![](https://static.ohga.it/wp-content/uploads/sites/24/2024/07/ciaopeople_A_vacation_scene_where_a_traveler_a_young_woman_with_343b8a92-113b-4527-bc92-b86dd798ea73.jpg)
Batteva, il cuore che un uomo di 69 anni con una cardiomiopatia post-ischemica in fase terminale ha ricevuto nel proprio petto.
Batteva e non ha mai smesso di farlo: non quando è stato espiantato da un altro paziente e nemmeno durante il viaggio che lo ha trasportato il reparto di cardiochirurgia dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale.
Normale, potresti pensare visto che si tratta di un trapianto e un organo – qualunque esso sia – deve garantire di poter funzionare.
In realtà, però, fino ad oggi un trapianto di un cuore era possibile solamente dopo che l’organo era stato arrestato attraverso l’impiego di soluzioni specifiche per poterlo trasportare e poi impiantare nel torace del nuovo paziente.
Quello eseguito a Udine su un paziente ricoverato in terapia intensiva e dipendente da sistemi meccanici di assistenza cardiocircolatoria rappresenta dunque il primo trapianto cardiaco a cuore battente mai effettuato in Europa: una pagina di letteratura scientifica che apre a molte, innovative, strade.
Sì, perché con le tecniche convenzionali poteva succedere che un cuore rimanesse fermo e non perfuso anche per 4-5 ore, un tempo variabile anche a seconda della distanza tra il luogo del prelievo e quello di destinazione e anche dalle modalità di trasporto.
Un tempo che, più si dilatava, più rischiava di compromettere in maniera irreparabile la ripresa del cuore.
Le nuove tecniche hanno invece azzerato questi rischi. Non solo. Il trasporto dell’organo attraverso un sistema di preservazione in normotermia, associato al successivo impianto senza dover nuovamente arrestarlo, ha permesso di ridurre il tempo di ischemia a soli 35 minuti.
L’intervento in più ha aperto nuovi orizzonti per la preservazione del cuore e, allo stesso tempo, ha promette di aumentare la disponibilità di organi utilizzabili ampliandola anche a una gamma dei cosiddetti cuori “marginali”, quelli che oggi sono considerati fuori protocollo.
Questo, come puoi capire, consentirebbe di allargare il numero di pazienti trapiantabili e quindi, in prospettiva, poter salvare ancora più vite.
Fonte | Azienda sanitaria universitaria Friuli centrale