Il lato umano che sottosta a una diagnosi di tumore molto spesso è nascosto da litri di retorica, ad esempio, quella che ha a che fare con tutto il campo semantico della guerra. I malati oncologici sono dipinti come combattenti senza paura, come eroi che, una volta terminate le cure, non solo recuperano tutte le funzionalità di prima e sconfiggono il male che si era impossessato di loro, ma subiscono anche una sorta di rivelazione. Storie come queste, per quanto ci rincuorino, spesso sono solo trama per le pellicole cinematografiche.
Il cancro, quando arriva, non porta con sé le "istruzioni per l'uso". Non c'è un modo "giusto" e uno "sbagliato" con cui conviverci, così come non ci sono timori, emozioni e comportamenti standard, adattabili a tutti. Questo ce l'ha ricordato bene Harley Zuriatti, 27 anni, che l'anno scorso ha ricevuto la diagnosi di adenocarcinoma endometrioide, un tumore che colpisce l'endometrio, la mucosa che riveste la parte interna dell'utero.
Le strutture sociali che condizionavano Harley volevano che affrontasse tutto il percorso senza paura, senza affondare mai nello sconforto. Aveva (e ha) una relazione stabile quindi sentiva di doversi sposare e avere un figlio, perché è questo ciò che la società si aspetta da una giovane donna. Questo cancro, però, l'ha fatta scontrare con l'impossibilità di avere una gravidanza. Quello che pensava avrebbe dovuto essere il suo futuro si è sgretolato in pochi secondi ma, con il tempo, ha maturato un'altra idea di sé. Quella di una donna libera e consapevole di ciò che vuole.
Ciao Harley, raccontaci di te e della malattia che hai avuto. Come l'hai scoperto?
Ciao, sono Harley. Un anno fa, a 26 anni, ho scoperto la mia malattia, un tumore all'endometrio già al 4º stadio metastatico. Aveva colpito anche l'osso dell'anca, i linfonodi e alcuni tessuti molli della zona pelvica. Ho fatto sempre controlli di routine annuali, ma me ne sono accorta perché ho avuto un periodo in cui le mestruazioni erano più abbondanti con grumi di sangue. Pensavo fossero sbalzi ormonali o stress. Poi un giorno mi viene un'emorragia molto, molto intensa, e da lì divento praticamente anemica. I medici credevano fosse un aborto interno. Dopo un'isteroscopia ho scoperto di avere un adenocarcinoma infiltrante, quindi un tumore all'utero. Ovviamente i primi momenti sono stati di follia, sono quasi svenuta. Ero in un momento della mia vita molto felice. Avevo appena comprato casa, stavo aprendo partita Iva, stavo entrando anche in una sorta di stabilità familiare. Ero nel pieno della voglia di vivere.
Appena dopo la diagnosi, qual è stato il tuo primo pensiero?
Mi hanno detto subito che, dopo l'operazione, al 90% non avrei più potuto avere figli e il mio primo pensiero, che adesso giudico folle, è stato: "piuttosto mi tengo il tumore ma facciamo un figlio subito". È stato devastante. Proprio per questo quando avrei dovuto operarmi ho temporeggiato. Sono arrivata a un punto in cui dicevo che avrei preferito morire piuttosto che operarmi.
A cosa fa riferimento la parola "guerriera"? Contro chi devo fare una guerra?
E poi come hai reagito?
Ero immersa in una bolla. Mi sentivo di dover essere la guerriera di turno che non ha paura e che non si permette di piangere. Ero molto arrogante, ero sicura avrei sconfitto il cancro e mostrato a tutti quanto fossi forte. Ma poi ho razionalizzato e mi sono chiesta: "a cosa fa riferimento la parola "guerriera"? Contro chi devo fare una guerra?". Ho sempre vissuto il tumore come una parte di me quindi non ha senso odiarlo. Anche la malattia è parte del mio corpo. Detto questo è ovvio che bisogna cercare di guarire, ma senza provare rabbia.
Quali sono le certezze che il cancro ha messo di più in discussione?
Quando ho saputo definitivamente che mi sarei dovuta operare è come se avesse subito un lutto, ma non per il tumore, per l'infertilità che ne sarebbe conseguita. Di solito una persona con il cancro ha paura di morire, io no perché ero convinta di sconfiggere il tumore e di volere un figlio. Poi ho capito che, non solo non sono invincibile, ma che forse pensavo di desiderare una gravidanza solo perché la società ci ha insegnato questo. Che il percorso da seguire è comprare casa, sposarsi e fare un figlio. Avevo proprio questa struttura sociale ben articolata dentro di me su cui non avevo mai davvero riflettuto.
Ero convinta di essere la donna più libera del mondo e che l'atto di generare corrispondesse unicamente al mettere al mondo un bambino. Ora credo che donna e uomo possano generare nuova vita in moltissimi modi che siano creare un progetto, scrivere un libro, in generale direzionare l'energia verso qualcosa rimarrà anche dopo la propria morte.
In cos'altro ti senti diverse rispetto a prima della diagnosi?
Ho molta più empatia. Prima di dire o fare qualcosa mi chiedo sempre come possa stare l'altra persona. Mi sento sicuramente più matura, mi sento donna. Sono consapevole del mio corpo, della mia mente e di ciò che voglio. Prima vivevo negli schemi sociali.
Ora come stai?
Mi sono appena operata e sto aspettando gli ultimi esami istologici. Probabilmente si parla già di follow up quindi sono alla fine di questo percorso durato un anno. Penso che tutto quello che ho sentito e vissuto sia giusto. Doveva andare così.