Spesso pensiamo alle piante come le nostre uniche alleate naturali per catturare CO2, senza renderci conto di come la presenza di determinate specie animali possa contribuire allo stesso obiettivo. Ma in che senso? Come è possibile il fatto che in un luogo se ci sono più lupi, più bisonti, più balene quell’habitat cambi di aspetto e sia catturata più CO2 rispetto a un altro luogo dove ce ne sono di meno?
È proprio questo uno dei temi più caldi del nostro decennio: proteggere o reintrodurre animali all’interno di un habitat può aiutare a catturare più anidride carbonica oltre a produrre a catena una serie di altri benefici. Vediamo qualche esempio e di rispondere a queste domande.
Nel 1921 i bisonti europei si estinguono in natura e ne sopravvivono solo 54 in cattività. Parte di quei 54 bisonti vengono reintrodotti in natura. Tramite le operazioni di reintroduzione in natura, oggi il numero di bisonti europei conta circa 7000 esemplari, con effetti unici sull’ecosistema.
Il bisonte ha un impatto molto forte sulla vegetazione circostante: mantiene aperti i terreni, limita la crescita dell’erba, riducendo il rischio di incendi, assume grandi quantità di carbonio delle praterie, espulso negli escrementi, e incorporato dagli insetti nel sottosuolo, impedendone il rilascio in atmosfera, e permettendo a tanti semi di piante ingerite di disperdersi e di far nascere nuove piante che contribuiranno a loro volta a catturare CO2.
Tra il 2014 e il 2021 vengono reintrodotti 105 esemplari da parte di Rewilding Europe nella parte meridionale dei Carpazi. Secondo un recente studio dell’Università di Yale, i 170 esemplari di bisonti figli di quella reintroduzione, contribuirebbero, per tutte le ragioni sopracitate, a rimuovere dall’atmosfera l’equivalente della CO2 prodotta da 43 mila macchine negli Stati Uniti in un anno e nella migliore ipotesi di 123 mila auto in Unione europea.
Spostiandoci dall’Europa dell’est alla savana africana, per vedere come i parenti africani dei bisonti, gli gnu, producono praticamente lo stesso effetto seppur in un habitat diverso. Il Serengeti, in Tanzania, immagazzinerebbe oggi fino a 4,4 MtCO2 in più rispetto a quando la popolazione di gnu era ai suoi minimi storici.
In Africa, c’è un altro alleato meno prevedibile nella lotta al cambiamento climatico: l’elefante. Gli elefanti sono letteralmente i giardinieri del bush africano: sono responsabili della potatura di alberi, aprono passaggi, con i loro escrementi fertilizzano un suolo arido e denutrito di nutrienti e, mangiando frutti di quasi più di cento specie arboree differenti; inoltre, come già visto per altri animali contribuiscono alla disseminazione dei semi degli alberi di savana e di foresta, che in alcuni specie può avvenire soltanto con la cacca degli elefanti, dato che la germinazione della pianta può avvenire soltanto se i semi sono stati prima digeriti allo stomaco di un elefante.
Insomma, per alcune piante “No elephant, no party!”. E se parliamo degli elefanti di foresta (loxodanta cyclotis), cugini più piccoli per dimensioni rispetto ai più grandi elefanti di savana (loxodanta africana), è stato osservato come in Africa centrale, ognuno di loro contribuisse, tramite la diffusione dei semi, presenti nelle loro feci, di alberi a crescita lenta con alta densità di legno, a catturare circa 9500 tonnellate di co2 per ogni chilometro quadrato.
La conservazione di queste specie, tra le prime vittime di bracconaggio (ne viene ucciso uno ogni 15 minuti), è indispensabile anche per i benefici apportati agli habitat. Ogni singolo elefante contribuirebbe a rimuovere le emissioni CO2 nette prodotte da 2047 auto in un anno.
Non sono solo gli animali terrestri a esserci alleati in questo senso. Nel mondo sottomarino, forse, il migliore rappresentante nella cattura di carbonio è un altro gigante: la balena. In primis, quando muoiono le balene, grandi immagazzinatrici di CO2, tutta l’anidride carbonica che hanno immagazzinato durante la loro vita viene portata sul fondo dell’oceano, dove rimane per secoli, evitando la dispersione in atmosfera.
Cosa che non accade invece quando rimangono spiaggiate. Ma anche durante la loro vita, c’è un altro aspetto che gioca un ruolo fondamentale, e, indovinate un po’: “sono di nuovo gli escrementi”. Le feci della balene sono ricche di ferro e sono un fertilizzante perfetto per il fitoplancton, responsabile da solo del 40% dell’assorbimento della CO2 in atmosfera. Diversi studi hanno attestato l’importanza di questo animale nel giocare un ruolo chiave nella cattura della CO2 e come la ripresa della salute di tante specie di balene, dopo essere state portate sull’orlo dell’estinzione a inizio Novecento e averne decimato l’80% della popolazione originaria, sia fondamentale anche per questo obiettivo.
Non sono però solo dei giganti buoni, spesso in cima alla catena alimentare, a essere alleati per il clima, ma spesso anche creature più discrete, come cozze e ostriche.. Proprio per produrre il carbonato di calcio necessario allo sviluppo dei loro gusci, i molluschi devono disporre di concentrazioni costanti di ioni di carbonato. Purtroppo, a causa dell’attuale problema di acidificazione degli oceani, i livelli di ioni di carbonato diminuiscono e questo squilibrio ha rallentato la produzione di carbonato di calcio da parte di organismi marini come coralli, alghe e fitoplancton. Quindi, tra tutte le specie citate rimangono anche quelle più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, e quelle che diminuiscono il loro potere di fronte alla maggiore acidificazione degli oceani.
In conclusione, l’aumento per via dell’uomo attraverso reintroduzioni, o la conservazione maggiore di una specie in pericolo, per sortire lo stesso effetto, è un tema, spesso fuori dal dibattito riguardante la crisi climatica. L’attenzione viene solitamente concentrata sulle tecnologie, e, quando si parla di biodiversità, focalizzata solo sulla parte di vegetazione. Considerare centrali temi come quelli relativi alla salute di specie animali alleate potrebbe permettere risultati fondamentali fornendo un prezioso strumento per la conservazione degli habitat e l’assorbimento di CO2.