I cambiamenti climatici minacciano anche il camoscio appenninico: rischio estinzione nel 2070

A dirlo è un recente studio condotto dai ricercatori dell’università di Siena e dell’università di Pavia nello storico habitat di questa specie, ossia nel Parco nazionale di Abruzzo, Lazio e Molise. Secondo gli esperti, l’aumento delle temperature medie riduce la disponibilità di riserve alimentari per il raro ungulato.
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Federico Turrisi 29 Agosto 2020

Gli ultimi dati sulla specie Rupicapra pyrenaica ornata, nome scientifico del camoscio appenninico, sembravano confortanti: anche se il numero di esemplari è ancora piuttosto ridotto (siamo a poche migliaia in tutto,1 sparsi tra i parchi nazionali d'Abruzzo, Lazio e Molise, Gran Sasso e Monti della Laga, Majella e Monti Sibillini) la popolazione sull'Appennino centrale è in aumento da qualche anno. E pensare che all'inizio del Novecento la specie era sull'orlo dell'estinzione. Ma adesso arriva uno studio condotto da un gruppo di ricercatori delle università di Siena e di Pavia che è un'autentica doccia fredda: il camoscio appenninico rischia di scomparire entro il 2070 a causa del cambiamento climatico.

"Le montagne sono habitat fortemente stagionali, che richiedono adattamenti speciali per gli animali selvatici e la dinamica della popolazione degli erbivori di montagna è in gran parte determinata dalla disponibilità di ricche risorse alimentari per sostenere l'allattamento e lo svezzamento durante l'estate", spiegano i ricercatori. Il problema è che l'aumento delle temperature modifica la stagionalità e le qualità nutrizionali delle piante, e fa sì che alcune specie vegetali si spostino verso quote più alte o scompaiano del tutto.

In base alle loro simulazioni sulle temperature primaverili future e sulla presenza di adeguate risorse alimentari, gli esperti hanno previsto una mortalità invernale dei cuccioli di camoscio dal 28 al 95 per cento. Che cosa significa per la specie? Arrivare praticamente all'estinzione entro il 2070 nel nucleo del suo areale storico nel Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, dove è presente l'unica popolazione naturale (i nuclei presenti negli altri parchi nazionali dell'Italia centrale sono frutto di successive reintroduzioni).

Dagli anni Settanta l'aumento delle temperature primaverili nell'area presa in considerazione dagli studiosi, ovvero il Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise, è stato di due gradi centigradi e ha già determinato la riduzione della vegetazione pascolabile dal camoscio, incidendo negativamente sulla sopravvivenza invernale dei piccoli. In più, la competizione con un'altra specie come il cervo e la ricolonizzazione boschiva delle praterie stanno contribuendo a impoverire ulteriormente le risorse già messe a rischio dai cambiamenti climatici.

Il camoscio appenninico è considerato tuttora una specie particolarmente protetta (il comitato italiano dello Iucn, l'Unione internazionale per la conservazione della natura, l'ha classificato come Vulnerabile) e la sua caccia è vietata ai sensi della legge 157/92. Ma questo potrebbe non bastare. C'è infatti un altro elemento che non depone a favore della sopravvivenza del camoscio appenninico, ossia la sua scarsa variabilità genetica. Ciò rende la specie meno capace di reagire a rapidi cambiamenti ambientali rispetto ad altri erbivori di montagna.

Fonte | "Climatic changes and the fate of mountain herbivores", pubblicato su Climatic Change il 12 agosto 2020.