Coronavirus, diario del medico in prima linea: si poteva prevedere? Dialogo tra colleghi

In piena infodemia (epidemia di informazioni), ho intervistato due tra i più grandi esperti italiani nell’ambito delle malattie infettive. Abbiamo cercato di toccare i temi che stanno oggi a cuore alle persone, dalle responsabilità della comunità scientifica, alle caratteristiche del virus, al ruolo dei dirigenti nella riorganizzazione delle strutture sanitarie.
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Dott. Maurizio Cè Medico chirurgo
10 Aprile 2020 * ultima modifica il 22/09/2020

A distanza di oltre un mese e mezzo dall'inizio dell'emergenza Coronavirus in Italia, sono molti gli interrogativi rimasti aperti, anche dalla prospettiva degli operatori direttamente impegnati nell'emergenza. Per questo ho deciso di parlarne con alcuni colleghi autorevoli. Nello specifico, con la professoressa Antonella D’Arminio Monforte, Direttrice della scuola di specializzazione in Malattie Infettive dell’Università di Milano e Primario del reparto di Malattie Infettive dell’Ospedale San Paolo, tra i massimi esperti italiani e internazionali di HIV, e con il professor Pasquale Ferrante, virologo di fama mondiale e Ordinario di Microbiologia presso l’Università di Milano, nonché Direttore Sanitario dell’Istituto Clinico Città Studi di Milano.

Si tenga presente che le due interviste da cui sono tratti i contenuti di questo articolo sono state condotte separatamente nella prima settimana di aprile 2020. Pur nel rigoroso rispetto dei contenuti, abbiamo scelto di integrarle nella forma di un unico discorso. Questa è la prima parte di un lungo dialogo che abbiamo avuto, la prossima sarà pubblicata tra qualche giorno.

Cari colleghi, sono passati quasi due mesi dal primo caso accertato di Sars-Cov-2 a Codogno, tra il 20 e il 21 febbraio. Parliamo di Mattia, quel ragazzo che si pensava essere il “paziente uno” e che poi si è rivelato un caso fra i tanti. Oggi l’Italia sta affrontando una crisi sanitaria senza precedenti, almeno in tempi recenti. Vi chiedo: forti dell’esempio cinese, era realisticamente prevedibile quello che stiamo vivendo?

Prof.ssa D’Arminio: Da un certo punto di vista sì, era prevedibile. Ma un conto è lanciare l’allarme, un altro farsi ascoltare. Il rapporto tra comunità scientifica e mondo istituzionale e politico è complesso.

Noi scienziati dobbiamo attenerci ai dati, ma allo stesso tempo non possiamo prescindere dal nostro ruolo pubblico, il quale ci impone di confrontarci con il problema della percezione del pericolo e con la fiducia che l’opinione pubblica ha in noi. Da questo punto di vista, abbiamo commesso qualche errore di comunicazione?

Prof.ssa D’Arminio: Vede, la comunità scientifica tende sempre ad avere un atteggiamento prudente quando si tratta di mettere in guardia circa una potenziale epidemia. Se si lancia l’allarme, come è accaduto in passato, e a questo non fa seguito l’emergenza, in qualche modo si incrina il rapporto con l’opinione pubblica e le istituzioni. A questo proposito, il confronto con l’Ebola è paradigmatico. L’epidemia di Ebola si è verificata in una zona relativamente remota dell’Africa subsahariana, in cui peraltro ci sono frequentemente delle micro-epidemie che restano confinate per lo più a piccoli villaggi. Nel 2014 era stata coinvolta una grande città e questo ha destato una certa preoccupazione nel mondo occidentale. Abbiamo fatto decine di esercitazioni; alla fine in Europa si è registrato solo qualche caso sporadico. A confronto, l’epidemia scoppiata a dicembre del 2019 in Cina è una storia molto diversa, innanzitutto per il contesto locale. Pensiamo alla densità di popolazione di quella regione e ai rapporti di scambio che quotidianamente intrattiene con l’Europa.

A posteriori è chiaro che leggiamo tutta una serie di segnali convergenti, eppure ci siamo fatti trovare impreparati. La comunità scientifica ha delle responsabilità in questo senso?

Prof. Ferrante: Per iniziare, sicuramente c’è stata una sottovalutazione da parte di tutti: cittadini, istituzioni, e il mondo scientifico, a mio avviso, non fa eccezione. Ci siamo interessati poco alla biologia del virus, probabilmente disorientati dall’esempio della prima SARS, tra il 2002 e il 2003, che si manifestò con un picco di diffusione in giro per il mondo, ma che alla fine non è si dimostrata efficace nello stabilizzarsi come un patogeno umano fisso (ovvero come un virus capace di dare malattia nell’uomo in modo persistente, ndr). Altro caso, per certi versi analogo, è stato quello della MERS, un problema in gran parte ignorato, probabilmente perché presente in zone per lo più desertiche e disabitate. Una parziale giustificazione deriva proprio dal fatto che normalmente si tende a fare ricerca sulle cose che sembrano più impellenti. Tutto questo ci spiega il perché siamo discretamente sprovvisti sia in termini di tecnologia diagnostiche che terapeutiche.

Mi sembra di capire che in una prima fase abbia prevalso una certa sottovalutazione da parte del mondo scientifico, solo in parte giustificata, e questo è valido soprattutto per l’esperienza cinese. A questo ha fatto seguito il problema, ancor più grande, del maturare della consapevolezza da parte delle autorità istituzionali e dell’opinione pubblica. Comunque sia, resta il fatto che la nostra conoscenza della biologia virale è scarsa e ora ci troviamo impegnati in una corsa contro il tempo.

Prof. Ferrante: Certamente. Ancora una volta il confronto con Ebola è significativo. Sia la biologia virale che le caratteristiche della malattia sono profondamente diverse. Dal punto di vista biologico sono tutti e due virus a RNA, ma Ebola è un virus a RNA negativo, mentre il Coronavirus è un virus a RNA positivo, e questi ultimi hanno una tendenza alla mutazione molto più elevata. Ebola inoltre non determina le condizioni per una significativa durata dell’eliminazione virale prima della comparsa dei sintomi, e anche dopo la risoluzione clinica. Inoltre Ebola da una malattia con sintomi severi nella stragrande maggioranza dei casi, questo significa che è più facile riconoscere i casi e isolarli. Da questo punto di vista, ovvero per quanto riguarda le modalità di trasmissione e per la capacità di mutazione, la pericolosità dei coronavirus è molto più alta rispetto ad Ebola (In questo caso si sta parlando di una pericolosità “epidemiologica”, intesa come potenziale impatto sulla salute pubblica; rispetto al singolo individuo, infatti, Ebola è molto più letale, ndr).

Fino a questo punto abbiamo messo in luce le differenze, ma in entrambi i casi si tratta di due virus che hanno fatto il cosiddetto “salto di specie”…

Prof. Ferrante: Esattamente. Gli interessi commerciali, l’aumento della popolazione e le usanze locali sono tutti fattori che spingono le persone a vivere sempre di più in stretta prossimità agli animali selvatici, e in particolare ai pipistrelli, che sono sicuramente i nostri parenti mammiferi più efficaci nel trasmettere virus. Per questo motivo sono fenomeni che dobbiamo aspettarci ciclicamente, a meno di non cambiare le nostre abitudini.

Riassumendo, abbiamo individuato due ordini di fattori, la biologia del virus e le condizioni sociali e geografiche di partenza, che hanno interagito sinergicamente nel favorire la pandemia. Alla luce di tutto questo, siamo stati ingenui a credere che le misure di contenimento della Cina potessero risparmiarci dal contagio?

Prof.ssa D’Arminio: Sotto questo punto di vista, in Italia abbiamo la parziale scusante di essere stati i primi in Europa a dover affrontare l’epidemia, quanto agli altri paesi, non hanno scuse. Dalla Cina all’Italia ci sono voluti due mesi, ma era chiaro che dall’Italia alla Francia, o alla Spagna, il passo sarebbe stato molto breve. Molti colleghi europei con cui sono in contatto mi hanno riferito che il problema principale dal loro punto di vista è stato proprio farsi ascoltare dalle autorità. Prenda la Spagna, per esempio. L’8 Marzo hanno fatto manifestazioni con decine di migliaia di persone per la Festa della Donna – che è una cosa bellissima…

 …ma non era quello il momento.

Prof.ssa D’Arminio: Precisamente.

L’impennata dei casi ha colto tutti di sorpresa, specie nelle fasi iniziali. È evidente che mentre noi ci occupavamo del lodigiano, come se si trattasse di un focolaio isolato in un territorio “vergine”, il contagio si espandeva già sottotraccia nel territorio. Alcuni osservatori ritengono, probabilmente a ragione, che gli ospedali e gli operatori sanitari stessi abbiano avuto un ruolo di primo piano nella diffusione del virus, questo almeno nelle fasi iniziali.

Prof. Ferrante: È probabile che le cose stiano proprio così. Le faccio esempio, riprendendo il caso dell’Ebola. Nel 1976 c’è stata la prima epidemia di Ebola in Zaire, la più importante, prima di quelle recenti in Guinea e in Sierra leone. È significativo il fatto che in quella zona ci fosse un ospedale missionario all’interno del quale, vista l’epoca e le condizioni locali, non si utilizzavano dispositivi monouso (siringhe, ecc., ndr). Un ricercatore dell’OMS, che all’epoca era impegnato in prima linea, ha scritto un bell’articolo a questo proposito sul Financial Times, in cui ipotizzava che un contributo significativo alla diffusione del virus derivasse proprio dal fatto che l’ospedale aveva fatto da amplificatore del contagio.

Quindi è verosimile che anche da noi gli ospedali, da luoghi di salute, in alcuni casi siano diventati luogo di contagio?

Prof. Ferrante: Vede, nelle fasi iniziali le persone non percepivano la reale portata di quello che stava arrivando, e noi operatori con loro. Abbiamo curato i pazienti con la solita attenzione che è sufficiente per i soggetti non infetti (soprattutto per quanto riguarda la trasmissione aerea) e in questo modo, mi permetta di usare un’espressione non medica, ci siamo fatti “fregare” dai portatori asintomatici o poco sintomatici. A mio avviso, ma è tutto da dimostrare, è probabile che la grande quantità di operatori sanitari contagiati si sia infettata proprio in quella prima fase, ovvero quando gli infetti non avevano ancora le manifestazioni classiche e magari arrivavano alla nostra attenzione per altre ragioni. In aggiunta c’è il fatto che si tratta di un virus capace di dare uno spettro molto eterogeneo e sfumato di manifestazioni cliniche. Ancora oggi arrivano nel nostro ospedale pazienti anziani che si presentano per una frattura di femore, in via prudenziale li sottoponiamo ad una TC al torace e salta fuori un quadro suggestivo per Covid-19. Questo rende tutto più complicato.

I molti contagi tra il personale sanitario ha messo in crisi l’organico degli ospedali, in molti casi già sofferente prima dell’epidemia. Attualmente ho diversi colleghi, clinicamente guariti, che vorrebbero tornare al lavoro, ma non possono farlo perché il tampone è ancora positivo o sono in attesa della conferma della negatività del secondo tampone. L’impressione è che sia un virus molto persistente.

Prof.ssa D’Arminio: Certo, anche questo è un punto controverso. Non abbiamo ancora dati certi sul fatto che al tampone positivo corrisponda un virus effettivamente replicante o solo pezzi di genoma. Finché non ne sapremo di più si tratta di una precauzione doverosa (Il tampone si basa sulla tecnica della PCR, che rintraccia frammenti del genoma virale, la cui presenza non garantisce tuttavia l’esistenza del virus completo capace di replicarsi, ndr).

A proposito dei limiti dei test diagnostici, oggi si parla molto dell’opportunità di condurre indagini sierologiche a tappeto. Sono le indagini che ricercano la presenza di anticorpi: il tipo IgM si produce per primo e la sua presenza indica che l’infezione è nella fase acuta, mentre il tipo IgG si sviluppa in una seconda fase, tende a persistere nel tempo e in alcuni casi conferisce immunità.

Prof.ssa D’Arminio: Esistono in commercio numerosi esempi di questi cosiddetti test rapidi. Nessuno è validato. Da quel poco che abbiamo visto danno dei risultati abbastanza “sbilenchi”. La regione Lombardia sta concertando alcuni protocolli di validazione con vari laboratori di microbiologia, in modo da selezionare i test più affidabili e utilizzarli su vasta scala. Quando saranno opportunamente validati potremo servircene. Al momento la diffusione di questi kit al grande pubblico è pericolosa (è notizia di questi giorni che alcuni di questi test stanno ultimando la fase di validazione, si attende il via libera da parte delle autorità, ndr).

E per di più non sappiamo se gli anticorpi siano effettivamente neutralizzanti, ovvero se proteggano dal virus, è corretto?

Prof. Ferrante: Esattamente, per questo motivo, al momento, questo genere di test serve più a corroborare una diagnosi e a fare studi epidemiologici, piuttosto che a darti la patente per andare in giro.

Laureato con Lode in medicina e chirurgia all’Università degli Studi di Milano con una tesi sull’organizzazione anatomo-funzionale del linguaggio umano, ha altro…
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