Alle prime luci dell’alba la città è deserta e muta. Le finestre illuminate del pronto soccorso si stagliano nella semi-oscurità, come fossero gli occhi sbarrati di quell’edificio vecchio e un po’ austero messo a guardia delle porte di Crema.
Accendo la luce. Nell’angolo dello studio una dottoressa sonnecchia rannicchiata su una poltrona logora coprendosi con un lenzuolo. Mi muovo silenziosamente e con circospezione per non svegliarla, quando mi accorgo che alza una palpebra. Al mio cenno di saluto risponde con un sorriso appena abbozzato, prima di assestare le spalle anchilosate e rivolgere il capo dall’altra parte per allontanarlo dalla luce. Impiego dieci minuti a prepararmi: divisa, tuta protettiva, camice idrorepellente, un primo e poi un secondo paio di guanti, cuffia, mascherina e occhiali. Finalmente sono pronto. Ho già caldo. Mi faccio forza pensando che non potrò spogliarmi per almeno sette ore. Attraversando il corridoio avverto l'irrefrenabile istinto di mollare tutto e tornare indietro. L’unico pungolo che mi smuove è il pensiero del collega che ha fatto la notte, il quale si aspetta di vedermi comparire da un momento all’altro per andare finalmente a concedersi un po’ di riposo. Lancio uno sguardo allo specchio: sembro un astronauta.
Con passo lento, ma deciso, mi dirigo verso il cuore pulsante del pronto soccorso. In sottofondo mormorano gli sbuffi di aria dei dispositivi per la ventilazione, si sente il gorgoglio dell’ossigeno ritmato dal meccanico clic dei respiratori. È la triste orchestra che accompagna la fine del turno di notte. Ogni tanto qualche colpo di tosse incrina questa calma apparente. L’odore dei prodotti per la sanificazione mi aggredisce le narici. Dentro la sala rossa, sottili linee colorate si rincorrono al ritmo di bip – bip– bip sui monitor multi parametrici, che per tutta la notte hanno vegliato i malati come fiere sentinelle a presidio delle loro postazioni. Al suo interno i medici e gli infermieri, che si muovono con perizia tra le postazioni stipate di macchinari, calibrando ogni gesto, come all’interno degli spazi angusti di un’astronave.
I pazienti sono stati dislocati un po’ ovunque. Abbiamo cercato di sfruttare razionalmente il poco spazio a disposizione, in una sorta di ingegnoso tetris ospedaliero. Alcuni, i più fortunati, si rigirano tranquilli nei loro letti. Altri ancora, in questo preciso momento, combattono una silenziosa battaglia per la vita. E mentre là fuori il mondo ha rallentato il suo incedere impetuoso quasi a fermarsi, a trattenere il fiato, qui dentro, in questo intricato labirinto fatto di stanze e corridoi, la vita brulica irrequieta come in un formicaio che aspetta solo di essere travolto da una secchiata d’acqua. L’unico suono che irrompe a ricordarci dell’esistenza del mondo esterno è il lamento stridente delle ambulanze che si inseguono una dopo l’altra, incessanti. Non ci danno tregua. È l’eco del mondo esterno che sta per travolgerci, di nuovo.
Tra le mura del pronto soccorso, dove le luci sono sempre accese e le finestre quasi assenti, le unità di misura del tempo perdono il loro significato consueto. Sono i ritmi della malattia a scandire la vita di chi ci lavora. Una malattia dal decorso imprevedibile: pazienti che in questo momento sono stabili possono diventare critici nell’arco di poche ore. È imperativo restare in allerta. Tra gli operatori serpeggia una palpabile inquietudine, che tuttavia resta schermata dentro le bianche tute spaziali. La comunicazione non verbale è limitata dalle vestizioni. Per questo abbiamo imparato a riconoscerci dagli occhi, a decifrare lo stato d’animo a partire da uno sguardo. La danza delle pupille dietro gli occhiali ci segnala la vivacità del pensiero, mentre un movimento solo accennato del canto esterno degli occhi è il segno rivelatore di un sorriso: io la chiamo l’ermeneutica dello sguardo.
Dal collega che mi ha preceduto eredito un foglio di consegne di quattro pagine, per un totale di quindici pazienti. Mentre mi illustra i casi più gravi, fatica a restare ancora sveglio. Una volta congedato, per prima cosa faccio un giro dei pazienti: la maggior parte di queste persone non le ho mai viste in faccia. Trattandosi di sistemazioni di fortuna, non esiste una numerazione dei letti, per questo leggo il loro nome sul braccialetto o glielo chiedo direttamente. Mi assicuro che stiano tutti bene. Rifarò il giro solo una volta a metà mattina, e ancora prima di lasciare le consegne al mio sostituto. È impossibile associare stabilmente un nome alle facce, coperte come sono dalle mascherine o dai dispositivi della ventilazione.
In questo contesto è essenziale poter contare sul supporto degli infermieri, i quali essendo delegati alla somministrazione delle terapie, sono anche i nostri occhi sul paziente. La ragazza che mi assiste nel turno di oggi lavorava fino a un paio di settimane fa in un reparto chirurgico. Sono in molti, tra medici e infermieri qui presenti oggi, a essere stati prestati al pronto soccorso dopo che il virus ha iniziato a decimare l’organico. Nell’arco di due settimane, l’organizzazione dell’ospedale è stata stravolta sotto la pressione dell’emergenza: diversi reparti sono stati riconvertiti. Molti oggi gestiscono esclusivamente i pazienti affetti da Covid-19, altri invece continuano a lavorare al regime minimale. L’emergenza ha rimescolato tutte le carte, imponendo anche a coloro che sono notoriamente più refrattari al cambiamento di attingere alle competenze sedimentate negli anni di carriera o, per molti medici, addirittura nei tempi dell’università.
Dall’altra parte del pronto soccorso c’è un collega, un chirurgo in pensione che, come me, arriva da Milano. Ogni tanto ci facciamo visita per discutere un caso o per chiedere un consiglio su come sbloccare qualche intoppo informatico. Negli spazi angusti e un po’ improvvisati degli studi medici siamo letteralmente sommersi dalla carta.
Siamo in due a gestire una ventina di pazienti, tra codici verdi e gialli. Nel frattempo dobbiamo inquadrare i nuovi arrivi, che affluiscono in numero sempre maggiore mano a mano che ci inoltriamo nella mattinata. Per ciascuno di loro impostiamo un percorso diagnostico e la terapia, li monitoriamo per qualche giorno fornendo una prima linea di supporto respiratorio. Alcuni di essi sono destinati ad aggravarsi, tanto da aver presto bisogno di essere intubati, per questo vengono trasferiti nella zona rossa ai colleghi più esperti. Quando li visitiamo, ci raccontano di aver perso da qualche giorno un marito o una moglie, più spesso un genitore. A casa i famigliari sono tutti contagiati. Nei loro sguardi traspare l’angoscia dell’ignoto, ma è un’angoscia composta, dignitosa. Alla fine della mattinata, il pronto soccorso ha in carico una cinquantina di pazienti.
Sono le 14:15. In qualche modo, anche oggi, sono arrivato alla fine del turno. Improvvisamente avverto i morsi della fame e della sete. Non essendo un dipendente dell’ospedale non ho diritto al pasto. Vado nel cucinino per vedere se è rimasto qualcosa da mangiare, perché i bar fuori sono chiusi e non sarò a casa prima delle quattro di pomeriggio. Durante i primi giorni dell’emergenza, spesso arrivavano delle offerte di cibo al personale del pronto soccorso: pizze, focacce, dolci (alcuni davvero squisiti). In questi giorni concitati e drammatici qualsiasi gesto di affetto e solidarietà appare come una rigogliosa oasi di speranza nel deserto dello sconforto. Ma sono passate quattro settimane da quando tutto ha avuto inizio, e non arriva più nulla. L’abitudine deve aver preso il sopravvento. Mi guardo allo specchio: ho il profilo della mascherina che mi solca le guance e il naso. Me ne torno a casa.
Quando mi avvio all’uscita il sole è alto nel cielo. È una bella giornata. “Medici e infermieri siete i nostri eroi” recita uno striscione appeso ai cancelli dell’ospedale. Oggi ci chiamano eroi, ma siamo sempre le stesse donne e gli stessi uomini il cui lavoro veniva quotidianamente mortificato dall’arroganza e dalla maleducazione solo fino a poche settimane fa. Quando questa maledetta calamità avrà esaurito la sua forza, lasciandoci a fare i conti con il suo carico di sofferenza, non siamo in pochi ad augurarci che la figura dell’eroe torni definitivamente ad appartenere al contesto che le è proprio, ovvero quello dell’Iliade e dell’Odissea, e si apra finalmente uno spazio per una riflessione più circostanziata e obiettiva sullo stato del nostro sistema sanitario e sul ruolo delle figure che vi operano.
Eppure, dentro di me, si fa strada, insidioso, il presentimento che quando tutto sarà finito, solo chi è stato testimone diretto di questo straordinario, corale atto di generosità e abnegazione, sia destinato a conservarne il ricordo, come una cicatrice, segno di ciò che è stato e che mai potrà essere dimenticato.