Debora e la sua storia con l’Epn: la malattia del sangue che distrugge i globuli rossi e in Italia colpisce solo 350 persone

Si chiama Emoglobinuria parossistica notturna, è una patologia genetica rara che porta i globuli rossi alla distruzione e fino a 20 anni fa garantiva una sopravvivenza media di 10 anni. Debora ha scoperto di soffrirne quando aveva 27 anni e come lei, in Italia, solo altre 350 persone ne sono affette.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Kevin Ben Alì Zinati 30 Dicembre 2022
* ultima modifica il 30/12/2022
In collaborazione con la Dott.ssa Alessandra Ricco Dirigente Medico dell’UOC Ematologia con Trapianto del Policlinico di Bari

In pieno agosto Debora non sapeva. Era il 2017 ed era appena tornata da una vacanza all’estero con il fidanzato, da un viaggio che in fretta aveva assunto tutti i contorni di una fuga: dalle temperature roventi dell’Italia, della Puglia in particolar modo, e dagli esami universitari.

La tesi era vicina e tra lei e la laurea magistrale in economia e commercio mancava un solo esame. Il piano di studi recitava «valutazione economica degli investimenti e gestione delle imprese», tradotto: l’ultimo, intenso sforzo.

Debora si stava già preparando. Aveva 27 anni, scalpitava per azzannare il mondo del lavoro e perciò non aveva perso tempo. Da settimane sfogliava i libri, sottolineava, schematizzava. Era stato difficile allontanarsi perché Debora, senza libri, proprio non sa stare ma fermarsi era necessario. Doveva prendere fiato prima dell’apnea dei mesi sotto tesi. Così aveva deciso: parto, stacco e quando torno mi rimetto sotto.

Il rientro a Bari, però, Debora se l’era immaginato diverso. Non si aspettava che il suo corpo ribollisse a causa di una febbre altissima e nemmeno che il suo addome venisse continuamente pugnalato da crampi potentissimi dal seno giù, dritto fino all’ombelico. Non si aspettava di stare così male, né che non riuscisse a muoversi. Debora, però, non sapeva.

Dolori senza lacrime

“La sera prima che salisse la febbre sono uscita con delle amiche, abbiamo cenato fuori e la mattina seguente mi sono svegliata con febbre e crampi: ho pensato che avessi mangiato qualcosa di strano. Passerà, mi dicevo” ha raccontato con un tremolio nella voce ancora percepibile, nonostante i 4 anni di distanza da quella sera di agosto.

mal di pancia

Sì, perché quei dolori non solo aumentarono ma divennero così insopportabili che anche le lacrime ormai non riuscivano più ad uscire: si erano esaurite, come se il male le avesse prosciugate tutte.

“I miei genitori a quel punto chiamarono il 118. Il dolore era diventato insostenibile. Appena arrivati, gli operatori mi fecero una flebo e mi riempirono di domande sul consumo di alcol e cibo nei giorni precedenti”. Debora era appena rientrata dalla Polonia e secondo i medici l’ipotesi più probabile era che, presa dall’esuberanza della vacanza, avesse esagerato con qualche vizio.

Ai suoi continui «no», però, vide nascere il sospetto nei loro occhi, come se non volessero crederle. Ma Debora stava male e non avrebbe potuto reggere spiegazioni più articolate e complicate, così si limitò a ripetere poche parole: “No, niente alcol, fumo o schifezze”.

I medici restarono convinti della prima diagnosi, sembrava non esserci un’altra spiegazione al dolore che le aveva preso praticamente tutto l’addome. Questo perché né loro né Debora sapevano cosa stava succedendo realmente dentro il suo corpo, dentro le sue vene, nel suo sangue.

Sangue e vino

Debora trascorse un’altra notte in compagnia di dolori e fitte all’addome. I farmaci erano riusciti a rendere il tutto più sopportabile, perlomeno quanto bastava per dormire qualche ora.

All’alba, quando il caldo sole di agosto si affacciò alla sua finestra, per Debora cominciò però un altro calvario. “Mi sentivo ancora malissimo, da non reggermi in piedi. Mi trascinai fino in cucina con l’aiuto dei miei genitori e qui svenni. Le mie urine erano diverse dal solito, erano scure e con lo stesso colore del vino. Credevo potessero essere causate dal ciclo mestruale anche se non era ancora in corso. Non sapevo più cosa pensare”. 

Mentre correva in auto al Policlinico di Bari, Debora non sapeva che nel suo sangue era entrata in circolo la bilirubina; che i suoi globuli rossi erano finiti in un processo di distruzione estrema; che si stava velocemente avvicinando al limite per una trasfusione dal momento che la sua emoglobina era arrivata circa a 7 grammi per decilitro di sangue, quando in condizioni normale dovrebbe aggirarsi sui 12.

Entrando nei reparti di malattie infettive, perché qui c’era l’unico posto disponibile, Debora non sapeva che l’emoglobinuria parossistica notturna, una rara e aggressiva patologia ematologica, si era risvegliata all’interno del suo organismo e la stava mettendo in grave pericolo la vita.

Le mie urine erano diverse dal solito, erano scure e con lo stesso colore del vino.

Debora De Franchis

“Al pronto soccorso inizialmente mi dissero che avevo una pancreatite acuta, dovuta non si sapeva bene a cosa”. Così i medici decisero di ricoverarla. Altri dettagli in quelle ore agitate contribuirono a confondere ulteriormente il suo quadro clinico. “Ho sempre avuto la carnagione molto chiara ma in quella stanza d’ospedale ero praticamente bianca, anche le labbra erano tra il bianco e il lilla.

In più aveva perso completamente le forze, non riusciva a sollevare un bicchiere di plastica vuoto, a tenere gli occhi aperti, a muoversi dal letto: come se tra lei e il materasso ci fosse una calamita a tenerli incollati l’uno all’altra.

“Sto per morire?”

Mentre i giorni passavano, i sintomi si attenuavano per poi fare ritorno e colpire con più forza un corpo ormai più simile a una macchina in fase di spegnimento. “Continuavo a chiedere ai medici se avessi un tumore e se stessi per morire. Non capivo”. 

Quando sei in ospedale e dolori mai provati prima invadono il tuo corpo e da ogni angolo dentro di te arrivano segnali anomali, sì: il pensiero che il tuo momento sia arrivato ce l’hai.

La successione cronologica degli eventi che accaddero dopo Debora la ricorda molto bene. Il decimo giorno di ricovero un nuovo medico – un ematologo – capì che stava succedendo qualcosa lì, nel suo sangue ma ancora non era chiaro di cosa si trattasse.

Il dodicesimo qualcuno sembrò aver fatto centro perché le diagnosticarono una malattia molto rara e curabile, diversa però da quella che effettivamente si era risvegliata dentro di lei. Il giorno successivo, il responso venne rettificato. Dopo tredici giorni, Debora finalmente sapeva: era una delle 350 persone in Italia affetta da Epn.

Debora e gli altri 350 in Italia

Prima di quella sera di agosto la malattia non aveva dato alcun cenno e per questo Debora non aveva idea che l’Epn stesse dormendo dentro di lei. Ma nemmeno i medici che l’hanno ricoverata e visitata potevano immaginarlo.

Oggi qualcosa in più si sa anche grazie alle «Notti Rare», l’iniziativa musicale di sensibilizzazione andata in scena la scorsa estate a cavallo tra Bari, Bologna e Bassano del Grappa, ma l’Epn resta comunque una malattia estremamente poco nota. Una di quelle che si studiano sui manuali ma che sul campo si affronta pochissimo.

Si contano quasi 0,5 casi per milione di abitanti e, quando «va bene» si arriva a un massimo di 5 pazienti per milione. Oggi, in Italia, se ne contano appena 350.

Chi conosce bene questa patologia è la dottoressa Alessandra Ricco, dirigente Medico dell’UOC Ematologia con Trapianto del Policlinico di Bari e responsabile del trattamento di diversi pazienti affetti da Epn.

Con lei abbiamo messo l’Emoglobinuria parossistica notturna sotto la lente del microscopio e ne abbiamo ricavato l’identikit. “Si tratta di una malattia rara ematologica, causata dall’acquisizione della mutazione di un gene che coinvolge la cellula staminale emopoietica, quindi non unicamente i globuli rossi anche se questi, più di tutti gli altri elementi che compongono il sangue, riassumono e rappresentano i moventi della sintomatologia di chi ne soffre”. 

In sostanza, è una malattia che distrugge i globuli rossi. Altre informazioni preliminari: tende a colpire più spesso persone giovani e giovani-adulti (anche se gli anziani non sono immuni); affliggendo il sangue, danneggia a cascata un po’ tutti gli organi del nostro corpo; prende il nome dal sintomo più evidente e plateale che la caratterizza: le urine di colore rossastro. Lo stesso scoperto da Debora in agosto.

Il meccanismo dietro le «urine che sembrano vino», ci ha spiegato la dottoressa Ricco, prende avvio dalla morte precoce dei globuli rossi tipica dell’Epn, la cosiddetta emolisi: “In questi casi i globuli rossi si rompono «fisicamente» liberando in circolo le sostanze di scarto in essi contenute, come l’emoglobina, cioè la proteina che conferisce il colore rosso alla cellula e quindi al sangue. Una volta liberata, attraversa i reni per poi arrivare all’urina, alla quale trasferisce il suo colore rossastro. Da qui il termine «emoglobinuria»”. 

L’Epn poi ha altri due caratetristiche. È definita «parossistica» perché questa sua manifestazione non è sempre vera e presente ma può essere episodica e poi anche «notturna»: il maggior accumulo di urina rossa avviene, infatti, durante il sonno.

Non googlare!

L’improvvisa rottura dei globuli rossi però porta con sé anche tutta una serie di sintomi. Sintomi che Debora, in quelle infinite notti di agosto, ha patito uno per uno.

“La diretta conseguenza dell’emolisi – ha aggiunto la dottoressa Ricco – è l’anemia, che causa debolezza, sonnolenza, affaticabilità anche dopo sforzi di lieve entità, e affanno. Oltre poi a una sintomatologia dolorosa, specialmente nelle zone addominali e lombari”. Leggerli in fila oggi, a posteriori, la diagnosi sembra facile.

Dal microscopio della dottoressa Ricco sono emersi poi altri importanti per capire l’Epn. Uno è la sua natura genetica. “Tutti noi quotidianamente sviluppiamo casuali mutazioni a carico di geni. Moltissime di queste sono prive di significato e non hanno un risvolto clinico. Altre, invece, un significato ce l’hanno” ha aggiunto.

Nel caso dell’Epn, la particolare mutazione genetica è acquisita (quindi non ereditaria) e interessa il gene PIG-A, determinando la produzione di globuli rossi, globuli bianchi e piastrine «difettosi» e più sensibili all’attacco dei fattori del Complemento, il sistema di enzimi che media le reazioni infiammatorie.

L'Epn è una malattia rara che provoca la distruzione dei globuli rossi e sintomi come anemia, debolezza, fatica e dolore

Sebbene casuale, si tratta comunque una variazione estremamente diffusiva. “È possibile che le cellule con questa particolare mutazione genetica abbiano un vantaggio nel proliferare o sopravvivere in determinate condizioni – ha aggiunto la dottoressa – e che l’unica singola cellula con quella casuale mutazione dia origine a una famiglia di altre cellule uguali a sé stessa, con la stessa identica mutazione. Parliamo dei cosiddetti «cloni»”. Se uno di questi cloni si ritrovasse all’interno di un ambiente che ne favorisca la sopravvivenza e l’espansione, ovviamente si diffonderà e, con esso, anche la mutazione.

L’altro tratto distintivo dell’Epn è la mortalità. Sì, hai letto bene. La tua stessa espressione, solo moltiplicata per cento, l’ha fatta Debora quando l’ha scoperto. Mentre era ricoverata in ospedale continuava a chiedere informazioni sulla malattia a qualsiasi medico varcasse le soglie della sua stanza e a modo proprio ciascuno cercava di darle brandelli di informazione. Nessuno però riusciva a placare la sua – sacrosanta – curiosità. Su un punto tutti i medici però erano d’accordo: Debora non avrebbe dovuto andare a cercare l’Epn su internet.

E come non farlo? Dopo che passi 13 giorni in ospedale e i medici ti annunciano che sei afflitto da una malattia rara, come fai a resistere? Debora voleva chiedere, capire. Debora voleva sapere.

E ovviamente ha googlato. Sotto «EPN», la prima cosa che ogni sito riportava era la durata media della vita di un malato di Emoglobinuria parossistica notturna, quantificata in una manciata di anni al massimo. “Fino a 20-30 anni fa, prima che le terapia migliorasse esponenzialmente, l’aspettativa di vita di un paziente affetto da Epn era mediamente di 10 anni dalla diagnosi” ha precisato la dottoressa Ricco.

A quel punto, ricevuta quella che Debora ha definito “la batosta”, nella sua testa è iniziato il vortice di pensieri. I miei progetti? La mia laurea? I miei genitori? Il futuro con il mio fidanzato? E io? “Ho avuto paura. In quel momento il mio obiettivo era quello di laurearmi e non volevo che la malattia prendesse il sopravvento sui miei programmi, sulla mia vita. Vedevo le persone attorno a me diventare sempre più tristi e dispiaciute e questo all’inizio ha fatto male”. 

Paure, terapie, progetti e futuro

Anche in ospedale, quando se la sentiva, Debora provava a leggere o quantomeno a sfogliare gli appunti di economia per dare una parvenza di normalità al caos che le era piombato sulla testa. Apriva i suoi libri e cercava rifugio in un mondo sicuro e che fino a quel momento non l’aveva tradita, abbandonata. Ma non era per nulla facile.

La qualità della vita di chi soffre di Epn è fortemente compromessa e dipende dai sintomi che la malattia provoca. Generalmente, ha spiegato la dottoressa Ricco, l’anemia e i sintomi a essa correlata, quindi l’affaticamento o la difficoltà di concentrazione, possono causare importanti limitazioni quotidiane in ambito lavorativo come nella sfera sociale. Chi sviluppa un’anemia significativa può anche dover ricorrere a trasfusioni di sangue. Debora era perennemente stanca, svuotata di qualsiasi forma di energia.

Non volevo che la malattia prendesse il sopravvento sui miei programmi, sulla mia vita.

Debora De Franchis

Ci sarebbe stata però una soluzione. O meglio, un grosso aiuto. I medici lo dissero subito a Debora: terapie per tenere a bada l’Emoglobinuria parossistica notturna esistono, sono disponibili e seppur non risolvano completamente la malattia sono in grado di attenuarne i sintomi, riducendo l’entità delle principali complicanze e migliorando quindi la qualità della vita dei pazienti.

Si sarebbe trattato di sottostare a infusioni per via endovenosa di farmaci inibitori del complemento, con una somministrazione ogni 15 giorni in ospedale. Debora però strabuzzò gli occhi. “Inizialmente non volevo fare la terapia. L’idea di essere vincolata a un farmaco da prendere ogni due settimane andando ogni volta in ospedale mi spaventava parecchio: come potevo conciliare la laurea, il futuro lavoro, la famiglia, gli hobby, i viaggi con il pensiero di recarmi costantemente in ospedale? Volevo essere io a decidere come dominare il mio tempo ha raccontato con un mezzo sorriso.

Debora ha iniziato la terapia: così ha moltiplicato i 10 anni che aveva letto su google

Il ricordo di come il panico sia stato capace di ingannarle la mente e la logica, le sue due più fidate alleate, ancora oggi la sorprende. Glielo avevano detto chiaro e tondo, infatti: queste terapie avrebbero potuto realisticamente moltiplicare i 10 anni di sopravvivenza che aveva letto online. Così cambiò idea.

Una volta rimessa al suo posto la razionalità e tirata fuori una forza che fino a quel momento era rimasta sopita in qualche cantuccio dell’anima, Debora cominciò ad affrontare la malattia allo stesso modo con cui ha guardato in faccia ogni passaggio della sua vita: il liceo, la prima laurea, i lavori.

Ha affrontato l’Epn con coraggio, e con la fiducia nella scienza e nella medicina che non ha mai vacillato, nemmeno in quei giorni di agosto tra dolori, lacrime asciutte e diagnosi confuse.

L’ha sfidata anche con una grande dose di speranza: sapeva infatti che all’orizzonte non c’era solo il farmaco da somministrare bisettimanalmente, ma anche un nuovo farmaco in grado di prolungare a due mesi questa finestra di infusione ma anche medicinali somministrabili per via sottocutanea, i cosiddetti inibitori prossimali del complemento, potenzialmente utilizzabili direttamente a casa propria. “Da quando ho iniziato la terapia la stanchezza si è leggermente attenuata e soprattutto non ho più crisi emolitiche improvvise, con picchi di febbre, dolori e assenza di forze. I valori ematici poi sono decisamente migliorati”.

Terapia e smart working: così Debora affronta l’Epn

Dopo aver iniziato il percorso terapeutico, Debora ha preparato e superato (brillantemente) l’ultimo esame, si è laureata con il massimo dei voti ed è riuscita a organizzarsi con il suo capo per conciliare lavoro e trattamenti, lavorando in smart working mentre si trovava in ospedale.

Debora alla fine ce l’ha fatta: ha completato la laurea magistrale con il massimo dei voti. Proprio come voleva.

Le terapie non le hanno solo regalato la concreta possibilità di convivere con una patologia rara ed estremamente aggressiva se non curata. I farmaci, insieme alla consapevolezza, le hanno donato ciò di cui aveva più bisogno: il tempo. “Se le crisi emolitiche fossero continuate non so se sarei stata ancora in vita oggi. Per fortuna la scienza ci aiuta ogni giorno di più. Ora vivo con più grinta di prima e apprezzo ogni singolo momento che la vita mi offre. Ho qualche livido in più sulle braccia a causa degli aghi canula, è vero, ma chi se ne importa”.

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.