Disabilità invisibili: cosa vuol dire convivere con una Malattia Infiammatoria Cronica dell’intestino

“Non volevamo più essere invisibili, così abbiamo deciso di non nascondere nulla. Volevamo che se ne parlasse”. Chiara De Marchi è una fotografa ed è affetta da rettocolite ulcerosa che assieme alla malattia di Crohn forma il gruppo delle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali. Nel progetto fotografico Invisible Body Disabilities e poi in Resilient Mothers ha voluto raccontare come sia una vita con queste patologie.
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Giulia Dallagiovanna 20 Aprile 2021
* ultima modifica il 12/05/2022
Intervista al Prof. Maurizio Vecchi Direttore d'Unità Operativa Complessa di Gastroenterologia ed Endoscopia proprio all'IRCCS Ospedale maggiore Policlinico di Milano e Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell'Apparato Digerente presso l'Università degli Studi di Milano

"La malattia è iniziata dandomi subito parecchi problemi. Crampi molto forti, diarrea, perdita di peso, ma anche sangue nelle feci. Andavo in bagno fino a 15 volte al giorno. Finivo per trascorrere le giornate trascinandomi dal letto al bagno, era diventata una non vita. Passavo tutto il tempo a piangere sul cuscino. Psicologicamente ero annientata". Chiara De Marchi è una fotografa e ha trascorso così ben due anni della sua vita, fino a quando non è arrivata la diagnosi: rettocolite ulcerosa. Aveva 23 anni.

Se pensi a una persona affetta da disabilità, la immagini in sedia a rotelle, o magari accompagnata dal tipico bastone per ciechi. Alcune malattie, invece, rimangono invisibili. Eppure condizionano completamente l'esistenza di chi ne soffre. Le Malattie infiammatorie croniche dell'intestino (M.I.C.I.) sono tra queste. In Italia ne soffrono circa 200mila persone, che devono spiegare ai propri amici perché non riescono a uscire la sera e al proprio datore di lavoro come mai a volte siano troppo deboli per raggiungere l'ufficio.

"Magari guardi una persona e pensi ‘che bel ragazzo', e poi scopri che un mese prima era su un letto di ospedale per farsi rimuovere 60 centimetri di intestino", fa notare Sonia Chantal Balducci. Lei è affetta da malattia di Crohn e lo sa da quando ha 16 anni. La sua diagnosi è stata più rapida perché ne soffre anche il padre.

Sonia è tra le donne che si sono lasciate fotografare da Chiara, all'interno del nuovo progetto Resilient Mothers. Tutto, però, ha inizio con una mostra itinerante, una cui replica è esposta in forma permanente nei reparti di Chirurgia Generale e Chirurgia d'Urgenza del Policlinico di Milano. Si chiama Invisible Body Disabilities e richiama lo stesso acronimo che identifica le loro malattie: IBD, Inflammatory Bowel Disease. Sessantacinque immagini in bianco e nero che raccontano l'accettazione, la convivenza, ma anche la lotta contro questa presenza invisibile all'esterno. Chiara De Marchi ha poi raccolto i suoi scatti in un libro fotografico dal titolo Women Fighters, edito da Linea Edizioni.

Le M.I.C.I.

Ma cosa sono queste Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali di cui potresti non aver mai sentito parlare? Per farti un'idea, prova a pensare all'ultima volta che ti sei imbattuto in un'influenza intestinale: dopo un paio di giorni di sintomi, ti sentivi già sfinito e senza forze. Ecco, si potrebbe dire che queste persone vivano più o meno con un'influenza intestinale perenne. Ma per capire meglio cosa accada nel loro intestino, abbiamo chiesto aiuto al professor Maurizio Vecchi, direttore d'Unità Operativa Complessa di Gastroenterologia ed Endoscopia proprio all'IRCCS Ospedale maggiore Policlinico di Milano e Direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell'Apparato Digerente presso l'Università degli Studi di Milano.

"Rettocolite ulcerosa e malattia di Crohn sono entrambe patologie che provocano un'infiammazione a livello dell'apparato digerente. Si manifestano in modo improvviso, talvolta acuto oppure più subdolo e per questo ci può essere una latenza nella diagnosi anche molto lunga", ci spiega. Diversi sintomi, tra i quali la diarrea, sono simili. Ci sono però delle differenze che permettono la distinzione tra le due: "Prima di tutto, la rettocolite ulcerosa interessa unicamente il colon, con un'estensione che sin dall’inizio può variare dal solo retto, e quindi i 10-15 centimetri finali del tratto, a tutta quella parte di intestino – prosegue il professore. – Bisogna poi tenere conto che, nel corso degli anni, la sua estensione può aumentare e che quindi una malattia inizialmente limitata può estendersi nel corso del tempo a tutto il colon".

E poi c'è il Crohn, che invece può interessare qualsiasi tratto dell'apparato digerente, dalla bocca fino all'ano. "Tipicamente, però, colpisce il colon e l'ileo, ovvero l'ultimo tratto del piccolo intestino", precisa il professore.

Un'altra distinzione importante riguarda la penetrazione delle due all'interno della parete intestinale. Se la rettocolite ulcerosa interessa solo la mucosa, cioè lo strato più superficiale, la malattia di Crohn ha un coinvolgimento a tutto spessore. "Questo può dar luogo a restringimenti dell'intestino, chiamati stenosi. O, ancora, l'infiammazione può diffondersi in modo importante lungo tutta la parete fino ad arrivare alla superficie, e provocare degli ascessi o delle fistole", aggiunge il professor Vecchi.

Delle IBD non si conosce la causa. E, di conseguenza, nemmeno una cura definitiva. "Se non la colectomia totale con protectomia, ovvero la rimozione completa di colon e retto. Ma funziona solo per la rettocolite ulcerosa ed è un intervento importante, che può comportare l'uso di una stomia (un sacchetto che raccoglie le feci) per un periodo di tempo anche prolungato o in alcuni casi per sempre".

Se ne sei affetto, ci dovrai convivere per tutta la vita, affrontando periodi di remissione e di riacutizzazione. Ci saranno fasi in cui i sintomi si attenueranno e altre in cui si manifesteranno di nuovo, in modo improvviso.

Disabilità che non si vedono

"Il problema di queste malattie è proprio il fatto che sono invisibili – commenta Chantal Balducci. – Guardi una persona e ti sembra sana e in forma, non intuisci il rovescio della medaglia: l'essere bloccato dai crampi, farmaci da assumere ogni giorno, ricoveri in ospedale, interventi". I tuoi amici organizzano un picnic? Dovrai rinunciare, perché non ci sarà un bagno nei dintorni. Una vacanza all'estero? E se poi stai male improvvisamente, che fai? Ma soprattutto, quanto può essere difficile finire l'università quando la tua vita deve fare i conti con i ritmi di una malattia che ti toglie le energie? E se hai un lavoro a tempo pieno, devi sperare che il tuo capo non abbia nulla da obiettare contro le tue assenze, necessariamente numerose.

Sono tutte considerazioni che ha dovuto affrontare anche Chiara De Marchi, che oggi è assunta nel settore del Marketing e della Comunicazione come categoria protetta, con un orario part-time. "Prima della diagnosi, ho passato due anni interi in bagno. Ora mi sono dovuta scegliere una vita su misura, perché quando esagero poi ne subisco le conseguenze – ci racconta. – Riesco comunque a fare tante cose, perché mi imbottisco di farmaci e purtroppo so che prima o poi potrei vederne anche gli effetti collaterali. Ho assunto immunosoppressori per diversi anni, che mi hanno dato tanti benefici. Ma poi sono stata ricoverata per rischio setticemia dopo una banale sinusite. E anche il citomegalovirus, di cui diverse persone neanche si accorgono, mi ha colpito in modo molto intenso. Mi sono serviti due mesi per rialzarmi".

"Prima della diagnosi, ho trascorso due anni interi in bagno"

Eppure, quando ti trovi davanti una ragazza di poco più di 30 anni, con tre figli e in apparenza piena di energia, come puoi avere un'idea di tutto quello che ha dovuto passare? "Mi rendo conto che venga molto più spontaneo essere comprensivi nei confronti di una persona la cui disabilità sia anche fisica", ammette Chantal.

"Nei periodi di attività più intensa della malattia, il paziente è totalmente disabile – conferma il professor Vecchi. – Non può muoversi da casa, non può andare al lavoro, spesso è disidratato e anemico e insorge anche la febbre. Nei casi più seri, le acuzie devono essere gestite con un ricovero in ospedale. Và detto che, negli ultimi anni, queste fasi così gravi non sono molto frequenti perché abbiamo farmaci più efficaci e perché i pazienti ricorrono al medico prima e così permettono un intervento terapeutico tempestivo. Sicuramente, però, quando la malattia è attiva l'impatto sul quotidiano è significativo. È difficile anche uscire a cena con gli amici, coltivare delle relazioni, avere dei rapporti sessuali. Lo scopo della terapia è proprio quello di tenere sotto controllo i sintomi, anche se le cure possono essere impegnative e, ovviamente, sempre continuative".

A proposito di terapie

Di farmaci oggi ne esistono diversi e, se non possono guarire la malattia, sono comunque in grado di tenerla sotto controllo e di migliorare la qualità della vita del paziente. Quelli biologici, ad esempio, "che sarebbe più corretto chiamare biotecnologici – precisa il professor Vecchi, – perché sono farmaci ad alta tecnologia, prodotti da colture cellulari che generano anticorpi in grado di bloccare l'infiammazione in modo efficace. Possono essere molto costosi, anche migliaia di euro l'anno, ma se consideriamo che il paziente con essi magari evita il ricovero, conduce una vita più normale e può anche andare a lavorare, è probabile che i risparmi ‘indiretti' ripaghino ampiamente questi costi".

Prima si poteva ricorrere solo a immunosoppressori e a cortisone, ma quest'ultimo ha una serie di effetti collaterali che non ne permettono l'utilizzo prolungato: aumenta il rischio di diabete, di osteoporosi o di cataratta. Per non parlare dei cambiamenti estetici (irsutismo, gonfiore al viso), che possono risultare complicati da accettare, soprattutto per una persona giovane.

"Nella malattia di Crohn si interviene chirurgicamente solo sulla parte di intestino più malata. Spesso il paziente va incontro a diverse operazioni nel corso della vita"

Esiste poi la possibilità di intervenire chirurgicamente e le modalità sono diverse proprio in base alla malattia. Per la rettocolite ulcerosa ad esempio si può procedere alla resezione di tutto il colon, attaccando l'ileo direttamente al retto. "Non è detto, però, che il risultato sia sempre ottimale, perché il paziente continua comunque ad avere la malattia, anche se viene limitata al retto", spiega il professore. Un intervento più risolutivo è la rimozione di colon e retto, ricostruendo poi una specie di tasca, chiamata pouch, che permetta di ricanalizzare le feci attraverso l'ano. "Molti pazienti tornano a una vita anche totalmente normale, ma ovviamente si tratta di un intervento impegnativo, che va seguito da chirurghi esperti".

Nel Crohn, invece, si opera soprattutto quando subentra una complicanza. Ad esempio, se emergono ascessi o fistole nell'addome, oppure in caso di occlusione intestinale. "Si rimuove solo la porzione più malata, perché sappiamo che la malattia molto spesso recidiverà, con particolare frequenza proprio nel punto in cui riattacco le due parti di intestino. È quindi possibile che il paziente affetto da Crohn possa andare incontro a più interventi nel corso della vita”. Un campo minato, insomma, dove il massimo della cautela è d'obbligo.

Invisible Body Disabilities

"Volevo dare sfogo a tutto il disagio interiore che la malattia mi aveva provocato e soprattutto volevo che se ne parlasse, che si conoscessero queste patologie". Nasce così in Chiara De Marchi l'idea di una mostra fotografica, con il supporto di AMICI Onlus (Associazione Nazionale per le Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino), di cui è socia e volontaria. "Non volevamo più essere invisibili, così abbiamo deciso di non nascondere nulla". Coraggio e pance piene di cicatrici, sorrisi e stomie, successi e cadute. L'intero percorso che le protagoniste degli scatti avevano vissuto fino a quel momento è rimasto impresso in quelle immagini.

"Non volevamo più essere invisibili, così abbiamo deciso di non nascondere più nulla"

Chiara le ha raggiunte scrivendo post su gruppi Facebook dedicati in cui raccontava il progetto. Hanno subito aderito in tantissime. "Era il 2013 e decisi di concentrarmi soprattutto sulle donne, anche madri, perché proprio in quel periodo avevo scoperto di essere incinta. Mio figlio è stato il motore che mi ha dato la forza per trasporre in foto storie di persone che avevano la mia stessa patologia".

La fotografia è una passione che le ritorna quando finalmente riceve una diagnosi e poi una terapia adatta. Con i dolori e gli altri sintomi che si attenuano, inizia a intravedere la possibilità di tornare a vivere una vita quasi normale, coltivando anche i propri sogni. "Non volevo che tutto ruotasse attorno alla mia malattia. Mi sentivo un peso per i miei genitori e per il mio ragazzo. Cadevo spesso in depressione. Dopo i farmaci, invece, ho trovato un lavoro e ho iniziato a frequentare corsi di fotografia. Mi ci ero appassionata fin da piccola, grazie a mio padre che scattava ancora con il rullino".

Invisible Body Disabilities nasce prima come sito web, con relative pagine Facebook e Instagram, e poi diventa una mostra itinerante che ha già visto 16 tappe, di cui una in Svizzera.

"Si è creata subito una connessione con le persone che si sono lasciate fotografare, il fatto di aver attraversato lo stesso dolore ci ha accomunate. È stato un raccontarsi a vicenda, un condividere le nostre storie in modo molto naturale. Non sembrano nemmeno servizi fotografici, ma momenti condivisi da cui è nata anche un'amicizia. E quindi magari nella foto si vede un sorriso, perché in quel momento stavamo sdrammatizzando con una battuta. È stato bello", ricorda l'autrice.

Maternità resiliente

E ora arriva un nuovo progetto, Resilient Mothers, che si concentra unicamente sul rapporto tra maternità e malattia. Tra le donne fotografate compare appunto anche Sonia Chantal Balducci. "Ho deciso di partecipare dopo un convegno organizzato al Policlinico di Milano, dove le persone potevano rivolgere domande agli specialisti – ricorda. – Mi sono accorta che diverse donne conoscevano poco sull'argomento. A un certo punto, una ha chiesto: ‘Ma potrò avere figli?' E il gastroenterologo presente ha risposto ‘Ci mancherebbe!'. E infatti io ero incinta proprio in quel periodo".

La gravidanza va, se possibile, programmata e deve essere vissuta come un percorso da fare con il proprio ginecologo e il proprio gastroenterologo, e poi il pediatra. Ma le IBD non la impediscono. Chantal, di figli, ne ha tre: "È meglio portarla avanti quando la malattia è in una fase di remissione, anche se non è semplice far coincidere le due cose. Le mie prime due gravidanze sono andate benissimo, mentre con la terza ho avuto qualche difficoltà perché a un certo punto i sintomi si sono intensificati. Mi ricordo poi le contrazioni uterine contro le pareti dell'intestino che aumentavano i crampi e di come avessi sempre paura che i farmaci che assumevo potessero rappresentare dei rischi per il bambino. L'unica soluzione è affidarsi ai propri medici".

"Ai farmaci bisogna prestare attenzione, perché alcuni di questi non devono assolutamente essere prescritti durante la gravidanza – conferma il professor Vecchi. E aggiunge: – Altri invece sono tollerati, perché non arrivano a oltrepassare la barriera della placenta, oppure perché non sono comunque dannosi per il feto. D’altra parte è in genere molto importante che la malattia sia tranquilla all’inizio della gravidanza e che la si mantenga tale durante tutto il periodo, perché i pericoli maggiori al buon esito della gravidanza vengono dalla possibile attività infiammatoria della malattia piuttosto che dai farmaci che possiamo usare. Se è in fase di remissione al momento del concepimento, è facile che così si mantenga durante tutta la gravidanza, perché quest’ultima può essere considerata come una sorta di ‘immunosoppressione' che l'organismo mette in atto per accogliere e tollerare dentro di sé il prodotto del concepimento. Questa immunosoppressione gravidica riesce a tenere sotto controllo anche i sintomi delle IBD, dal momento che la causa di queste patologie è proprio l'eccessiva immunità che arriva ad aggredire anche l'intestino".

Sonia Chantal Balducci fotografata all’interno del progetto Resilient Mothers

Per Chiara De Marchi la nascita del suo primo figlio ha rappresentato una rinascita. È stato quello, racconta, il momento in cui è riuscita ad accettare tutto ciò che le era capitato. "Mi è stato tolto molto, mi sono sentita come se valessi la metà. Riuscire a mettere al mondo una vita, che ora sono tre, mi ha fatto capire di avere ancora tanta forza dentro di me e che la potevo usare per creare qualcosa di meraviglioso. Le mie tre gravidanze sono state diverse tra loro, ho incontrato delle difficoltà, ma non mi sono mai arresa. Con Resilient Mothers volevo lanciare proprio questo messaggio: se una donna ha il desiderio di diventare madre, deve crederci. È sempre possibile, magari attraverso l'adozione".

Meno invisibili e più libere di rivendicare le proprie esigenze. Perché sì, sono malate. Anche se non si direbbe, anche in apparenza sembra andare tutto bene. Chiedono comprensione, non compassione: "Quando una persona ti compatisce, si limita a dispiacersi per te – conclude Chantal. – La comprensione invece va oltre. Ti capisco, quindi provo a mettermi nei tuoi panni, a sentire quello che mi stai raccontando. Lo percepisco, comprendo le tue difficoltà e quindi anche le tue esigenze e i tuoi limiti. Per me è stata una salvezza sentirmi capita".

Credits photos: tutte le fotografie provengono dai progetti Invisibile Body Disabilities e Resilient Mothers della fotografa Chiara De Marchi

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