Violenza ostetrica: quando il parto si trasforma in trauma

Il parto è un momento fondamentale nella vita di una donna. Tuttavia non sempre la gestione della nascita va come dovrebbe. A volte, l’esperienza di parto può lasciare un segno profondo nel vissuto personale. Un viaggio all’interno di un fenomeno di cui si parla poco e che ancora si cerca di comprendere davvero.
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Sara Del Dot 8 Marzo 2020
* ultima modifica il 23/09/2020

Dare alla luce tuo figlio è un momento che dovrebbe essere unico, straordinario. Io non riesco più a vivere serenamente la parola parto.

Sembra una reazione strana, decisamente inusuale per una donna che parla del momento in cui ha dato alla luce il proprio bambino o la propria bambina. Eppure le madri che provano questo genere di sensazioni sono più di quanto potresti pensare. Madri che, prima e durante il parto, hanno subito dei trattamenti anomali, aggressivi e umilianti da parte del personale medico che si occupava di loro.

Silvia è stata lasciata sola in sala parto mentre la bambina stava nascendo e in seguito ha subito offese verbali dall’equipe medica in un ospedale tra i più rinomati di Roma. Giorgia, che ha perso la sua bambina, si è sentita trattare come un oggetto mentre le infermiere le intimavano di “espellere il fetino”. Mihaela ha subito ingiurie a sfondo razziale da una dottoressa nel corso degli ultimi due mesi della sua prima e unica gravidanza (a rischio).

Naturalmente stiamo parlando di casi isolati, anche se purtroppo non proprio rarissimi, che manifestano la loro condizione di “anormalità” anche e soprattutto perché paragonate a un’esperienza successiva oppure antecedente molto positiva, che ha fatto capire alle donne in questione che non sempre partorire deve essere un’esperienza traumatica. Anzi.

Il primo parto di Silvia, infatti, era andato benissimo grazie alla presenza di uno staff completamente diverso e così era stato anche per un’altra esperienza di Giorgia, che nonostante abbia subito un altro aborto afferma di essere stata seguita e informata adeguatamente. Mihaela, invece, è stata presa in carico subito dopo il parto da un medico differente da quella che l’aveva seguita negli ultimi mesi, che si è occupato di lei facendola sentire al sicuro e trasformando completamente la sua esperienza.

Nel dicembre del 2019 l’Onu ha riconosciuto ufficialmente la violenza ostetrica come fenomeno di violazione dei diritti umani, grazie a un documento presentato dalla relatrice speciale sulla violenza contro le donne del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Dubravka Šimonovic, che ha posto come questione primaria e fondamentale proprio la violenza ostetrica in quanto impedimento su base discriminatoria di un parto sereno e libero da dolore, umiliazione e sofferenza.

L’argomento non è certo nuovo, o meglio, non lo è ovunque. Facendo un passo indietro, se ne era già parlato a livello istituzionale già nel 2007 con l’introduzione in America Latina di una legge a tutela delle donne partorienti, nel 2014 grazie a una dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha ufficialmente riconosciuto la problematica e nel 2016 con un working group sempre nell’ambito delle Nazioni Unite.

Tuttavia si tratta di un fenomeno ancora poco conosciuto nei paesi occidentali, che tendiamo a ricondurre a luoghi del mondo in cui i diritti delle donne sono posti in secondo piano oppure che riteniamo maggiormente frequenti nei confronti di determinate categorie sociali (donne di bassa estrazione sociale, minoranze etniche ecc). Ciò che forse può sembrarci impensabile, è il fatto che casi di “violenza ostetrica” possono verificarsi anche a Roma o a Torino, tra le mura dell’ospedale dietro casa, coinvolgendo donne che potrebbero esserci più vicine di quanto pensiamo.

Silvia

Una volta nata mia figlia, l’ostetrica ha detto ‘guarda come è bella, da una così una bambina così'…

Silvia dà alla luce sua figlia in un ospedale di Roma il 22 dicembre 2017 alle 22.35. È il suo secondo parto. Il primo, avvenuto 7 anni prima in una struttura diversa, era andato molto bene, quindi non ha motivo di preoccuparsi. Viene ricoverata verso le 18 e di lì a poco inizierà a stare molto male. Ma la gestione da parte dell’equipe medica di turno non va come si sarebbe aspettata.

“Poco dopo il ricovero sono stata trasferita nella sala parto dove mi hanno lasciata sdraiata a gambe aperte con addosso solo la vestaglia, sotto ero nuda, davanti all’ingresso che dava sul corridoio. Ho chiesto la cortesia di mettere una protezione, una copertura e mi è stata messa controvoglia. Poi il personale sanitario è tornato per l’epidurale, che non ha funzionato, e mi hanno lasciata di nuovo, in piedi su una palla. Quando mia figlia ha iniziato la discesa nel canale del parto, non c’era nessuno lì con me a parte una laureanda che mi faceva dei massaggi sulla schiena. Io mi ero psicologicamente preparata ad avere il supporto di un’ostetrica, un’epidurale… Invece stavo malissimo, urlavo, non sapevo in che posizione fosse la bambina ed ero da sola, abbandonata, nessuno chiamava nemmeno il mio compagno quindi ero anche molto preoccupata. Allora ho mandato la ragazza a recuperare qualcuno dell’equipe medica e quando finalmente sono tornati io ero completamente bloccata dal dolore, non riuscivo a fare alcun tipo di movimento. Loro hanno iniziato a urlarmi che dovevo mettermi sul lettino con le gambe aperte per partorire, ma io non ce la facevo stavo troppo male, urlavo che non ce la facevo, volevo partorire nella posizione in cui ero.

Mi sono sentita togliere dignità, autorevolezza, rispetto.

Ho detto loro che erano degli incompetenti, perché non avevano monitorato la situazione. A quel punto loro hanno iniziato a urlarmi contro di rimando, dicendomi che avevo dei problemi, che non meritavo di avere un figlio, che avrei dovuto rivolgermi a uno psicologo e che avrebbero chiamato un medico uomo che avrebbe urlato più più forte di me costringendomi ad ascoltarli. Nel frattempo sono riusciti a mettermi sdraiata sul lettino e siccome la testa della bambina stava già uscendo loro mi hanno fatto firmare al volo il consenso per l’episiotomia e hanno proceduto al taglio. Una volta nata mia figlia, l’ostetrica ha detto ‘guarda come è bella, da una così una bambina così’. Ma non è finita qui. Perché la mia famiglia è stata informata del parto solo quando era già avvenuto, e quando hanno chiesto spiegazioni è stato risposto loro che io ‘stavo facendo un circo’. La verità, però, è che loro fino a un momento prima non c’erano stati e quindi non avrebbero potuto avvisare nessuno.”

Una bella differenza rispetto al primo parto la cui gestione, racconta Silvia, era stata completamente diversa.

“Il primo parto era stato molto lungo, 14 ore di travaglio con epidurale, ventosa, pressioni e forcipe compresi, ma è stato gestito con tutte le attenzioni del caso e soprattutto ero informata su ciò che accadeva, quindi avevo meno paura… Nel secondo parto tutto questo non l’ho avuto, il mio ruolo di madre e di donna è stato completamente accantonato, anzi veniva criticato facendomi sentire un’incapace, anche se la realtà è che stavo facendo tutto da sola come se stessi partorendo nel bagno di casa mia, dove almeno nessuno mi avrebbe insultata.”

Giorgia

Una volta sul lettino della sala parto domandai cosa stesse succedendo e a quel punto accadde una cosa che non dimenticherò mai. L’infermiera si appoggiò al mio ginocchio e mi disse ‘tesò, aspettiamo che espelli il fetino'.

Nel 2014, all’età di 31 anni, Giorgia ha vissuto una delle esperienze più traumatiche della sua vita. Nel pieno della 17esima settimana della sua prima gravidanza percepisce dei dolori e si reca al pronto soccorso, in ospedale. Ne uscirà ore dopo senza la sua bambina e con un enorme dolore.

“Sono entrata assieme al mio compagno, camminando con le mie gambe, ero molto tranquilla. I medici mi visitarono e al termine del controllo, estraendo lo speculum, mi chiesero da quanto tempo stavo perdendo sangue. Io non sapevo nemmeno che stavo sanguinando. L’ecografia a cui mi sottoposero poi mi parve normalissima, ma i medici mi segnalarono che avevo perso il liquido amniotico e davanti a me, come se io non fossi presente, si domandavano tra loro se dovessero farmi abortire. A quel punto decisero di bloccarmi le contrazioni e mi dissero che il giorno seguente avrebbero fatto un’altra ecografia. Poi mi ricoverarono e mi misero la flebo per bloccare le contrazioni. Qualcosa però non andava, perché io iniziai a provare subito dei dolori atroci, fortissimi, mi piegai sul lettino d’ospedale e pochi istanti dopo persi le acque, che erano piene di sangue. Mentre mi portavano in sala parto ero completamente sotto shock, non capivo nulla e non ricevevo informazioni, e così anche il mio compagno che si trovava in corridoio senza sapere niente. Una volta sul lettino della sala parto domandai cosa stesse succedendo e a quel punto accadde una cosa che non dimenticherò mai. L’infermiera si appoggiò al mio ginocchio e mi disse “tesò, aspettiamo che espelli il fetino.” Per lei era un fetino, per me era mia figlia. In quel momento ho capito cosa provano le mucche quando vengono portate al mattatoio. Mi sono sentita carne da macello, come se mi fossero passati sopra con un rullo compressore. E una volta che la bambina è uscita ed è stata portata via, cadavere, siamo rimasti in sala parto, in attesa che espellessi anche la placenta. Io ero agitata, soffrivo, mi tiravo su sul lettino, mi dissero che mi avrebbero sedata se non mi fossi calmata, poi mi hanno fatto l’anestesia e sono stata sottoposta a raschiamento. Io pregavo di fare entrare mio marito, avevo bisogno di qualcuno lì accanto a me, ma mi sono sentita rispondere che non era un parto e quindi non sarebbe potuto entrare. Lui però nel frattempo era fuori, in corridoio, ad ascoltare le mie urla e non poteva sapere nulla. L’ultima scena che aveva visto ero io che perdevo fiumi di sangue.

Il giorno dopo c’era un altro medico di guardia. Alla mia domanda su cosa fosse successo, su perché il giorno prima io sentissi la bambina muoversi, lui mi disse ‘siamo nelle mani di Gesù.’ Come se fossimo in chiesa. Non riusciva a darmi una spiegazione perché io fossi uscita dall’ospedale senza mia figlia, sebbene dalla cartella clinica si evincesse che lei era sana, stava bene. Io sono convinta che, siccome quando sono entrata stavo bene, durante la visita con lo speculum deve essere successo qualcosa che non doveva succedere. Io non dico che non sarebbe potuto succedere, è successo. Ma il personale medico in quel momento mi ha dato il colpo di grazia. Quell’episodio mi ha cambiata completamente. Ora vivo male, con l’ansia, qualunque gravidanza vissuta da persone vicine a me. ”

In seguito a quell’esperienza, Giorgia darà alla luce la sua bambina, Martina, nata a 35 settimane con un cesareo grazie a un personale sanitario che ricorda con affetto e gratitudine e successivamente vivrà un’altra esperienza di aborto gemellare.

Mihaela

Quando piangevo per il dolore mi intimava di smettere, dicendomi che ‘se mi era piaciuto trombare dovevo smettere di fare la cretina perché il male che provavo era il dolore del mio piacere'.

Anche la storia di Mihaela fa male, da raccontare e da ascoltare. Ma è una storia che fa soprattutto arrabbiare perché uno dei motivi per cui nei mesi precedenti al suo primo parto ha subito un continuo trattamento umiliante e doloroso è il fatto di essere straniera. Mihaela, infatti, è originaria della Romania ma al momento del parto viveva in Italia, a Torino, già da tre anni, lavorando regolarmente. Ha partorito la sua prima e unica bambina a 31 anni, 12 anni fa, nel 2007, e ricorda ancora tutto nei minimi dettagli. In particolare, il volto e la voce di una dottoressa subentrata negli ultimi mesi della gravidanza che le ha reso le cose impossibili umiliandola e facendola sentire sbagliata e non desiderata.

“La mia gravidanza è stata da subito dichiarata a rischio, quindi ho trascorso moltissimo tempo in ospedale seguita dai medici dell’ospedale, dal momento che non ero seguita da un ginecologo in un ambulatorio specifico. A due mesi dal parto, all’improvviso, il personale ospedaliero che mi seguiva ogni volta che arrivavo in pronto soccorso è cambiato e a quel punto sono iniziati i maltrattamenti. Un giorno sono stata prelevata da casa in ambulanza perché non stavo bene e una volta arrivata in pronto soccorso ho incontrato per la prima volta questa dottoressa. In quel momento stava seguendo un gruppo di studenti di medicina davanti ai quali mi ha fatta svestire facendo battute pesanti sul mio conto, sottolineando il fatto che ero una migrante, che non avevo l’assicurazione, che ero venuta in Italia per divertirmi… Mi ha domandato se fossi assunta e alla mia risposta negativa ha sottolineato che lo Stato italiano si doveva prendere carico di quelli come noi. Quando piangevo per il dolore mi intimava di smettere, dicendomi che “se mi era piaciuto trombare dovevo smettere di fare la cretina perché il male che provavo era il dolore del mio piacere”. Guardando le perdite che avevo diceva che erano dovute alle malattie veneree. Io non avevo nessuna malattia venerea, ho tutta la documentazione medica per provarlo. Insomma questo è stato il primo approccio con questa donna che ha reso gli ultimi mesi del parto impossibili. E non ha fatto che peggiorare.

Il mio parto cesareo anticipato, infatti, era stato programmato per il 10 dicembre e il 4 dovevo eseguire tutti gli accertamenti e i controlli con ortopedico e anestesista. La dottoressa però mi ha cancellato tutti gli incontri dicendo che non ne avevo bisogno, nonostante fossi dichiarata con gravidanza a rischio, pubalgia molto grave e sinfisi pubica. Così sono stata costretta a partorire d’urgenza. Il 26 dicembre, alle due di notte ho iniziato ad avere delle perdite molto brutte, sono venuti a prendermi in emergenza e pensavano di tagliarmi già a casa perché ero in condizioni molto gravi, ma si sono resi conto che non c'era tempo, ero messa troppo male. Allora mi hanno portata in una clinica privata in cui un medico bravissimo ci ha salvate entrambe, me e la mia bambina, con un cesareo. Lui era sconvolto dal fatto che in condizione di gravidanza a rischio io non avessi fatto le analisi e non avessi avuto un parto cesareo.

Il punto è che negli ultimi due mesi della mia gravidanza sono stata trattata non male, malissimo. E la mia colpa, la mia unica colpa era di essere rimasta incinta, di essere andata a letto con mio marito ma soprattutto di avere origini straniere. Per questo, dopo la nascita della mia bambina, ho deciso di attivarmi in prima persona in difesa dei diritti delle donne, anche candidandomi in politica. Perché non voglio che una cosa del genere accada ad altre donne.”

Dal dolore al diritto

“Il fenomeno della violenza ostetrica è stato portato alla luce grazie a movimenti di donne che hanno agito a livello internazionale.” A entrare nel merito del percorso di riconoscimento del fenomeno è Alessandra Battisti, avvocato e co-fondatrice dell’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica (Ovo), la realtà che per prima ha fatto emergere la questione nel nostro Paese innescando una reazione a catena di testimonianze grazie alla campagna #Bastatacere: le madri hanno voce.

“La prima legge che definisce la violenza ostetrica come reato risale al 2007 e interessa l’America latina. A partire da questo primo riconoscimento si sono poi nel corso degli anni susseguite diverse manifestazioni in tutto il mondo, unite alla nascita di movimenti in paesi come Francia, Spagna, Usa, Italia…”

Un cambiamento radicale, però, avviene nel 2014 con una dichiarazione dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della Sanità, dal titolo “Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere”.

In questo documento, l’Oms permette di riconoscere finalmente la presenza del fenomeno e ne offre un primo inquadramento nell’ambito dei diritti umani, facendo riferimento a tutta una serie di situazioni generali, tra cui violazione della privacy, trattamenti coercitivi, abusi verbali, affiancate da altre in cui si trovano in particolare donne che abitano in Paesi in via di sviluppo, come casi di sterilizzazione, detenzione nella struttura connessa all’impossibilità della donna di pagare, il rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere. Nel 2016 la questione si amplia, grazie al working group delle Nazioni Unite sulla discriminazione delle donne nella legge e nella pratica, che affrontava anche il tema della violenza ostetrica in un rapporto relativo alla salute e la sicurezza delle donne, con raccomandazione di adottare misure sanzionatorie per tutelarle da queste pratiche durante l’assistenza al parto.

Alla fine del 2019 la Relatrice Speciale Onu sulla violenza contro le donne Dubravka Šimonovic ha presentato un rapporto scegliendo come tema dell’anno proprio quello della violenza ostetrica. Per redigere il documento, la relatrice è stata aiutata da oltre 120 Paesi che le hanno fatto pervenire dati, resoconti e altra documentazione. “Ad oggi questo rapporto rappresenta il documento più approfondito ed esaustivo nell’affrontare le forme in cui si presenta la violenza ostetrica e nell’inquadrare il fenomeno nell’ambito della violenza di genere”.

Cos’è la violenza ostetrica

Il parto è un momento importantissimo nella vita di ogni donna e dovrebbe essere vissuto nel modo più coerente e rispettoso nei confronti delle sue necessità. Nella gran parte dei casi è esattamente ciò che accade. Ma ci sono episodi, come quelli di Mihaela, Giorgia e Silvia, in cui le cose non vanno nel modo previsto.

Dall’ascolto delle testimonianze e dalla lettura dei documenti ufficiali risulta evidente che la violenza ostetrica si presenta in varie forme, che possono essere molto diverse tra loro. Si passa dall’aggressione verbale all’intervento non consentito, dalla violazione della privacy alla totale esclusione della partoriente dai processi informativi. Ciò che non va mai dimenticato, in ogni caso, è il fatto che il fenomeno si inserisce nel discorso più ampio della violenza di genere, la discriminazione della donna in quanto tale che, come sappiamo, si presenta anch’essa in tantissime varianti.

L’espressione violenza ostetrica si riferisce, secondo la sua prima definizione ufficiale, all’appropriazione da parte del personale medico e sanitario dei processi decisionali che riguardano la donna al momento del parto. In questa definizione possiamo collocare tutto un insieme di comportamenti vissuti come negativi durante l’assistenza alla nascita, che possono concretizzarsi anche nell’effettuare coattivamente interventi come episiotomia o cesareo.

Il già citato rapporto Oms del 2014, poi, cita altre pratiche riconducibili sotto la definizione di violenza ostetrica, come violazione della privacy e della riservatezza cui la donna ha pieno diritto, insulti, umiliazioni, carenza di informazioni, fino a situazioni più estreme come sterilizzazione o detenzione della donna in struttura perché impossibilitata a pagare. A tutto questo si aggiungono, come hanno riportato alcune testimonianze, l’obbligo di adottare una posizione scomoda o dolorosa, la costrizione a rimanere nuda con le gambe divaricate davanti a estranei, insulti a sfondo razziale, utilizzo di espressioni volgari, l’impossibilità di vedere il proprio compagno o accompagnatore, l’accusa di essere inadeguata al parto e, di conseguenza, alla maternità, l’abbattimento dell’autostima all’interno di una struttura ospedaliera in un momento di totale vulnerabilità.

L’origine del fenomeno

Se siamo alla ricerca dell’origine, sicuramente è necessario sottolineare che si tratta di un fenomeno più diffuso di quanto si potrebbe pensare eppure circoscritto a determinati membri del personale sanitario. Punto in comune delle donne che hanno condiviso la loro storia è, infatti, il ricordo nitido di una determinata persona che ha esercitato il proprio potere su di loro facendole sentire indifese e inadatte. Anche questo, tuttavia, rientra in un discorso più ampio, in uno stigma sociale per uscire dal quale la donna, come è sempre stato e come sarà ancora per molto, deve sempre combattere più degli altri.

“Purtroppo gli stereotipi di genere colpiscono le donne in tutto il mondo, senza scampo.” Dice Alessandra di Ovo. “Ancora oggi, infatti, spesso il parto e la maternità vengono visti e percepiti dall’esterno come un sacrificio a cui la donna deve necessariamente sottoporsi, come un dolore necessario che deve sopportare per forza. E se si lamenta è come se non fosse felice per la nascita di suo figlio, risultando automaticamente una madre ingrata.” Infatti un altro punto sottolineato spesso quando si parla di violenza ostetrica è che se il bambino nasce e sta bene il benessere della donna non viene considerato, il fatto che abbia sofferto durante il parto risulta quasi inesistente se non un motivo per cui vergognarsi. “Per questa ragione alcune pratiche discriminatorie risultano fortemente consolidate, abituali e non vengono nemmeno considerate come una violazione dei diritti. Molte donne vengono liquidate con la frase ‘il tuo bambino sta bene, è andato tutto bene’ e quindi si tengono dentro tutto ciò che provano.”

Una situazione la cui conseguenza, riferisce Alessandra, è che molte donne si riducono a soffrire nel proprio intimo senza la possibilità di condividere il proprio vissuto e le proprie esperienze perché il fatto di aver sofferto durante il parto viene percepito come una colpa, come una volontà di sminuire l’evento della nascita, mentre la realtà è che non sono state seguite e trattate nel modo in cui avrebbero avuto bisogno.

Cosa succede dopo?

Le storie di Mihaela, Giorgia e Silvia dicono già molto e l’aspetto in cui presentano più tratti in comune è senza alcun dubbio quello che riguarda le ferite che l’esperienza del parto ha lasciato dentro di loro. Nonostante siano trascorsi diversi anni, infatti, tutte e tre non riescono più a vivere il concetto di gravidanza e parto in modo sereno, nemmeno quando si parla di altre donne a loro vicine, dichiarando di essere state fortemente segnate e che non rifarebbero mai la stessa scelta per partorire.

Così, proprio come il fenomeno stesso, anche le conseguenze della violenza ostetrica presentano molte sfaccettature, che possono andare dalla rabbia fino al punto di rinunciare a una seconda gravidanza per non affrontare un nuovo parto.

“Le donne che si rivolgono a noi”, prosegue Alessandra, “ci riferiscono anche di danni fisici, agli organi genitali, difficoltà a riprendere una vita normale, anche riguardo le relazioni sentimentali… Alcune riferiscono di avere incubi notturni, di essersi sentite private della dignità, di essersi sentite umiliate… Altre ancora affermano di non voler fare altri figli. In linea generale, comunque, i livelli di consapevolezza non sono elevatissimi, spesso è ancora considerato normale soffrire e quindi non ci si rende nemmeno conto del fatto che provare queste sensazioni non va bene”.

Basta tacere e l’Osservatorio Italiano

In Italia la consapevolezza sul tema è ancora bassa. Anni fa, l’11 marzo 2016, il senatore Renato Zaccagnini ha depositato una proposta di legge chiamata “Norme per la tutela dei diritti della partoriente e del neonato e per la promozione del parto fisiologico” finalizzata al riconoscimento della violenza ostetrica come reato, rimasta inascoltata.

Per questo Alessandra, assieme a Elena Skoko e altre donne che avevano vissuto un’esperienza di parto negativa, nell’aprile del 2016 hanno dato vita alla campagna “Basta Tacere: le madri hanno voce”. 15 giorni in cui le donne sono state invitate a scrivere su un foglio bianco in una o due frasi la loro esperienza di parto, sintetizzando il loro vissuto ma senza fare nomi, per poi fotografarlo e postarlo sulla pagina della campagna. “Abbiamo raccolto oltre mille testimonianze in formato foto o cartello e tantissime altre attraverso interazioni e commenti. Così anche i media hanno iniziato a interessarsi al fenomeno e al termine della campagna è nato l’Osservatorio, per continuare a raccogliere le testimonianze e affermare la necessità di riconoscere questo problema”.

A partire dal lancio della campagna e della nascita dell’osservatorio le donne che sentivano (e tuttora sentono) di aver subito abusi o ingiustizie durante la propria esperienza di parto, hanno quindi iniziato raccontare.

Ma andiamo avanti, perché il discorso è complesso e il rischio di generalizzare è dietro l’angolo. Perché nel percorso di conoscenza e di comprensione di un fenomeno così delicato, non si poteva prescindere dal raccogliere dei dati. Così, Ovo Italia, assieme alle associazioni CiaoLapo Onlus e La Goccia Magica, ha commissionato una ricerca Doxa per avere a disposizione dei numeri ufficiali su cui basarsi e da presentare in futuro alle istituzioni. Numeri che sono stati poi aspramente contestati dalla comunità di professionisti che ogni giorno lavorano nelle strutture ospedaliere, che hanno controbattuto con un secondo sondaggio.

L’indagine Doxa commissionata da Ovo

Nel 2017 l’Osservatorio ha commissionato un’indagine Doxa per avere a disposizioni dati più chiari su quante donne si fossero sentite vittime di violenza al momento del parto. L’indagine ha preso in considerazione un campione di 424 donne con figli di età compresa tra 0 e 14 anni, quindi che hanno partorito nell’arco di tempo tra il 2003 e il 2017.

I risultati del sondaggio, pubblicati poi in un articolo sul European Journal of Obstetrics & Ginecology hanno riportato che il 21% delle donne intervistate hanno percepito di aver subito abusi o violenze nel corso della loro prima esperienza di parto. Per 4 donne su 10, (41%), l’assistenza al parto è stata percepita come lesiva della propria dignità e il 54% del campione analizzato ha dichiarato di essere stato costretto a subire un’episiotomia, ovvero un’operazione chirurgia molto invasiva che prevede il taglio chirurgico di vagina e perineo, già dichiarata dall’OMS dannosa e lesiva, a cui il 61% dichiara di non aver dato il consenso informato per l’operazione. Il risultato, sempre secondo lo studio, è la rinuncia del 6% delle intervistate ad affrontare una seconda gravidanza a causa dell’esperienza traumatica subita.

La risposta dei ginecologi e la contro indagine

A queste percentuali, la comunità dei ginecologi e ostetriche ha risposto, tramite una lettera inviata al European Journal of Obstetrics & Ginecology, in cui venivano messe in discussione le modalità di conduzione dell’analisi, sottolineando come l’indagine in questione ledesse “la reputazione dei professionisti del settore e l’immagine del SSN”, suggerendo al lettore “un'ingiusta distorsione della realtà sanitaria italiana e in particolare dell’assistenza al parto e post-parto. La comunità scientifica ha inoltre sottolineato come “l’equivoco di fondo risieda proprio nel non riconoscere che il professionista che segua supinamente la volontà della donna, perfino in contrasto con i dettami della scienza, finirebbe per mettere a rischio la salute delle persone”.

In risposta ai dati del sondaggio di Ovo, poi, Sigo (Società italiana di ginecologia e ostetricia), Aogoi (Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani) e Agui (Associazione ginecologi universitari italiani) hanno realizzato una contro-indagine prendendo in considerazione 11.500 partorienti in 106 punti nascita. Secondo i risultati di questo studio, il 95% delle donne si ritengono soddisfatte dell’assistenza ricevuta e il 92% consiglierebbe la stessa struttura a un’amica.

La questione diventa quindi ancora più complessa e viene affrontata su due percorsi distinti: il primo è la valutazione complessiva di come avviene l’accompagnamento alla nascita in Italia, che si pone come eccellenza rispetto ad altri Paesi del mondo. Il secondo è la necessità di far emergere una problematica che, sebbene rappresenti una percentuale ridotta nel grande panorama della gestione del momento “parto”, non può in alcun modo essere considerata marginale, dal momento che riguarda la salute e il benessere della donna.

“Il sondaggio realizzato da Ovo Italia è stato un’occasione persa. Un vero peccato.” A parlare è il dottor Enrico Ferrazzi, specialista in Ginecologia e Ostetricia, Direttore della Clinica Ostetrica Mangiagalli e coordinatore dell’area Donna del Dipartimento Donna-Bambino Neonato dell’Istituto di Ricerca e Cura a carattere scientifico IRCCS Fondazione Ca’ Grande Policlinico di Milano, nonché professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia dell’Università degli Studi di Milano, che ha sottolineato la non validità scientifica dei risultati della ricerca commissionata dall’Osservatorio.

“L’epidemiologia clinica è una cosa seria. Quando si fanno delle ricerche epidemiologiche su 400 casi spalmati in dieci anni in posti a caso, i risultati sono privi di qualunque significatoQuella ricerca ha soltanto suscitato polemiche, anziché porsi dal punto di vista di chi cerca di risolvere dei problemi che via via si stanno materializzando come l’età della paziente, la comparsa in Italia dell’obesità, le donne di prima immigrazione che non sanno accedere ai servizi sanitari che abbiamo e arrivano al parto in condizioni come le signore alla fine degli anni ’60… Quindi a quel lavoro si è opposta da una parte una valutazione scientifica più accurata, dall’altra però, nei punti in cui sarebbe stato necessario intervenire per modificare le cose, si è creata una maggiore resistenza, scatenando reazioni di tensione anche in casi in cui invece c’è sicuramente una marginalità di aree su cui si cerca di intervenire.”

“L’ostetricia molto di più delle altre branche della medicina ha a che fare con la cultura della società, i valori, con la cultura della famiglia, delle coppie, con quanto lo stato mette a favore della fertilità della nascita… È un crocevia strategico ed è veramente interessante osservare con un occhio attento cosa sta succedendo, cosa sta cambiando, capire se ciò che stiamo facendo dalla parte assistenziale funziona ed è recepito adeguatamente e quant’altro. Il problema è che ciò che emerge da quel lavoro è che in Italia si partorisce così e questo non è vero. In Italia nel 95% dei casi si partorisce discretamente bene. Abbiamo una mortalità materna e neonatale significativamente inferiore a quella inglese, olandese e a quella degli Stati Uniti. La percentuale di cesarei in Inghilterra oggi è superiore di 10 punti a quella della Lombardia, mentre negli Stati Uniti è di venti punti in più. La lesione di terzo e quarto grado del perineo negli Stati Uniti è 40 volte superiore a quello in Italia e in Inghilterra è di 3 volte superiore. Per quanto riguarda i cesarei, in Lombardia abbiamo il 26% dei cesarei, rispetto al 32% inglese e al 45% del Nord America. Certo, abbiamo da imparare ancora per riuscire ad affrontare e risolvere i problemi che ci sono: in alcuni ospedali manca la peridurale, manca la capacità del one to one ostetrico… Mancano tante cose e tante altre sono migliorabili. Però si tratta di trovare un problema, identificarlo e risolverlo rispetto a quella che è la descrizione media della qualità e delle procedure.

Bisogna però distinguere se vogliamo occuparci di descrivere come si nasce in Lombardia, in Italia, oppure se vogliamo individuare i punti deboli della nascita e capire qual è la percentuale di persone che non si trovano soddisfatte e perché. Si tratta però di due cose diverse. Che si voglia giustamente porre l’attenzione a quella marginalità più o meno ampia ma significativa in cui la struttura ospedaliera non è in grado di accogliere assieme alla sicurezza anche la serenità, la cultura del parto, il desiderio, il progetto di nascita della donna è una cosa da fare ed è uno sforzo che noi facciamo tutti i giorni cercando di organizzare al meglio i percorsi che portano al monitoraggio della gravidanza, al parto e al puerperio e all’allattamento. In Lombardia, ma anche in Emilia-Romagna, in Toscana, in Veneto e in Piemonte, i Comitati Percorso Nascita sono attivi dal 2010 e si stanno muovendo per migliorare la qualità dell’assistenza ostetrica, migliorare le sale parto, la rete di assistenza sul territorio, il ruolo delle ostetriche il ruolo dei medici… Solo in Lombardia ci sono solo 4 unità operative sotto i 500 parti delle 150 che c’erano nel 2012 in tutta Italia. È stato fatto un grande sforzo per riorganizzare la rete assistenziale ospedaliera. È un lavoro che era già in corso sia dal punto di vista organizzativo che culturale.”

Vita da ostetrica: Caterina Masè e l’evoluzione necessaria

La storia di maternità di una donna è una storia che la segnerà per tutta la vita. Può essere un’occasione di crescita, di maturazione della propria autostima, di rinforzo delle proprie potenzialità creative che si esplicheranno in tutti gli ambiti della vita… Dall’altra parte può rappresentare anche un’esperienza che ferisce profondamente.

“Quello della violenza ostetrica è un argomento molto complesso che rivela un grande cambiamento culturale, cambiamento che sta attraversando in modo trasversale tutte le questioni che riguardano la violenza.”

Caterina Masé, presidentessa dell’Ordine delle Ostetriche di Trento, da tempo ha scelto di aderire al progetto dell’Osservatorio sulla violenza ostetrica perché desidera conoscere le storie delle donne, sapere cosa dicono, capire in che modo migliorare l’esperienza di parto che poi influirà con il contributo che saranno in grado di dare al mondo. Caterina ritiene necessario che i professionisti sanitari vadano incontro alle rinnovate necessità delle donne, necessità che emergono da un’evoluzione di consapevolezza tuttora in corso. Iniziando a parlare delle storie di parto, infatti, si è innescato un cambiamento culturale che ha fatto smettere di considerare determinate pratiche (insegnate ai professionisti ed esercitate sulle pazienti) come normali e necessarie, permettendo così alle persone di chiedere un trattamento diverso, così come è accaduto con tanti altri fenomeni. E ribadisce come il ruolo del professionista sanitario si stia modificando declinandosi in una prospettiva molto più relazionale e partecipativa con la paziente.

“Sulle storie di nascita c’è stato tanto silenzio, per molti anni. Personalmente ho raccolto storie di donne, alcune molto vicine a me, che in età molto avanzata avevano dimenticato tante cose ma ricordavano molto bene il giorno del parto e le parole e le pratiche che avevano subito e da cui erano state ferite, vissute però da loro come un dovere e quindi una cosa normale.

Oggi posso dire che la situazione è molto migliorata rispetto a quando ho iniziato a lavorare in questo ambito 35 anni fa. Tuttavia si parla molto di più di questo fenomeno non perché i professionisti siano peggiorati, anzi, ma perché a cambiare è stata l’aspettativa delle persone. Oggi quello che fa percepire come “violento” un atto o una pratica è quando io la subisco e non la capisco, non ne comprendo il significato, la reale utilità”.

Noi professionisti dobbiamo accettare che quello che c’è in ballo va molto oltre la valutazione tecnica che ne facciamo.

Secondo l'ostetrica, che sottolinea come la regione in cui lei opera, il Trentino, rappresenti un’isola felice per quanto riguarda questo genere di problematiche, è necessario un cambio di prospettiva, di visione dell’intervento medico. Una messa in discussione che scatena tuttora reticenza e un dibattito polemico che fatica a individuare la propria origine nell’idea che la maternità (e di conseguenza il parto) rappresenta un momento fondamentale nella vita di una donna, e il percorso personale non deve essere in alcun modo sottovalutato.

“Noi professionisti dobbiamo accettare che quello che c’è in ballo va molto oltre la valutazione tecnica che ne facciamo. Ed è quindi necessario mettere al centro anche la dimensione relazionale, che non riguarda più, come accadeva una volta, soltanto ricevere una delega dalla donna e decidere al posto suo, ma consiste nel rendere la partoriente partecipe e consapevole, attiva. Queste nuove circostanze richiedono ai professionisti un riaggiustamento delle modalità relazionali e comunicative anche degli eventi avversi.

La maternità di per sé è un’esperienza di solitudine, è la prima esperienza in cui una donna deve fare i conti con se stessa fino in fondo. Quindi noi non possiamo permetterci di banalizzare il vissuto soggettivo della donna. Se una persona si è sentita male, a disagio, inadeguata, va presa sul serio. Personalmente ho assistito a situazioni che da professionista avrei definito drammatiche ma che dalla donna sono state vissute in modo positivo, e ad altre che invece avrei definito ottimali ma che nel vissuto della persona sono state vissute in modo negativo.”

È quindi la gestione dell’esperienza parto a determinare il vissuto soggettivo della donna, che è unico e personale ma non per questo meno importante.

“Da professionista io devo capire come veicolare le necessità mediche con le aspettative della persona, facendo comprendere l’inevitabilità di alcune procedure e sapendo sostenere le motivazioni. Una volta, all’interno dei percorsi formativi per tutti i professionisti sanitari, questo aspetto era molto meno sviluppato. Oggi c’è una maggiore attenzione proprio perché ciò che la donna si aspetta non è di dare una delega e lasciare che qualcuno che decida per lei, ma di essere coinvolta, informata, resa in grado di capire, pur ovviamente lasciando l’aspetto tecnico al professionista, che deve essere agevolato nel fare ciò che ritiene giusto per la persona. Naturalmente poi non tutti i professionisti sono uguali. Alcuni hanno compreso e approfondito questa necessità in percorsi formativi o di supervisione, altri invece ritengono ancora che questi siano aspetti marginali del loro lavoro. In ogni caso, non penso ci siano professionisti sadici che vogliono fare del male alle persone, ma credo che in alcuni casi ci sia una grossa mancanza di consapevolezza. Dovremmo riflettere sulla conduzione di pratiche considerate normali che invece normali non sono.”

La nascita è un evento bio-psico-sociale. Non solo biologico e meccanico.

Come abbiamo già detto, infatti, tra i modi in cui la violenza ostetrica si manifesta ci sono anche interventi molto invasivi eseguiti senza un reale consenso informato, senza la comprensione della donna di ciò che sta per accadere al suo corpo. Tra questi il parto cesareo e l’episiotomia che in alcune regioni italiane ha raggiunto l’80% e in alcuni studi viene identificata come una mutilazione genitale se applicata come intervento di routine e non a fronte di una reale necessità.

“Alle spalle abbiamo anni e anni di pratiche che non hanno reale ragione d’essere e che vengono vissute come negative, come ad esempio l’allontanamento del neonato dalla mamma subito dopo la nascita.”

Anche secondo l'ostetrica, quindi, è necessaria un’evoluzione culturale in cui la salute della mamma viene messa sullo stesso piano di quella del bambino, con cui è fortemente interconnessa, smettendo di considerarla come un contenitore.

“Quello che rende un’esperienza buona spesso va oltre le categorie che siamo abituati a utilizzare per valutare le cose. La nascita è un evento bio-psico-sociale. Non solo biologico e meccanico. Il bambino è sano se sta bene la mamma, perché la sanità emotiva e psicologica si vede nel tempo ed è data dal benessere di entrambi. Se una donna ha avuto una cattiva esperienza e quindi ha maggiori probabilità di sviluppare una depressione post partum o comunque di vivere quel tempo in modo doloroso, questo influisce molto sullo sviluppo della personalità del bambino. Tutte le volte in cui la mamma è considerata altro rispetto al bambino e viceversa, c’è qualche frattura, qualche mancanza di equilibrio che si ripercuoterà su di loro, in modo consapevole o inconsapevole.”

“Quello che dovremmo fare noi è sviluppare la consapevolezza del fatto che il nostro ruolo non è quello di protagonisti, ma di spettatori che intervengono quando serve, tenendo presente che in natura la maggior parte delle volte va tutto bene. Questo è un paradigma molto diverso da quello che ci è stato dato in formazione, anni fa. Io devo interrogarmi, chiedermi in che modo posso rendere queste storie più felici possibili, capire che non è il pieno controllo a far sì che la storia delle persone vada bene. A me sta a cuore che una donna abbia una buona storia di maternità. È importante. Ne va della storia della gente”.

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