Sono passati 60 anni da uno degli eventi franosi più catastrofici che siano mai avvenuti nel nostro Paese e, probabilmente, nel mondo. Stiamo parlando del Vajont, la valle in cui tra anni '50 e '60 è stata realizzata una diga alta 261,6 m che ha sbarrato il corso dell'omonimo fiume dando luogo ad un lago in gran parte responsabile del collasso di uno dei versanti delle alture che vi si affacciavano.
Alle ore 22:39 italiane del 9 ottobre 1963, una massa di circa 270-300 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal Monte Toc (1.921 m) e scivolando nel lago. Il movimento creò un fronte d'onda alto fino a 250 metri che distrusse i piccoli borghi vicini, superò la diga ad arco a doppia curva e si abbatté con una furia spaventosa su Longarone e altri paesi vicini, uccidendo almeno 2.000 persone. Un evento catastrofico alla cui base vi sono state gravissime volute omissioni nelle relazioni tecniche ed errori di valutazione, per cui questa tragedia poteva essere evitata. Ma facciamo un passo indietro.
L'interesse per la realizzazione di un bacino nella valle del Vajont risale almeno agli anni '20, quando l'allora Società Adriatica di Elettricità (SADE) aveva iniziato le ispezioni nella valle per verificare la fattibilità dell'opera. Risale infatti al 1928 la prima relazione geologica redatta dal famoso Professore Giorgio Dal Piaz che definiva le condizioni "in sostanza non peggiori di quelle che si riscontrano nella grande maggioranza dei bacini montani dell'intera regione veneta".
Il 22 giugno del 1940 la Società chiede ufficialmente l'autorizzazione per la realizzazione dello sbarramento e dell'invaso di circa 50 milioni di metri cubi d'acqua. Il 15 maggio del 1948 i tecnici chiedono una variante di progetto per aumentare la capacità d'invaso di 8 milioni di metri cubi e elevare la quota del pelo dell'acqua del serbatoio dagli iniziali 677 metri a quota 730. Il decreto di concessione per questa variante, viene firmato dal Presidente della Repubblica nel dicembre del 1952 e corredato da una relazione di Dal Piaz che sostanzialmente affermava la presenza di movimenti franosi nell'area senza però indicarne la relativa gravità.
Nel gennaio del 1957 iniziano i lavori di innalzamento della diga. Il 31 maggio dello stesso anno, il Servizio Dighe chiede una relazione geologica adeguata al progetto variato, la SADE si muove chiedendo un documento a Dal Piaz e un parere ad un geologo terzo, tale Leopold Müller. Quest'ultimo è l'unico a parlare chiaramente di pericolo di frane, anche di un milione di metri cubi di roccia, come si legge dalla sua relazione:"..il terreno in sponda sinistra, caratterizzato da ammassi di sfasciume, sui cui verdi pascoli sorgono numerosi casolari è in forte pericolo di frana, sebbene sia una formazione rocciosa. La roccia è ivi molto fratturata e degradata e può pertanto facilmente scoscendere ed essere posta in movimento". Il 25 settembre la SADE decide di inviare al Ministero la versione ufficiale della relazione geologica presentata in bozza dal Prof. Dal Piaz, che escludeva sostanzialmente rischi connessi al pericolo di frane.
La diga viene completata nel settembre del 1959: 261 metri di altezza, 190 metri di lunghezza al coronamento, 725 metri di quota del coronamento, 22 metri di spessore alla base e 3,4 metri alla sommità, 360.000 metri cubi di calcestruzzo e 400.000 metri cubi di roccia asportata. In quello stesso periodo seguono i nuovi dubbi sulla stabilità del versante da parte dell'austriaco Müller per cui viene eseguita un'indagine geofisica, guidata dal Professor Pietro Caloi, che si risolve in un semaforo verde: rocce compatte ricoperte da soli 10-20 metri di detriti sciolti a rischio scivolamento.
Nel 1960 iniziano le prove di invaso. Il 9 febbraio il Servizio Dighe autorizza la SADE a riempire l'invaso di acqua, in via sperimentale, fino a quota 595 metri. La Società aveva già però iniziato ad immettere acqua da circa una settimana. Dopo circa un mese siamo a marzo – si verifica una prima frana che si stacca dal Monte Toc, poco a monte dello sbocco del rio Massalezza. A seguito di questo evento vengono installati i primi capisaldi per monitorare i movimenti del fianco del monte. Ed è proprio a giugno di quell'anno che Edoardo Semenza, geologo e figlio del progettista Carlo, con Carlo Giudici firmano una relazione tecnica commissionata dalla società in cui si evidenzia la presenza di un orizzonte milonitizzato della lunghezza di circa 1.5 km che rappresenterebbe l'orizzonte di una paleofrana con il rischio di un collasso del versante le cui conseguenze vengono definite "difficilmente valutabili". Si tratta della prima volta in cui viene ufficialmente riconosciuto il pericolo di un distacco significativo il cui movimento "potrebbe essere riattivato dalla presenza dell'acqua".
La relazione non raggiungerà mai gli organi di controllo e, a giugno, il Servizio Dighe autorizza il progressivo invasamento fino a quota 660 metri. Il 4 novembre una frana di 700mila metri cubi si stacca dal Toc piombando nel bacino idrico.
Contemporaneamente si forma sul versante sinistro della valle, una minacciosa spaccatura nel terreno lunga 2,5 km e a forma di "M". A seguito di questo evento la SADE decide di svuotare l'impianto e costruire una galleria di sorpasso che, nella prospettiva di un collasso di versante, colleghi i due bacini risultanti. I lavori iniziano il 1 gennaio 1961 tra quota 624 e 614.
A gennaio del 1961, la SADE commissiona al Centro Modelli Idraulici di Nove di Fadalto (Vittorio Veneto) un modello del bacino di Vajont e della diga in scala 1:200, per valutare l'entità di onde provocate da frane che si verifichino dentro il bacino, considerando due fronti di frana, secondo l'interpretazione della relazione di Müller, e una massa complessiva di circa 50 milioni di metri cubi.
Qualche mese dopo, però, il quindicesimo rapporto geologico di Müller indica chiaramente che "il volume della massa di frana deve essere quindi considerato di circa 200 milioni di metri cubi". Secondo il geologo l'unico modo per scongiurare una tragedia sarebbe ormai quello di abbandonare il progetto di invaso: "Alla domanda se questi franamenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente in linea generale; anche se, in linea teorica, si dovesse rinunciare all'esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta, non tornerebbe tanto presto all'arresto assoluto". Gli organi di controllo non leggeranno mai queste parole.
Nello stesso periodo anche il Prof. Caloi, con un documento parallelo, indica il decadimento totale delle proprietà meccaniche delle rocce del versante sinistro del Vajont, "un fenomeno senza precedenti nella letteratura tecnica". I due geologi non si incontreranno mai e non leggeranno mai le rispettive relazioni. A maggio, terminano i lavori della galleria di sorpasso e la SADE chiede l'autorizzazione per riprendere sperimentalmente a riempire l'invaso prima a quota 660 e poi a quota 680 (in ottobre). L'autorizzazione arriverà solo il 16 novembre e solo fino a quota 640, con incrementi non superiori al metro al giorno e l'obbligo di rapporti ogni 15 giorni sullo stato della situazione. La Società aveva però già iniziato a riempire l'impianto quasi un mese prima.
Mentre prosegue il monitoraggio tramite l'installazione di piezometri e sensori di misura, nel 1962, è un rincorrersi di richieste di autorizzazioni della SADE per incrementare sempre più la quota d'invaso fino a raggiungere nel periodo tra maggio-giugno quota 700. A questo punto il Monte Toc (che nel dialetto locale significa "marcio") inizia a farsi sentire con scosse sismiche che scuotono la valle. A fine anno la SADE viene inglobata dall'Ente Nazionale Elettricità: nasce l'ENEL.
Si arriva così al 1963. Dopo avere toccato la quota massima di 700, iniziano cicli di svaso e invaso che portano poi il livello alla quota di 715, autorizzata dal Servizio Dighe senza un parere scritto della Commissione di Collaudo. Scosse telluriche, intorbidimento delle acque, alberi abbattuti e l'apertura di vistose spaccature nel terreno segnalano che la situazione sta rapidamente precipitando. Una condizione allarmante per il sindaco di e Erto-Casso che scrive alla prefettura di Udine per chiedere provvedimenti urgenti, senza ottenere risposta alcuna. Il 4 settembre il livello dell'acqua tocca quota 710, a questo punto i movimenti del terreno sul Monte Toc sono piuttosto evidenti. Per questa ragione si decide lo svaso. Smottamenti, crepe, alberi inclinati e boati, il Toc si muove. La sera del 7 ottobre, due giorni prima della tragedia, viene dato ordine di far sgomberare la montagna, con esclusione delle frazioni di Pineda, Liron e Prada. In poche ore gli abitanti lasciano le case, ma l'evacuazione sarà progressivamente resa difficile dal movimento della montagna: alcune strade diventano presto impraticabili.
Alle ore 22:39 la montagna cede. Un'unica massa di 260 milioni di metri cubi scivola a circa 100 km/h verso il serbatoio che, in quel momento, è a quota 700,42. Si forma immediatamente un'onda di acqua e fango del volume stimato in 50 milioni di metri cubi, che divide in due. Una investe i villaggi di Frasein, San Martino, Col di Spesse, Patata, Il Cristo e poi Casso e Pineda. L'altra parte, sorpassa la diga, che rimane praticamente intatta, raggiungendo rapidamente Longarone, Codissago, Castellavazzo, poi ancora Villanova, Pirago, Faè, Rivalta, per poi proseguire lungo il corso del Piave. Muoiono 1.917 morti: 1.450 a Longarone, 109 a Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 persone originarie di altri comuni. I paesi della valle sono cancellati, alcuni corpi purtroppo non verranno mai ritrovati. L'unica opera che, assurdamente, resta in piedi è la diga.
Poche ore dopo la tragedia, per volontà del Ministro ai Lavori Pubblici, viene nominata una Commissione di inchiesta sulla tragedia. Insediata il 14 ottobre, la Commissione consegna una relazione sull'accertamento delle cause di questa catastrofe in 3 mesi.
Il 20 febbraio 1968 il Giudice istruttore Mario Fabbri deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin, Augusto Ghetti. Penta e Greco sono nel frattempo deceduti. Il processo inizia a L'Aquila il 29 novembre dello stesso anno. Il 17 dicembre 1969 si conclude il primo grado di giudizio: l'accusa chiede 21 anni per per tutti gli imputati per disastro colposo di frana e disastra colposo d'inondazione, aggravati dalla previsione dell'evento e omicidi colposi plurimi aggravati. Vengono condannati a sei anni di reclusione Biadene, Batini e Violin, per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. Ma non viene riconosciuta la prevedibilità della frana. Il 3 ottobre del 1970 la sentenza d'Appello riconosce la totale colpevolezza di Biadene e Sensidoni che vengono rispettivamente condannati a 3 anni e 1 anno e mezzo di reclusione (pene poi leggermente ridotte in Cassazione). Violin e tutti gli altri vengono assolti.
Nel 1982 la Corte Suprema di Cassazione ha obbligato l'Enel al risarcimento dei danni quantificati in lire 480.990.500 per beni patrimoniali e demaniali perduti; lire 500.000.000 per danno patrimoniale conseguente alla perdita parziale della popolazione e conseguenti attività; lire 500.000.000 per danno ambientale ed ecologico. La vicenda si è conclusa poi nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra Enel, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno.
La tragedia del Vajont è stata, purtroppo, di particolare importanza anche per comprendere l'influenza della presenza di serbatoi montani sulla stabilità dei pendii adiacenti, in particolar modo quando insistono frane profonde, non rilevate o pienamente indagate in fase di progettazione.
La realizzazione di un serbatoio montano, infatti, determina sempre un cambiamento nella distribuzione della pressione dell’acqua interstiziale all’interno delle rocce di pendio che devono accogliere una nuova falda freatica fluttuante. Cambiano dunque le cosiddette "tensioni efficaci", secondo il cui principio una variazione delle stesse comporta una variazione della resistenza al taglio delle rocce e dunque il superamento di determinate condizioni di equilibrio. A tal fine è fondamentale indagare in modo molto approfondito aspetti geologici, geomorfologici, geostrutturali, idrogeologici e geomeccanici, per individuare e caratterizzare ammassi rocciosi o di terreno precedentemente franati: le cosiddette "paleofrane".
Nel caso specifico del Vajont il versante del Monte Toc è -era- caratterizzato dall'affioramento di un ammasso roccioso sedimentario multistrato, caratterizzato da sottili strati calcarei (1–10 cm di spessore) alternati a sottilissimi interstrati argillosi (0,1–2 cm) appoggiati ad una sequenza calcare di base (la Formazione di Fonzaso del Giurassico medio-superiore). Si trattava di un corpo già in movimento nel passato, una paleofrana dunque, con uno spessore della zona di taglio stimato in 30-60 metri al piede del Monte Toc e composta da materiale caotico con ammassi rocciosi, ghiaia calcarea e letti di argilla.
Le procedure di riempimento e abbassamento del livello dell'invaso e dunque della pressione interstiziale delle rocce serbatoio, avrà probabilmente diminuito fortemente la resistenza al taglio delle rocce, facendo variare inoltre le concentrazioni di stress all'interno dell'ammasso con la frantumazione delle rocce e dunque la riattivazione della paleofrana che ha portato al drammatico collasso di sessant'anni fa.
Oggi, la pianificazione di infrastrutture simili deve necessariamente prevedere un confronto tra osservazione della realtà fisica e modellazione numerica. Comprensione delle condizioni geologiche e geomeccaniche, indagini di laboratorio, osservazioni e monitoraggio anche attraverso le più avanzate tecnologie, chiarezza e trasparenza nella condivisione della documentazione, sono elementi fondamentali per assicurarsi che tragedie come questa non accadano mai più.