I fondali oceanici nuova frontiera dell’esplorazione mineraria. Ma a che prezzo?

L’esplorazione mineraria dei fondali oceanici, tra criticità tecnologiche e l’impatto ambientale devastante, è un “nuovo Klondike” che sembra inevitabile.
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Andrea Di Piazza Geologo specializzato in Green Management
25 Ottobre 2023 * ultima modifica il 25/10/2023

Negli ultimi anni, demografia, sviluppo tecnologico e progressivo esaurimento delle risorse terrestri stanno accrescendo l'interesse per lo sfruttamento dei fondali marini a scopi minerari: una frontiera di esplorazione immensa, se si considera che circa il 70% della superficie terrestre è occupato da mari e oceani. Risorse che potrebbero essere recuperate, però, pagando un altissimo costo ambientale. Questo nuovo "Klondike", come l'ha ribattezzato qualcuno, sembra fare a pugni con i concetti di economia circolare e sostenibilità, senza considerare i devastanti effetti che le attività antropiche stanno già provocando sopra il livello del mare. Pronti dunque a distruggere il prossimo ecosistema?

"L'oro subacqueo"

L'interesse per l'estrazione mineraria in acque profonde riguarda principalmente tre tipologie di depositi: i noduli polimetallici (o noduli di manganese), i solfuri "massicci" o globulari e le croste di ferromanganese ricche in cobalto.

I noduli sono, come dice la parola stessa, delle sferule di dimensioni centimetriche simili a patate che si accumulano sul fondo degli oceani ad una profondità compresa tra 3.500 e 6.500 metri e contengono metalli come manganese, ferro, nichel, cobalto, rame, titanio, molibdeno, tutti estremamente utili per le nostre applicazioni tecnologiche. Si formano per accrezione dei metalli disciolti nell'acqua attorno ad un nucleo, generalmente solido (es. un'altra roccia, un dente di squalo), sia per accrezione diretta che per processi diagenetici (in questo caso all'interno dei sedimenti). La crescita è estremamente lenta, se si considera che quelli formati per precipitazione diretta si accrescono di circa 10 millimetri ogni milione di anni, mentre quelli diagenetici hanno una crescita stimata tra 10 e 100 millimetri ogni milione di anni.

I depositi di solfuro, cosiddetti "massicci" o globulari, si formano in aree vulcaniche attive sottomarine in un range di profondità che può variare tra i 1.000 e i 4.000 metri. Si formano per precipitazione e accumulo di metalli provenienti dai fluidi caldi che fuoriescono dalle zone vulcaniche come quelle della dorsale medio-atlantica. Il fluido caldo che fuoriesce dai camini vulcanici, a contatto con l'acqua molto fredda, condensa e fa precipitare metalli ed elementi, formando degli strati che mantellano il fondale. Tra i minerali che si formano vi sono la galena, che contiene il piombo, la sfalerite (contiene zinco), la calcopirite (ricca in rame), e si trovano poi argento, oro, bario, nichel e terre rare.

In alcuni ambienti sottomarini, manganese e ferro precipitano dalla fredda acqua di mare sugli abissi formando delle croste molto dure spesse fino a circa 25 cm. Si tratta delle cosiddette "croste di ferromanganese" che aderiscono alle superfici di montagne, creste ed altipiani sottomarini, ad una profondità molto varia e compresa tra 400 e 7.000 metri. Queste formazioni sono piuttosto ricche in cobalto, ma contengono anche nichel e altri preziosi elementi in traccia tra cui le terre rare. Tra le zone più ricche di queste croste vi sono le cime piatte dei rilievi sottomarini (cosiddetti guyot) del Pacifico occidentale.

I depositi non si trovano ovunque ma sono concentrati in alcune zone del globo, a seconda del contesto geologico. Tra le zone più interessanti dal punto di vista esplorativo vi sono la "Zona di Clarion Clipperton", tra Hawaii e California, la Dorsale Medio Atalntica e l'Oceano Indiano centrale. Secondo alcune stime, se la quantità totale di noduli polimetallici nei principali oceani è pari a circa 500 miliardi di tonnellate, i solfuri ammonterebbero a 1,4 miliardi di tonnellate: il valore economico complessivo di queste risorse è stimato nell'ordine dei 385 miliardi di dollari.

Distribuzione dei principali depositi di noduli polimetallici e solfuri "massicci" sulla crosta terrestre (da Nautilus Minerals, 2016)

Le tecnologie impiegate

L’estrazione mineraria in acque profonde richiede tecnologie molto avanzate, dato anche l'ambiente estremo in cui opera: tra queste vi sono veicoli telecomandati  e attrezzature specializzate per raccogliere e trasportare minerali in superficie.

Negli ultimi decenni sono stati individuati almeno quattro principali sistemi di estrazione in acque profonde. I più rudimentali vedono il trascinamento di una benna che draga letteralmente il fondale marino e viene poi ritirata sulla nave per raccogliere i depositi. Le benne vengono utilizzate anche in un'altra tipologia di estrazione che vede una linea continua in serie, collegata ad una nave. A partire dagli anni '70 sono stati poi impiegati i veicoli sottomarini; oggi infatti la coltivazione del fondale viene fatta attraverso veicoli telecomandati (Remotely Operated Vehicles, ROV) o veicoli sottomarini autonomi (Autonomous Underwater Vehicles, AUV) che, attraverso tubazioni in pressione, risucchiano il materiale dal fondale trasportandolo ad una nave in superficie.

Il cuore delle più moderne tecnologie estrattive di fondale è il Deep-Sea Mining Vehicle (DSMV), il veicolo terminale che si muove sul fondale dragando e aspirando i materiali incontrati. La ricerca ingegneristica si sta ancora perfezionando per realizzare modelli ultra-tecnologici e ad alta efficienza, capaci di operare a grandi profondità. Ad oggi non esistono tecnologie a larga scala in attività, tuttavia vari Paesi e gruppi di ricerca hanno sviluppo dei prototipi e test di profondità per valutare funzionamento e grado di efficienza delle operazioni.

Due esempi di prototipi di DSMV (Fonte: Leng et al., 2021 – "A brief review of recent progress on deep sea mining vehicle")

La regolazione e l'interesse estrattivo

Lo sfruttamento dei fondali marini ha attirato l'interesse dell'industria mineraria internazionale e
diversi Paesi, tra cui Stati Uniti d'America, Russia, Australia, Cina, Giappone, Corea, Francia, India e Germania. Secondo l'USGS (il servizio geologico americano) l'estrazione mineraria dai fondali oceanici potrebbe soddisfare il 5% della domanda di materie prime critiche entro il 2030 e raggiungere il 15% entro il 2050. Uno sviluppo commerciale che deve passare necessariamente dalla regolazione.

Sin dai primi anni '80 il tema è regolato dalla United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS) e dall'Accordo del 1994 per l'implementazione della Parte XI della stessa convenzione.
Il campo di intervento della UNCLOS riguarda le superfici dei fondali marini all'interno della cosiddetta "Area", ovvero una superficie che ricomprende per intero tutte le zone in cui è nota o supposta la presenza di minerali potenzialmente sfruttabili economicamente e tecnicamente.

Istituita dalla UNCLOS è la International Seabed Authority (ISA), una organizzazione internazionale autonoma attraverso la quale gli Stati aderenti organizzano e controllano le attività nell'Area, con l'obiettivo di amministrare le risorse minerarie presenti. L'ISA, a seguito della presentazione di un adeguato programma di lavori, rilascia i permessi di prospezione, esplorazione e coltivazione, valutando l'impatto ambientale e controllando lo sviluppo dei lavori autorizzati. Sono 169 i Paesi membri dell'ISA tra cui anche l'Italia che, dal 1994, è membro del prestigioso gruppo A del Consiglio, ove siedono i Paesi maggiori consumatori e importatori delle risorse minerarie dei fondali marini (in particolare rame, zinco, nickel, argento, molibdeno e manganese). Il lavoro dell'ISA è però criticato da parecchi articoli (di stampa ma anche scientifici) che sottolineano le ingiustizie degli attuali regimi normativi e la mancanza di democrazia nelle decisioni prese per garantire una risorsa comune. Le critiche riguardano principalmente il modo in cui vengono assegnati i contratti di esplorazione, chi ne trae profitto e la mancanza di trasparenza del lavoro dell'autorità.

Non solo grane regolatorie. Lo sviluppo commerciale dell'attività mineraria sottomarina è ancora al palo – per fortuna -, esistono infatti alcune criticità non ben risolte. Tra queste vi è per esempio un fattore legato al processo di estrazione tramite cingolati che, a causa della pressione esercitata dal veicolo di fondale sui sedimenti, potrebbero alterare la distribuzione e l'affioramento dei noduli sul fondale rendendone difficile se non impossibile l'estrazione. Vi sono poi le sfide tecniche da superare per rendere questa tecnologia economicamente conveniente: studi preliminari sul ciclo di vita delle attività off-shore, hanno mostrato come i consumi energetici associati siano estremamente superiori rispetto a quelli delle attività on-shore, per non parlare delle difficoltà sul trasporto verticale e la lavorazione dei minerali. Ma la criticità più importante è senza dubbio quella legata all'impatto ambientale delle operazioni.

Il devastante impatto ecologico

Secondo molti studi, le attività estrattive di profondità avrebbero effetti devastanti sull’habitat marino, su flora e fauna a qualsiasi profondità. Il dragaggio del fondale avrebbe un effetto mortale diretto non solo sugli organismi che vivono in prossimità del sito di lavorazione, ma anche nei dintorni, per via del sollevamento di voluminose nuvole di sedimenti che si andrebbero a depositare nei dintorni ricoprendo e uccidendo organismi sessili e immobili. Anche la vita microscopica, in larga parte ancora poco o del tutto sconosciuta alle grandi profondità, verrebbe distrutta.

I rumori e le vibrazioni generati dalle attività estrattive potrebbero poi disorientare e disturbare la vita di mammiferi marini come balene e delfini o delle tartarughe, mentre le attività di pulizia dei sedimenti a bordo delle navi di supporto crea il problema della gestione delle acque di lavaggio cariche di sedimenti. Vengono rilasciate in mare? Il carico solido potrebbe influenzare la densità dell'acqua di mare alterando localmente le correnti, con tutto ciò che ne consegue.

I pennacchi di sedimenti e il rumore generati dall’attività mineraria hanno una varietà di possibili effetti sui taxa pelagici (fonte: Drazen et al., 2020 – "Midwater ecosystems must be considered when evaluating environmental risks of deep–sea mining")

Oggi la ricerca si sta concentrando sulla mitigazione degli effetti ambientali dovuti all’attività estrattiva di profondità, tuttavia si tratta ancora di sistemi molto costosi, che farebbero lievitare ulteriormente i costi (già altissimi) di estrazione e lavorazione delle materie prime. I modelli economici sull'approvvigionamento delle materie necessarie allo sviluppo industriale mondiale mostrano però che la circolarità delle risorse, da sola, non è ancora una soluzione conveniente e non lo sarà almeno fino alla fine del secolo. Dovremo ancora estrarre materie prime dall'ambiente. L'enorme quantità di risorse minerarie depositate nei fondali marini e lo sviluppo della tecnologia sembrano descrivere un futuro inevitabile: la coltivazione degli abissi partirà, è questione di tempo. Ma a che prezzo?

Dopo una laurea in Geologia ed un dottorato di ricerca presso l'Università degli Studi Roma Tre, ha lavorato come ricercatore presso altro…