Dune di scarti tessili ricoprono la sabbia del deserto di Atacama, in Cile. Stanno circolando in questi giorni fotografie che mostrano chiaramente l’altra faccia della fast fashion. Mentre continuiamo a desiderare e acquistare capi nuovi a prezzi ridotti, ogni anno migliaia di tonnellate di vestiti invenuti vengono gettati, finendo spesso per contaminare l’ambiente.
Prodotti per lo più in Cina e Bangladesh, dove la manodopera costa meno e permette di mantenere i prezzi più bassi, i capi d’abbigliamento raggiungono i punti vendita delle catene della fast fashion in Europa, in Asia, e negli Stati Uniti. Finita la stagione in vetrina, arrivano in Cile, da tempo polo di smistamento dell’abbigliamento invenuto e di seconda mano, per essere distribuiti in Sud America.
Si stima che circa 59.000 tonnellate di vestiti raggiungano ogni anno il porto di Iquique, nel nord del Cile, dove vengono venduti a commercianti di abbigliamento o contrabbandati per essere infine distribuiti agli altri paesi dell’America Latina. Addirittura 39.000 tonnellate, però, finiscono per non essere comprate e alimentano la crescita di discariche abusive, come quella del deserto montuoso di Atacama.
«Ciò che non è stato venduto a Santiago o che non è stato contrabbandato in altri Paesi, rimane qui, perché portarlo fuori dalla zona franca non sarebbe redditizio», ha raccontato all’Agence France-Presse Alex Carreño, ex impiegato del porto che conosce da vicino la realtà delle discariche di abbigliamento a cielo aperto.
L’altra grave conseguenza dello smaltimento illecito dei rifiuti tessili riguarda un tema ambientale: i vestiti, infatti, non sono biodegradabili e contengono sostanze chimiche tossiche che a lungo andare possono contaminare il terreno.