Un linguaggio comune per combattere un tumore: Il Senso delle Parole crea un ponte tra medico e paziente

Le parole non hanno un unico significato. Ancora di più quando si parla di malati oncologici che devono affrontare una diagnosi e un percorso terapeutico che spaventa e crea angoscia. Se per lo specialista sarà ben chiaro che un cancro non coincide con una condanna a morte, non è detto che la persona dall’altra parte riesca a cogliere tutte le possibilità che oggi la ricerca offre. Capirsi diventa dunque essenziale: ecco il perché di questa campagna che riunisce tutte le figure in gioco.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Giulia Dallagiovanna 30 Settembre 2020
* ultima modifica il 30/09/2020

Cosa significa tumore? Per questa domanda esistono almeno tre risposte. Secondo il dizionario, ad esempio, si tratta di un insieme di patologie caratterizzate dalla replicazione incontrollata di alcune cellule che invadono i tessuti circostanti. Il medico l'assocerà invece a una malattia rispetto alla quale la ricerca ha compiuto passi da gigante e che oggi, in buona parte dei casi, può essere curata, tenuta sotto controllo o trasformata in una forma cronica. Ma per te la parola "tumore" sarà inevitabilmente associata a "morte". È qui che risulta evidente come specialista e paziente possano parlare due lingue diverse. La campagna "Il Senso delle Parole – Un'altra comunicazione è possibile" nasce proprio con l'obiettivo di trovarne una comune.

"Le parole contano, soprattutto nel momento della diagnosi – ci spiega Paolo Pasini, Presidente di Aipasim (Associazione Pazienti con Sindrome Mielodisplastica). – Anche io sono un paziente e mi ricordo bene quella circostanza. Il medico aveva davanti a sé due strade da percorrere. Poteva dirmi, con atteggiamento competente, che ero affetto da una malattia neurodegenerativa rara, che si poteva cronicizzare nel tempo e che correva però il rischio di degenerare in una leucemia mieloide acuta, dovuta anche ad alterazioni genetiche e così via. Sarei rimasto a bocca aperta e non avrei capito nulla. La seconda strada è invece quella di utilizzare un linguaggio più semplice: ‘sa qual è il problema? La sua fabbrica del sangue non funziona bene e globuli rossi, bianchi e piastrine sono in sofferenza. Dobbiamo quindi cominiciare un percorso insieme per rimettere in circolo le cellule buone ed eliminare quelle cattive'. In questo modo non solo capisco cosa sta accadendo, ma so anche che non sto affrontando tutto da solo".

Il problema è che i pazienti sono tanti, gli ambulatori sono sovraffollati e il tempo è poco. "Così lo specialista cade nel tranello di usare un linguaggio tecnico e conciso – concorda il professor Sergio Amadori, Presidente Nazionale di AIL Associazione Italiana contro Leucemie-linfomi e mieloma). – Il malato però finisce per vivere la notizia come una condanna a morte. Non coglie quindi gli aspetti positivi di una diagnosi precoce e di tutte le possibilità terapeutiche che oggi esistono. Il risultato è un rapporto poco empatico, che mina alla base l'alleanza terapeutica tra medico e paziente".

Un linguaggio comune è fondamentale soprattutto al momento della diagnosi, per costruire l'alleanza medico-paziente

Con la coordinazione del professor Giuseppe Antonelli, ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia, sono state individuate 13 parole dalla parte del medico e altrettante dal lato del paziente. "Ogni termine crea una reazione nel malato che potrebbe non essere quella che lo specialista si aspettava", precisa il professore. "Alcuni di questi vocaboli nel tempo hanno acquisito dei significati emotivi e sono entrati a far parte di un dizionario delle emozioni che li ha resi quasi un tabù. Pensiamo proprio alla parola ‘cancro'. Quando si dà la notizia della morte di qualcuno si preferisce sostituirla con espressioni come ‘una lunga malattia' o ‘un brutto male'".

Una prima ricerca basata sulla sentiment analysis è stata condotta direttamente da Takeda, l'azienda farmaceutica che ha avviato e curato il progetto. Hanno utilizzato le piazze virtuali nelle quali ormai siamo abituati a raccontare tutto quello che ci accade, cercando l'attenzione, la comprensione delle altre persone e a volte persino il conforto: i social network. Nei gruppi e nelle pagine dove i malati oncologici interagivano tra loro comparivano alcune parole chiave ricorrenti, sulle quali si basavano intere riflessioni o conversazioni. Paura, angoscia, rischio, sopravvivenza, speranza, morte. In mancanza di conoscenze mediche, il vocabolario di ciascuno di loro era improntato soprattutto sugli stati d'animo. E il contrasto emerge se si guarda dall'altra parte, dove campeggiano invece le più tecniche diagnosi, cronicizzazione, trattamento, remissione, recidiva, metastasi o sigle come PET.

"Da questo primo screening abbiamo individuato i termini sui quali concentrarci – spiega il professor Antonelli. – Abbiamo considerato l'etimologia, la struttura e la frequenza di ciascuno di loro e poi abbiamo cercato di trovare una direzione in questo elenco. A un primo sguardo si vede sicuramente un percorso verticale, che parte dalla ‘diagnosi' e arriva alla ‘cronicizzazione', ma comprende anche ‘prevenzione' e ‘ricerca' come le due possibilità per sconfiggere il cancro. Dal lato del paziente invece i due poli sono costituiti da ‘prognosi' e ‘speranza'. Ma esistono anche delle associazioni logiche o dei parallelismi che possono essere costruiti, per creare un ponte tra chi è malato e chi si occupa di curare la patologia".

La parola diventa così parte integrante della terapia, un primo fondamentale passo che permette di instaurare un legame di fiducia tra lo specialista, il malato e i suoi familiari. Una sintesi tra i diversi punti di vista che consenta di trovare un linguaggio comune di fronte al nemico da combattere, insieme. E tutto questo per arrivare a spiegare, in un modo corretto e comprensibile che sappia chiarire i dubbi e alleggerire le paure, come oggi contro un tumore esistano terapie che possono allungare la vita in modo significativo e magari riescono a trasformarlo in una malattia cronica con la quale convivere. Oppure, addirittura, a guarirlo. Che insomma non tutto è perduto e che essere pazienti oncologici non significa avere i giorni contati.

Come avrai intuito, l'approccio al problema è stato multidisciplinare, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Oltre a chi è già stato citato, all'iniziativa hanno preso parte anche Salute Donna Onlus, SIPO (Società Italiana di Psico-Oncologia) e WALCE onlus (Women Against Lung Cancer in Europe) e ha dato il suo patrocinio Fondazione AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica).

La campagna è ancora attiva e anche tu puoi partecipare, se hai vissuto un'esperienza di questo tipo. Accedendo al portale, ti verrà assegnata una parola rispetto alla quale dovrai esprimere il tuo stato d'animo e le associazioni che ti ha portato a fare. "Lo scopo è quello di arrivare a redigere un dizionario emozionale utile per tutti – spiega il Presidente di AIL – e che contenga entrambi i punti di vista, assieme a proposte per creare un ponte linguistico tra le due figure che partecipano al percorso di cura". E la speranza è che questo aiuto possa venire accolto anche dalle università. All'interno della formazione di un medico non è infatti previsto un momento dedicato ad approfondire questo aspetto tutt'altro che marginale.

"Uno specialista è abituato a utilizzare i termini della Medicina, soprattutto quando deve descrivere malattie complesse – conclude Pasini. – Quello che gli chiediamo è di fare uno sforzo in più, un salto di qualità nella sua comunicazione, ma che gli porterà benefici importanti, come un miglior rapporto con il paziente".

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.