Una vita di infezioni e ricoveri: la sindrome da Iper IgM e uno studio italiano che dà speranza

Una malattia rara, che colpisce circa un bambino ogni 300mila o 500mila nuovi nati. Un difetto genetico che impedisce al sistema immunitario di svilupparsi come dovrebbe e che, nei casi più gravi, riduce l’aspettativa di vita a 30 anni. Ma oggi è la Giornata delle Malattie Rare e vogliamo guardare al futuro con fiducia: all’Istituto San Raffaele – Telethon di Milano è allo studio un nuovo approccio basato sull’editing del Dna che potrebbe cambiare le carte in tavola.
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Giulia Dallagiovanna 28 Febbraio 2021
* ultima modifica il 28/02/2021

Immagina un gruppo di malattie rare, le immunodeficienze primitive. E ora, restringi il cerchio a una sola tra le circa 250 patologie che fanno parte di questa famiglia. Avrai messo gli occhi su un problema ancora più raro: la Sindrome da Iper IgM o, secondo il termine medico specifico, l'Immunodeficienza con Iper IgM. Ne è affetto più o meno un bambino ogni 300mila o 500mila nuovi nati. L'incidenza esatta non si conosce perché non tutti ricevono una diagnosi corretta: secondo l'Osservatorio Malattie Rare, nel mondo ci sono ben 6 milioni di individui che soffrono di un difetto congenito del sistema immunitario, ma solo il 30% di loro ne è al corrente.

Aumentata sensibilità alle infezioni, iniezioni mensili o settimanali di immunoglobuline e una speranza di vita che, nei casi più gravi, non supera i 30 anni. Ma soprattutto, l'assenza di una cura definitiva.

Da parte delle aziende farmaceutiche non c'è interesse a investire in terapie mirate: i pazienti che ne farebbero uso sono troppo pochi. Per fortuna esistono centri di ricerca che si dedicano a malati di cui nessuno sembra farsi carico. E proprio in Italia si trova l'Istituto SR-Tiget, nato da una joint venture tra l'Ospedale San Raffaele di Milano e Fondazione Telethon, che sta lavorando a un nuovo approccio alla sindrome da Iper IgM basato sull'editing genetico e, in particolare, sul Crispr/Cas9. "Il nostro lavoro riassunto in una frase? Abbiamo fornito le basi scientifiche e il razionale per poter partire al più presto con una sperimentazione clinica di modifica del Dna dei linfociti T, affinché questi possano esprimere in modo corretto la proteina presente sulla loro superficie e si risolva il difetto del sistema immunitario", ci ha spiegato la dottoressa Valentina Vavassori, ricercatrice presso l'Istituto e prima autrice dello studio pubblicato sulla rivista Embo Molecular Medicine, assieme alla dottoressa Elisabetta Mercuri. L'intero progetto è stato coordinato dal professor Luigi Naldini e dal dottor Pietro Genovese.

Per capire la portata delle sue parole, però, dobbiamo fare un passo indietro: cos'è la sindrome da Iper IgM e cosa significa vivere con un organismo che non sa difendersi dai patogeni come dovrebbe?

Una vita di infezioni e antibiotici

"A cinque anni mio figlio passava tutto il giorno sul divano. Si alzava, con fatica, solo per mangiare un po' di minestrina e poi tornava a sdraiarsi. Si capiva subito che c'era qualcosa che non andava. Ha dovuto assumere l'antibiotico quotidianamente per un anno intero. Piano piano ci si abitua a convivere con questa condizione, ma la preoccupazione è continua". Oggi il figlio di Michela A. di anni ne ha 34 e nel suo fascicolo sanitario sono già annoverate diagnosi di neutropenia grave e di epidermodisplasia verruciforme. La prima è una drastica riduzione dei globuli bianchi che indebolisce ulteriormente il sistema immunitario: "le gengive gli si erano gonfiate fino a ricoprirgli tutti i denti e all'interno delle mandibole si erano formati due buchi". La seconda invece è una malattia della pelle che ha cominciato a manifestarsi quando Francesco aveva 15 anni: "Le verruche sono comparse prima sulle mani e poi si sono diffuse al torace e al volto. Ci hanno detto che si trattava di un'altra malattia rara per la quale non esistevano veri e propri rimedi. In una persona sana sarebbe regredita da sola. Lui invece si è spalmato tonnellate di creme e ha seguito un trattamento che gli ha provocato delle ustioni, gli si è quasi staccata la pelle. Nulla. Alla fine è tornato tutto come prima e vive ancora con queste macchie". Aggiungi poi febbre, tosse, raffreddore e mal di gola che lo tornano a trovare puntuali più o meno ogni mese.

"Quando mio figlio aveva 5 anni ha dovuto assumere l'antibiotico tutti i giorni, per un anno intero"

Cristina R. invece ha due gemelli, che chiameremo Marco e Matteo. Fin da piccoli convivono con bronchiti e otiti continue. Marco, all'età di quattro anni, è stato ricoverato per una polmonite. Due volte, a distanza di pochi mesi. Oggi sono quasi maggiorenni e nel frattempo sono subentrate altre complicanze: "Soffrono di una colangite sclerosante, un'altra malattia rara, che colpisce le vie biliari e ne provoca il restringimento. Sono seguiti da un gastroenterologo, naturalmente, ma il fegato non sta andando bene", ci racconta la madre.

Cos'è la Sindrome da Iper IgM

Tutti e tre hanno ricevuto la loro diagnosi presso la Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi-ASST Spedali Civili di Brescia che è centro di riferimento nazionale per le immunodeficienze primitive. Sono giunti qui dopo aver ricevuto risposte incomplete, e in alcuni casi anche fuorvianti, da altri ospedali. Quando si parla di malattie rare, non è facile trovare uno specialista che conosca nello specifico quella di cui soffri tu.

"Come il nome stesso suggerisce, siamo di fronte a un'immunodeficienza caratterizzata da valori normali o elevati di IgM, ma in assenza di livelli di IgG e IgA", ci spiega il professor Alessandro Plebani, direttore della Clinica. E chiarisce: "Quando entriamo in contatto con un patogeno, il nostro organismo produce prima di tutto le immunoglobuline M e successivamente le immunoglobuline G e A, grazie a un processo chiamato switch isotipico. In chi è affetto da questa sindrome, invece, il passaggio fondamentale per la produzione di anticorpi protettivi non avviene. La causa è un difetto genetico".

Se poi sei maschio, è probabile che svilupperai una forma precisa di questa malattia, ovvero l'immunodeficienza con Iper IgM legata all'X, detta anche di tipo 1. "All'origine c'è una mutazione di un gene che si trova sul cromosoma X, il CD40 ligando, ed è quella su cui ci stiamo concentrando noi – interviene la dottoressa Vavassori. – Stiamo parlando di un recettore espresso sulla superficie di un gruppo specifico di linfociti T del sistema immunitario, i CD4 positivi. Questo recettore permette la loro interazione con le cellule B, dalla quale nascono appunto gli anticorpi IgG e IgA, e con i macrofagi, i quali possono produrre citochine, molecole fondamentali, insieme allo switching anticorpale, per il controllo di determinate infezioni opportunistiche che possono derivare sia da batteri che da virus". Le infezioni opportunistiche insorgono quando le tue difese immunitarie sono talmente ridotte da lasciare campo libero al patogeno. E questo è un vero e proprio ospite indesiderato che coglie l'occasione di una porta aperta per stabilirsi nel tuo corpo. Un opportunista, insomma.

Il difetto del CD40L (ligando) rappresenta la forma più frequente e corrisponde più o meno al 60-70% dei casi. Meno diffuso invece è il difetto del CD40, molecola espressa sui linfociti B e che è il recettore del CD40L. "Sono le forme più gravi – prosegue il professor Plebani – perché entrambe comportano un malfunzionamento dei linfociti T. Questo determina un'aumentata suscettibilità oltre che ai comuni patogeni, anche a quelli opportunisti, come il Cytomegalovirus e lo Pneumocystis jiroveci, responsabili di gravi polmoniti. Ma anche il Cryptosporidium, che provoca diarrea cronica e colangite sclerosante, un'infezione delle vie biliari che porta a una grave insufficienza epatica per lo sviluppo di una cirrosi. Molto spesso a queste forme si associa anche una neutropenia, che non fa altro che aumentare ulteriormente la suscettibilità alle infezioni gravi”. In generale, stiamo parlando di malattie potenzialmente letali che colpiscono questi pazienti immunodepressi anche quando sono ancora molto giovani.

Nel restante 30%, invece, i geni responsabili del problema si chiamano AID e UNG. "Queste forme sono caratterizzate da un'aumentata suscettibilità a patogeni come lo streptococco pneumoniae o l'haemophilus influenzae. Non di rado dunque ci si imbatte in episodi di broncopolmoniti o meningiti con sepsi. Questi pazienti solitamente non presentano un maggiore rischio di infezioni virali o causate da patogeni opportunisti, e le infezioni sono adeguatamente controllate dalla somministrazione periodica di immunoglobuline e dagli antibiotici. Sono invece più facilmente suscettibili allo sviluppo di patologie autoimmuni o alla presenza di linfoadenopatia. Questo ingrossamento anomalo dei linfonodi può essere combinato a una maggiore attività proliferativa e dunque favorire lo sviluppo di tumori".

La scoperta

Se attorno ai 3 anni tuo figlio comincia ad ammalarsi ogni mese, il dubbio che qualcosa non vada ti sorgerà piuttosto rapidamente. E se il medico intuisce che il problema è legato proprio a un difetto del sistema immunitario, richiederà un dosaggio delle immunoglobuline sieriche, un semplice esame che può essere effettuato in qualsiasi laboratorio. Ma la conferma della diagnosi per i genitori significa scontrarsi con un fatto difficile da accettare: uno dei due sarà il portatore sano del difetto genetico.

L'immunodeficienza con Iper IgM è infatti una malattia ereditaria e quando il problema è legato al gene CD40L, l'origine è da ricercare nel cromosoma X. In altre parole, nella madre. "Dal primo test genetico al quale mi sono sottoposta non risultava che io avessi quella mutazione, anni dopo però mia sorella è rimasta incinta e ho voluto ripetere l'analisi. A quel punto è emerso che ero io la portatrice dell'alterazione. È una cosa che tuttora mi porto dentro, in un angolino del mio cervello". La voce di Michela si fa più sottile. Ma come si può sospettare che dietro l'angolo si nasconda una simile minaccia, mentre si sta solo cercando di avere un figlio? Una malattia rara, della quale fino al giorno prima non si conosceva nemmeno il nome.

E così, quando il verdetto arriva, non resta che accettarlo e farsi un'idea di come cambierà l'esistenza da quel momento in poi.

"Ogni mese Francesco deve andare da Torino a Brescia, in ospedale, per sottoporsi alle flebo. Devo dire che ha sempre affrontato tutto questo con serenità e non mi ha mia fatto percepire il peso della sua situazione", aggiunge Michela.

Dentro e fuori dall'ospedale

"Dico sempre a mio figlio che ormai ha damigiane di antibiotico nella pancia", prosegue. Un leggero tocco di ironia che da solo è sufficiente a trasmettere la forza con cui queste famiglie affrontano la malattia ogni giorno. Tanta dignità, nessuna lamentela. Neanche da parte di bambini che rischiano di finire in ospedale al primo colpo di tosse. "Si verificano spesso complicanze a livello dei polmoni o del fegato e le persone sono costrette a frequenti ricoveri. Si perdono diversi giorni di scuola o di lavoro", conferma il professor Plebani.

"A uno dei miei figli è successo per la prima volta quando aveva solo 4 anni – ricorda Cristina. – Abbiamo ricevuto la diagnosi piuttosto velocemente, perciò entrambi i gemelli hanno cominciato con le assunzioni di immunoglobuline già da piccoli. Per otto anni sono andati avanti con un'iniezione in vena ogni tre settimane. Per fortuna abitiamo a Bergamo, non lontano da Brescia. Ora invece abbiamo a disposizione la sottocutanea, che si può fare anche a casa". 

Oggi l'unico trattamento davvero risolutivo è il trapianto, ma questo intervento non è una passeggiata

Una sorta di rifornimento di anticorpi per sopperire alla mancata produzione da parte dell'organismo. Al momento, questo è l'unico trattamento disponibile per chi è affetto dalla Sindrome da Iper IgM. Anche il figlio di Michela lo sta seguendo, ma per lui la sottocutanea non è adatta: "Una volta ha sviluppato una grave reazione avversa, con febbre alta e gonfiore. Perciò preferisce andare in ospedale". "Nelle forme con difetto del CD40 o del CD40L, però, le immunoglobuline non sono in grado di controllare del tutto le infezioni – fa notare Plebani, – soprattutto quelle opportunistiche. L'intervento risolutivo quindi è solo il trapianto di midollo osseo".

Vantaggi e rischi del trapianto

"Quando i miei figli avevano 6 anni sono stati messi in lista per un trapianto di midollo, ma non avevamo trovato nessun donatore compatibile. Nemmeno la sorella lo era e quindi avevamo abbandonato l'idea. Da quando il fegato è peggiorato, abbiamo dovuto ricominciare l'iter". Come i gemelli di Cristina, anche diversi altri pazienti guardano a questa possibilità. È nel midollo infatti che vengono prodotte tutte le cellule del sangue, compresi i globuli bianchi e dunque i linfociti T. Con l'intervento si può sperare che il difetto di espressione del recettore scompaia e che si risolva o si attenui l'immunodeficienza. In poche parole, se una fabbrica produce oggetti fallati per colpa di un macchinario guasto, si cambia il macchinario e si ristabilisce la corretta produzione. In teoria tutto fila, ma il trapianto non è una passeggiata.

La condizione fondamentale è che vi sia una persona disponibile e HLA identica. Il sistema HLA è un insieme di geni strettamente collegati tra loro che donatore e ricevente devono condividere con una compatibilità del 100% affinché l'intervento risulti efficace. "Tra famigliari questa possibilità è di 1 su 4. Semplificando, significa che una coppia deve avere almeno 4 figli e non è certo una situazione comune. Si può allora ricercare il donatore più compatibile attraverso una banca internazionale, una procedura che richiede tempo", sottolinea il professor Plebani. Il match perfetto avviene più o meno nel 30 o 40% dei casi.

E una volta superato questo scoglio, arriva quello delle complicanze. "Esistono dei rischi intrinseci alla procedura, come la possibilità di rigetto da parte del trapianto contro l'ospite – avverte la dottoressa Vavassori. – Inoltre i pazienti hanno la tendenza a sviluppare infezioni che possono diventare croniche e provocare danni agli organi vitali. In queste situazioni, il trapianto può rivelarsi una scelta particolarmente critica e il tasso di sopravvivenza diminuisce drasticamente".

"Spero che in futuro si possa trovare un'alternativa. Ho molta fiducia nella Ricerca", ribatte Cristina R., quasi per contrastare la sorte che ha regalato un destino così complicato ai figli. E forse, tra qualche anno, un nuovo aiuto potrebbe esserci davvero. Il merito è tutto italiano.

L'editing genetico

La tecnica dalla quale si parte è quella del Crispr/Cas9, comunemente chiamata "taglia e cuci del Dna", resa possibile da una tecnologia relativamente nuova come l'editing genetico. Il principio di base è la correzione del difetto genetico che provoca una malattia, ad esempio l'immunodeficienza con Iper IgM. Ti ricordi le fotocopie che facevi quando andavi a scuola? A un certo punto ti accorgevi che sull'originale c'era un errore e di conseguenza tutte le copie erano sbagliate. Per evitare di riscrivere il documento da capo, applicavi un ritaglio di carta sopra la parola incriminata e ci scrivevi sopra la versione giusta. E da quel momento in poi, i fogli che uscivano dalla fotocopiatrice non contenevano più errori. Semplificando molto, l'approccio funziona più o meno così.

"Le Crispr sono una sorta di forbice molecolare che va a tagliare in un punto preciso, deciso da noi – spiega la dottoressa Vavassori. – In questo caso, nel gene CD40L. Siamo così in grado di ricucire il Dna, laddove abbiamo generato il taglio, sostituendo la sequenza difettosa con quella corretta. Forniamo alla cellula Dna contenente la sequenza corretta che andrà a inserirsi all'interno del taglio e sistemerà l'errore".

Il CD40L, però, necessita di una regolazione fisiologica molto precisa. Significa cioè che la proteina deve essere espressa sulla superficie dei linfociti T solo quando richiesto dalle cellule e non deve essere presente in modo costante, o si rischia di favorire la comparsa di leucemie e linfomi. Il team di ricerca ha seguito la strada dall'editing genetico proprio perché permette di apportare la modifica nel sito endogeno della proteina e di sfruttare le sequenze regolatorie fisiologiche già presenti nel Dna.

"Siamo riusciti a correggere il gene sia nei linfociti T che nelle cellule staminali, cioè quelle da cui originano tutte le cellule del sangue – prosegue la dottoressa, – ma la percentuale di efficienza della procedura cambia: nel primo caso si attesta attorno al 40-50%, nel secondo invece si scende al 10-25%. Nonostante queste differenze, abbiamo dimostrato che i due approcci potrebbero garantire un'efficacia terapeutica paragonabile. Tuttavia, poiché i linfociti T sono cellule già ben differenziate, garantiscono un maggiore profilo di sicurezza rispetto alle cellule staminali. Vorremmo quindi dare il via per prima a uno sviluppo clinico di questa terapia basandola appunto sui linfociti T". La differenza è che solo alcuni linfociti T sono in grado di riprodursi e in ogni caso generando solamente nuovi linfociti diretti contro gli stessi antigeni. Le cellule staminali, invece, una volta attecchite, possono mantenersi per tutta la vita producendo nuove cellule di tutte le linee del sangue, inclusi nuovi linfociti diretti contro un ampio spettro di antigeni. Ma la capacità di crescita di queste cellule è anche la ragione per cui è bene raggiungere un ottimo tasso di sicurezza post-modifica, prima di apportare variazioni destinate a durare per sempre.

Il nostro Istituto è tra i pochi che possono offrire una speranza a questi pazienti

dott.ssa Valentina Vavassori, Istituto SR-Tiget

"L'idea è quella di prelevare i linfociti T, correggerli e poi infonderli di nuovo nel paziente. Per tutto il periodo in cui restano, garantiscono alla persona un ripristino parziale della risposta anticorpale e dell'interazione con le cellule B e i macrofagi". Tradotto nella vita quotidiana, significa smettere di contrarre alcune delle infezioni di cui ti parlavamo prima, soprattutto se opportunistiche. "Il primo risultato dovrebbe essere un miglioramento della qualità della vita. Si può ad esempio pensare di agire su un paziente finché è in buone condizioni e riattivare il suo sistema immunitario in modo da prevenire future malattie", conferma Vavassori. Ma non finisce qui: "La nostra terapia si rivolgerebbe anche alle persone che non possono accedere al trapianto perché hanno sviluppato un'infezione cronica. Si potrebbe quindi infondere dei linfociti T specifici per contrastare il problema, in modo che venga controllato o addirittura eliminato del tutto. Una sorta di intervento ponte per accompagnare i malati più critici verso il trapianto".

Le diverse applicazioni dell'editing genetico ci mettono ogni volta di fronte a una grande conquista della Ricerca e della Medicina: se sei nato con un genoma che contiene un errore che causa una malattia, non tutto è perduto. Nemmeno se il difetto che hai è raro. In questo caso, però, serve qualche aiuto in più, anche dal punto di vista dei finanziamenti: "È importantissimo che esistano realtà come l'Istituto SR-Tiget, sostenuto da Fondazione Telethon, perché portano avanti un tipo di ricerca che non sempre riscuote l'interesse delle grandi aziende farmaceutiche. Siamo tra i pochi che possono fornire delle risposte a chi soffre di una malattia rara e magari non sa nemmeno di quale. Possiamo studiare nuove patologie, proporre terapie innovative, dare speranza", conclude la dottoressa.

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