Continuando a sfruttare i suoli potremmo causare nuove pandemie: uno studio individua le zone del mondo a rischio spillover

Il continuo e progressivo sfruttamento dei suoli per la creazione di allevamenti intensivi e monocolture ci avvicina sempre di più ai virus zoonotici nascosti nella natura. Distruggendo gli ecosistemi, infatti, ci priviamo della nostra principale difesa dalle nuove malattie: la biodiversità. Un team di ricercatori ha individuato i luoghi in cui l’effetto spillover potrebbe essere più probabile proprio sulla base di questi fattori.
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Sara Del Dot 5 Giugno 2021

Più distruggiamo, meno siamo protetti. Più natura eliminiamo, meno barriere abbiamo contro nuovi virus. E più ce ne disinteressiamo, maggiori sono le probabilità che altre pandemie ci colpiscano.

Sebbene non sia ancora certa l’origine del SARS-CoV-2, è ormai chiaro che il modo in cui ci rapportiamo con i territori e gli habitat naturali potrebbe provocare le condizioni ideali affinché malattie come questa fuoriescano dalla loro sede naturale raggiungendo altre specie (e noi).

Il timore più grande, oggi che grazie alla somministrazione dei vaccini pare di vedere una luce in fondo al tunnel, è la possibilità che una situazione come quella che stiamo vivendo possa riproporsi in forma diversa. E ad aiutare a comprendere una situazione del genere, è giunto in soccorso un nuovo studio, pubblicato su Nature Food e condotto da Maria Cristina Rulli del Politecnico di Milano in collaborazione con University of California, Berkeley e Massey University in Nuova Zelanda. L'obiettivo è individuare quali possano essere i punti del mondo maggiormente a rischio di nuove pandemie, dei veri propri hotspot in cui l’effetto spillover potrebbe essere favorito da alcune variabili quali la presenza di allevamenti intensivi, la frammentazione delle foreste, la grande densità di popolazione.

“A differenza della deforestazione, che consiste nell’eliminazione di aree molto ampie di foreste, la frammentazione interessa piccoli spazi di alcuni ettari in cui vengono eliminati gli alberi ma che rimangono a stretto contatto con la foresta circostante. Come se in mezzo a una foresta ci fossero delle chiazze vuote”, racconta Maria Cristina Rulli, co-autrice dello studio e professoressa ordinaria del Politecnico di Milano. Già del 2017 la ricercatrice aveva pubblicato un articolo scientifico riguardante lo spillover di ebola, valutandone la correlazione con la frammentazione delle foreste. “Queste chiazze in mezzo alle foreste sono spesso adibite a terreni per agricoltura e allevamenti intensivi. Ciò fa sì che l’uomo, coltivando o lavorando in questi spazi, si avvicini alla natura, aumentando le probabilità di contatto tra mondo umano e mondo animale, che funge da serbatoio di questi virus zoonotici. A questo avvicinamento si aggiunge il fatto che spesso gli animali allevati per fini zootecnici sono immunodepressi e possono quindi facilmente fungere da intermediari. Ecco come aumenta la probabilità di spillover. Questo ragionamento era già stato compiuto nel corso della ricerca sull’ebola, ed è stato il punto di partenza di questo nuovo studio."

Sulla base di questi presupposti il team, composto da 3 scienziati dell’ambiente e un virologo, ha cercato di capire dove e come le modifiche cui stiamo sottoponendo l’ambiente possano avere un ruolo nello spillover delle zoonosi.

“Abbiamo delimitato l’habitat del pipistrello ferro di cavallo, animale scelto per condurre questo studio dal momento che ospita una grande varietà di Coronavirus. Il suo spazio si estende per 28 milioni di km quadrati, dal Portogallo fino all’Asia, prendendo anche una parte dell’Australia e un po’ di Nord Africa. Una volta definita l’area di interesse, abbiamo analizzato l’uso del suolo e cercato di capire se emergessero pattern particolari che potessero favorire l’avvicinamento o la frequenza di avvicinamento tra mondo animale e mondo umano. Ciò che è emerso è proprio il risultato dell’articolo, ovvero che esistono zone definite “hotspot” in cui si verifica una concomitanza di tre fattori fondamentali, quali la presenza di allevamenti intensivi, la frammentazione delle foreste e la presenza umana. Si tratta di zone prevalentemente presenti in Cina, ma in alcuni casi anche altrove.”

In pratica, perché un’area possa essere definita ad alto rischio, un hotspot, deve presentare livelli alti di frammentazione, una consistente presenza di allevamenti intensivi e alta densità di popolazione umana.

Ma lo studio non riguarda soltanto una valutazione delle zone già ad alto rischio. Infatti il team di ricercatori ha voluto individuare anche i luoghi in cui questi tre fattori sono presenti ma non a livelli allarmanti e potrebbero quindi diventare hotspot con una leggera variazione in uno dei tre indicatori.

“Abbiamo determinato quali zone si trovino in questo stato e capito quale sia l’indicatore che bisogna tenere d’occhio per non compiere azioni che possano trasformare questa zona in zona ad alto rischio. Questa parte dell’analisi è importante perché offre degli elementi per prevenire eventuali spillover. Per fare un esempio, una zona può avere tanti allevamenti intensivi, tanta popolazione umana ma poca frammentazione, quindi conservare quella barriera che salvaguarda gli esseri umani dall’effetto spillover. Basterà però aumentare il consumo di suolo per far venire meno questa barriera e trasformare questa zona in zona ad alto rischio. Lo stesso può accadere con aree che hanno pochi allevamenti intensivi ma tanta frammentazione e tante persone: qui bisognerà assicurarsi che il numero degli allevamenti non cresca.”

E alla domanda se sia più auspicabile intervenire nelle aree già hotspot o in quelle che rischiano di diventarlo, la professoressa risponde che bisognerebbe intervenire in tutte. In quelle già hotspot perché potrebbe accadere qualcosa di irreparabile e quindi sarebbe necessario mettere in pratica una grande sorveglianza delle patologie in modo tale che al primo verificarsi di un caso sospetto questo venga identificato e isolato, ma anche strategie di riduzione del rischio, diminuzione degli allevamenti, ripristinare la frammentazione attraverso la riforestazione, che però è una pratica difficilissima dal momento che implica la ricostruzione di interi ecosistemi. Nelle zone che ancora non rappresentano hotspot, invece, è necessario effettuare intensi monitoraggi e creare politiche del territorio che tengano conto della necessità di mantenere determinati standard di sicurezza.”

Una questione, quella dello sfruttamento del suolo e in generale degli habitat naturali e dei loro abitanti, da tempo messa sul piatto come chiave di volta di una transizione realmente sostenibile. Ciò che manca, forse, è la capacità di vedere l’ambiente, il clima, la natura e l’uomo come tanti colori dello stesso quadro, diversi elementi di uno stesso sistema.

“Non è un caso che si parli di visione One Health. Perché la salute umana, quella dell’ambiente e quella degli ecosistemi vanno di pari passo. Dobbiamo essere in grado di vedere il benessere a 360 gradi, includendo una visione a lungo termine. Purtroppo siamo sempre stati abituati ad ambire a una risoluzione dei problemi immediata, mentre per queste cose è necessario uno sguardo più lungo. Lo sviluppo sostenibile può essere sostenibile esclusivamente se preserviamo le risorse per le generazioni a venire. E, per un cambiamento, oggi avremmo a disposizione le condizioni migliori. Speriamo vengano colte.”