto che le donne hanno un sistema immunitario particolarmente reattivo, tanto che sono più protette dalle conseguenze mediche dirette e gravi dell’infezione da Covid. L’estrema reattività del sistema immunitario dovuta al funzionamento degli ormoni steroidei, tuttavia, le rende a maggior rischio di avere queste forme depressive legate ai fenomeni infiammatori o, come in questo caso, al Covid-19”. 

Si guarisce?

Depressione e nebbia cognitiva rientrano quindi nell’ambito del Long Covid, una patologia nuova e nata in conseguenza alla pandemia le cui conseguenze a volte migliorano nel tempo e anche in modo anche spontaneo.

Altre volte invece chi ne soffre ha bisogno di un percorso di riabilitazione: ti avevamo raccontato, per esempio, della “ricetta” del dottor Piero Clavario contro la stanchezza, la debolezza e il fiato corto fatta di mezze maratone e gite in alta quota.

Allo stesso modo, la depressione post-Covid e della nebbia mentale non svaniscono da sole ma anzi, per liberarsene serve assolutamente di un trattamento ad hoc. Avendo iniziato a studiare le sequele post acute del Covid-19 già a partire dalla prima ondata, il team del professor Benedetti segue pazienti con sintomi clinicamente rilevanti anche da più di un anno. “Quando curata, però, la depressione post-Covid guarisce e guarisce bene. Nell’arco di un mese, con una cura ben somministrata, le persone guariscono”.

Il trattamento funziona così. Prevede da un lato l’aggressione del deficit di neurostimolatori dovuto all’infiammazione attraverso la somministrazione di farmaci serotoninergici, sostanze in grado cioè di aumentare la produzione di serotonina. “A questo affianchiamo sempre la cronoterapia – ha aggiunto il responsabile dell’Unità di ricerca in Psichiatria e Psicobiologia del San Raffaele – Si tratta di strumenti terapeutici non farmacologici di ripristino della normale ritmicità della vita, come la luce del mattino che sincronizza i ritmi vitali”. 

Quando curata, la depressione post-Covid guarisce nell’arco di un mese

Prof. Francesco Benedetti, Ospedale San Raffaele Milano

L’altro aspetto fondamentale del percorso è il rimedio cognitivo, con terapie riabilitative mirate proprio contro questo deficit. Al San Raffaele, per esempio, vengono impiegati programmi computerizzati in grado di identificare l’area cognitiva deficitaria, addestrarla e allenarla. “Un po’ come una super settimana enigmistica: un programma riabilitativo incentrato per esempio sulla memoria verbale piuttosto che sulle funzioni esecutive”. 

Se ben curata, si diceva. A questo punto la domanda è spontanea: come si può riconoscere questa forma depressiva post-Covid? “Bisogna fare attenzione a sintomi depressivi in rapida evoluzione come la tristezza, la riduzione di energie, l’incapacità di provare piacere, mancanza di volontà e le difficoltà di concentrazione e attenzione. L’errore che alcuni fanno è quello di considerarle come una conseguenza del Covid che si risolverà da sola ma non è così”. 

Nel caso in cui avessi contratto e superato il Covid-19 ma accusassi uno o più di questi sintomi la prima cosa che dovresti fare sarebbe, ovviamente, parlarne con il tuo medico e intervenire.

Chi avesse già avuto esperienza con l’ambito neuropsichiatrico sarebbe in un certo senso «avvantaggiato» nel processo diagnostico perché sarebbe in grado di riconoscere più in fretta i campanelli d’allarme. Il problema maggiore, dice il professor Benedetti, sta semmai nelle persone che non hanno mai avuto contatto con la psichiatria prima e che quindi finiscono per rivolgersi agli specialisti solo dopo mesi di sofferenza.

Per questo ascoltare e ascoltarsi diventa decisivo.

Una strada a doppio senso

Quello tra depressione e Covid, tuttavia, può anche essere letto come un rapporto bidirezionale. Per capirlo ti porto indietro ancora di qualche passo.

Come forse sai, la depressione è una patologia a eziologia ignota, significa che ad oggi non sappiamo con precisione quali siano le sue cause scatenanti. Abbiamo degli indizi.

Sappiamo per esempio che le variazioni stagionali nella quantità di luce possono favorirne l’insorgenza così come le variazioni nella funzione del sistema immunitario o, appunto, le infiammazioni.

Proprio lo studio di quest’ultime ha aperto una strada terapeutica interessante e decisamente importante. “Analizzando l’azione degli antidepressivi, la cui funzione è quella di potenziare la serotonina nel cervello e tutti gli altri neurotrasmettitori cerebrali colpiti dall’infiammazione, abbiamo scoperto che la maggior parte di questi farmaci possiede anche capacità antinfiammatorie.

L’errore che alcuni fanno è pensare che questi sintomi si risolveranno da soli ma non è così

Prof. Francesco Benedetti, ospedale San Raffaele Milano

Secondo il professor Benedetti, insomma, alcuni antidepressivi – specialmente quelli più potenti – avrebbero dimostrato di poter agire anche sui livelli dell’infiammazione, abbassandoli.

Hai capito, insomma: gli stessi farmaci utilizzati per curare la depressione potrebbero essere in grado anche di contrastare il Covid-19 e di smorzarne quindi la mortalità. Analizzando un database composto da oltre 1 milione e mezzo di casi studiati, i neuropsichiatri milanese hanno osservato che gli antidepressivi avrebbero avuto un ruolo parzialmente protettivo nei confronti dell’infezione. “È possibile, quindi, che chi è sotto terapia antidepressiva e ha contratto il Covid potorio in virtù della sua terapia possa aver avuto un esito migliore. Stiamo valutando questa correlazione ma già secondo alcuni esperti potrebbe essere stato così”. 

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